Fondamenti Del Diritto Romano
Fondamenti Del Diritto Romano
I romani non hanno lasciato un gran numero di definizioni di diritto: ne possediamo solo una,
consegnata ai posteri attraverso il Digesto dell’imperatore Giustiniano.
Il diritto romano è un diritto sempre in forte movimento. La codificazione giustinianea, tuttavia, rappresenta
un momento fondamentale, perché ci ha permesso di conoscere le norme e gli istituti che la giurisprudenza
romana dell’età classica aveva costruito; senza questa codificazione noi oggi non avremmo saputo nulla del
patrimonio del diritto romano. I romani hanno costruito un sistema di concetti, di regole e di principi
giuridici relativo a questo fenomeno sociale che è il diritto.
Pertanto, il diritto romano è un lascito, un’eredità non perduta (come sostengono alcuni),
secondo il prof. Cardilli è un’eredità vivente.
Noi siamo abituati a studiare il diritto in modo deduttivo, non partendo dal problema concreto ma partendo
dal codice. Nello studio del diritto romano ricorreremo ad un diverso metodo, basato su due tipi di attività:
- nella parte introduttiva utilizzeremo le fonti per capire se le concezioni attuali abbiano un
fondamento ideologico (c.d. capacità di svelamento dell’ideologia del diritto contemporaneo
attraverso il diritto romano); questa attività è fondamentale in quanto il diritto romano rappresenta il
fondamento delle attuali categorie giuridiche ed è la base di molti altri Paesi (es. Cina).
- nella parte monografica ricorreremo al metodo induttivo per capire come nasce nella nostra
concezione lo schema giuridico dell’obbligazione, partiremo dalle fonti e dai problemi che sono stati
posti in materia.
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NOZIONE DI DIRITTO
(Concezione contemporanea a confronto con la concezione romana, differenze e analogie)
Il Digesto viene indicato con D., il primo numero è il libro, il secondo numero è il titolo, il terzo numero è il
numero del frammento (il frammento può essere diviso in paragrafi; il primo paragrafo non è numerato è
indicato come pr., principium, i paragrafi successivi sono numerati 1, 2, 3…).
L’opera inizia con un frammento del giurista ULPIANO (giurista dell’età dei Severi, 200-235 d.C.).
Questo primo frammento è tratto dalle Istitutiones di Ulpiano.
Le Istituzioni vengono indicate dai romani come “elementa prima”; le opere istituzionali dei giuristi romani
erano le opere dedicate a chi si affacciava allo studio il diritto e indicavano i primi elementi essenziali.
In questo frammento Ulpiano si rivolge a coloro che approcciavano per la prima volta con il diritto.
(D. 1, 1, 1, pr. - 1)
“Chi sta per dedicarsi al diritto, in primo luogo occorre che conosca da dove derivi il nome diritto (ius).
Orbene, <il diritto> è chiamato <con tale nome poiché deriva> dalla giustizia: infatti, come Celso definisce con eleganza,
il diritto è l’arte del buono e dell’equo (ars boni et aequi)”
Ulpiano afferma innanzitutto che la parola “diritto” deriva da “giustizia”. Oggi abbiamo un po’ perso
questo potenziale legame linguistico: ius-iustitia è più evidente in latino, ius è una parte di iustitia.
In realtà, sappiamo che caso mai è il contrario: dal punto di vista etimologico è iustitia a derivare da ius.
Quella di Ulpiano è una paraetimologia, un’etimologia al contrario; una paraetimologia vuole solo
indicare un collegamento di significato tra due parole.
Quindi la prima conclusione che possiamo trarre è la seguente: anche per i giuristi romani diritto e
giustizia sono due cose diverse (la giustizia non è il diritto e il diritto non è la giustizia), però devono
essere fortemente legate tra loro.
Per spiegare il collegamento tra diritto e giustizia Ulpiano sente il bisogno di citare il giurista Celso (un
secolo più giovane di Ulpiano, ha operato sotto l’imperatore Adriano; Ulpiano e Celso sono fra i più
grandi giuristi che la tradizione ci ricorda).
Il diritto deriva dalla giustizia e per questo motivo Celso lo definisce come l’arte del buono e dell’equo.
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Per spiegare questa definizione è necessario tenere conto dell’esistenza di diverse tecniche definitorie:
- TECNICA DEFINITORIA DELLA PARTITIO: descrivo la cosa da definire descrivendo le varie
parti che la compongono;
- TECNICA DEFINITORIA PER GENUS ET SPECIES (per genere e specie): indico il genere
prossimo dell’oggetto che voglio definire e poi lo specifico.
Questa definizione di diritto è stata tra le più studiate. Fino al ‘700, fino all’illuminismo giuridico, essa
non ha mai posto problemi, è sempre stata compresa. Le incomprensioni iniziano quando inizia a
diffondersi l’idea di diritto non come contenuto ma come forma (c.d. positivismo giuridico: è diritto solo
ciò che è positivamente posto dall’ordinamento giuridico). Gli studiosi del diritto romano del ‘900,
influenzati dal positivismo giuridico, ritengono che questa definizione non sia una definizione di diritto
ma una definizione di “scienza giuridica” e, pertanto, vada rifiutata.
Tuttavia, questa definizione va considerata come una vera definizione del diritto;
indipendentemente dai problemi presenti per la sua comprensione.
Un’ars non nasce da sola, non esiste in natura, implica un artifers; un’arte prevede necessariamente
l’esistenza di qualcuno che la conosca e la sappia esercitare (un essere umano, un artefice).
Dietro la scelta di questa parola vi è la consapevolezza che il diritto non esiste come tale in natura, ma
esiste perché ci sono gli esseri umani, il diritto è necessario per disciplinare le relazioni tra esseri umani.
Alla base di ciò vi è un’idea dinamica del diritto: avere l’ars del diritto e essere un artifers significa
saper produrre diritto, saperlo interpretare e saperlo applicare (il diritto come arte include la produzione,
l’interpretazione e l’applicazione del diritto).
Questa idea è antitetica alla nostra concezione del diritto, una concezione statica: il diritto è dato da un
complesso di norme poste validamente dall’ordinamento; per noi la produzione è il processo che porta
alla formazione del diritto. C’è poi il momento interpretativo che è fuori dal diritto, permette di chiarire
cosa significa quel diritto. Infine c’è l’applicazione del diritto che dovrebbe teoricamente consistere in
un’attività meccanica di applicazione deduttiva della regola al caso concreto.
Nella concezione di ars, invece, i tre momenti hanno una costruzione unitaria.
È ius il momento produttivo del diritto, è ius il momento interpretativo ed è ius il momento applicativo.
- I romani avevano una concezione dinamica del diritto, noi abbiamo una concezione statica.
- I romani avevano una concezione sostanziale del diritto, noi abbiamo una concezione formale.
Ars di cosa? Quale è la finalità del diritto come ars, ciò che lo distingue dalle altre arti?
La specificità del diritto è data dal buono e dell’equo (elementi fondamentali).
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AEQUUM (equità)
L’equità come concepita dai romani non può essere letta in chiave canonica;
i romani non intendono l’equità come deviazione dalla regola giuridica comune.
Normalmente c’è una regola generale ed astratta che deve essere applicata, però a volte questa
applicazione subisce una deviazione in ragione dell’equità, cioè per dare maggiore attenzione al caso
particolare (ad esempio, in materia di esecuzione coatta per inadempimento del debitore, la regola
generale è la responsabilità patrimoniale del debitore, tuttavia qualora il debitore sia una vedova con otto
figli l’applicazione della regola generale potrebbe porre problemi di equità).
Tuttavia, il principio di eguaglianza nel diritto romano non è mai stato pienamente realizzato (basti
pensare alla presenza degli schiavi); la società romana è una società gerarchica, non vi sono idee di
egalitarismo (idee emerse con la Rivoluzione francese, ma non pienamente realizzate nemmeno nel
diritto attuale, si pensi al caso dei migranti).
Per i romani l’eguaglianza è all’interno di una società gerarchica. I romani partono dall’idea che la realtà
è caratterizzata dalla diseguaglianza e con il termine “persona” indicano qualsiasi essere umano.
- Noi abbiamo una visione della società individualistica; nella prospettiva giuridica tendiamo ad
isolare il singolo individuo soggetto di diritto (dotato di capacità giuridica e di capacità di agire).
- I romani non guardano mai all’essere umano come isolato, essi guardano all’essere umano
nell’ambito delle varie comunità in cui si trova ad operare.
o La prima comunità è la famiglia. All’interno della famiglia poi distinguono tra: capo
famiglia, figlio, moglie, nipote, schiavo… c.d. status familiae, ossia la condizione giuridica
all’interno della famiglia. La struttura di questa prima comunità è fortemente gerarchica.
o La seconda comunità è la città (c.d. status civitatis). All’interno della città poi distinguono
tra: cittadino romano, latino, straniero, italico…
o La terza comunità, la più ampia, è la società umana (c.d. status liberatati). All’interno della
società umana poi distinguono tra: libero e schiavo.
Ognuno ha una sua precisa configurazione.
A Roma non c’è un’eguaglianza nel senso di egalitarismo: la società è strutturata in modo gerarchico,
perciò tutti sono uguali all’interno del loro status.
La società romana è una società dinamica: permette ai suoi membri di modificare la condizione economica e
sociale di partenza, ha capacità di mobilità sociale; uno schiavo può diventare libero e cittadino romano
(ovviamente il cittadino romano diventato tale da schiavo non potrà essere uguale ad un cittadino nato libero,
da qui la distinzione tra ingenui e liberti).
Alla luce di quanto detto, l’eguaglianza per i romani è un’eguaglianza negli status.
Eguaglianza all’interno di ogni singolo statuto giuridico in cui le persone sono collocate
(il sistema giuridico dei patres deve essere uguale, il sistema giuridico dei figli deve essere uguale,
il sistema giuridico degli schiavi deve essere uguale…).
Si tratta di un sistema giuridico a vocazione universale.
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- BONUM (arte del buono o del bene).
Inizialmente le sentenze dei giudici non dovevano essere motivate. La necessità di ratio
deriva dal dibattito dei giuristi romani; questi ultimi ad un certo momento della storia del
diritto romano iniziano a motivare, a dare un parere ragionevolmente fondato.
Il sistema giuridico degli ordinamenti attuali è un sistema giuridico verificabile.
Secondo Celso, la conoscenza del diritto romano oggi può essere utilizzata come strumento di critica, di
stimolo rispetto alle categorie attuali: il diritto romano diventa un modello di critica dell’attuale.
Per i romani il contenuto del diritto è un elemento essenziale: è il contenuto che ci fa capire se una regola è
giuridica (se non rispetta il bonum e l’aequum non è diritto).
Questa affermazione è in netto contrasto con la concezione attuale del diritto: è diritto ciò che viene disposto
dalla norma validamente prodotta (si guarda alla forma e non al contenuto).
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GIUSTIZIA
Cosa intendevano i romani per giustizia?
Alcuni frammenti contenuti nel Digesto ci riportano una definizione di giustizia.
ULPIANO
(D. 1, 1, 10, pr. - 2)
“La giustizia è la costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto…”
Iustitia est costans et perpetua voluntas
Kelsen, che costruisce l’ordinamento giuridico come complesso di norme strutturate in modo gerarchico, si
trova a dover affrontare il problema della giustizia; si chiede che ruolo essa abbia rispetto al diritto e scrive
un’opera in cui esamina tutte le definizioni di giustizia che le fonti attestano.
In riferimento alla definizione di Ulpiano, Kelsen ritiene che sia una formula vuola: poiché sono le norme
poste dall’ordinamento a dirci quale sia il diritto da attribuire a ciascuno, essa giustificherebbe qualsiasi tipo
di ordinamento giuridico, anche il più ingiusto.
Kelsen, tuttavia, non coglie il punto fondamentale della definizione di Ulpiano:
Kelsen è concentrato a capire cosa significhi “attribuire a ciascuno il suo diritto”
senza accorgersi che quella è la specificità della definizione, il genus è la volontà.
Si pone il problema del chiarimento della parola voluntas. A quale volontà si fa riferimento?
- Kelsen, e qui sta il suo errore, fa riferimento alla volontà dell’ordinamento;
- un’altra interpretazione falsa è quella derivante dal diritto canonico, il quale fa riferimento alla volontà
divina, è Dio a dire quale è il diritto da poter attribuire a ciascuno;
- Ulpiano non pensa né all’ordinamento né a Dio; egli pensa alla volontà di ogni essere umano, considera
la giustizia come una virtù soggettiva. Ciò implica che la giustizia non è un concetto assoluto, ma è un
qualcosa a cui l’essere umano tende (l’uomo è giusto se è sorretto da questa volontà).
o la giustizia è una virtù universale dell’essere umano: si può essere giusti o ingiusti a prescindere
dalla conoscenza del diritto (ovviamente, nella prospettiva romana, chi si dedica al diritto deve
coltivare fortemente questa virtù). Questa è il senso vero della giustizia per il diritto romano e non è
compreso da Kelsen (che parla di volontà dell’ordinamento e non di volontà degli esseri umani).
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Dopo aver definito il diritto, ULPIANO inizia a parlare dei giuristi.
(D. 1, 1, 1)
“Qualcuno, meritatamente, potrebbe chiamarci sacerdoti del diritto: infatti coltiviamo la giustizia e
professiamo la conoscenza del buono e dell’equo (bonum et aequum), separando l’equo dall’iniquo, discernendo il lecito
dall’illecito, desiderando rendere buoni <gli uomini> non solo col timore delle pene ma anche con l’esortazione dei premi:
aspirando, se non mi sbaglio, alla vera, non ad un’apparente filosofia”
Questo testo è stato molto studiato dalla scienza romanistica degli ultimi trent’anni.
Ulpiano con il termine “sacerdoti” fa riferimento alla vocazione: studiare il diritto, diventare giuristi è
una vocazione. Il diritto è una vocazione che persegue la finalità di realizzare il buono e l’equo.
È vero che la giustizia è una virtù di tutti, che non è necessario conoscere il diritto per tendere alla
giustizia; ma non ci sono dubbi che chi voglia diventare giurista debba “coltivare la giustizia”.
Il termine “coltivare” richiama la “costante e perpetua volontà” della definizione ulpianea di giustizia;
l’obiettivo del lavoro del giurista è quello di rendere il diritto più giusto nella società in cui opera.
Ad oggi, nella storia dell’uomo, un ordinamento giuridico perfetto non è mai esistito; tuttavia,
l’importante è che vi siano soggetti che lavorino per migliorare le cose e non per peggiorarle.
Se il diritto è l’arte del buono e dell’equo è necessario che i giuristi sappiano cosa sia il buono e l’equo.
Il giurista deve maturare la capacità di valutare quale sia nella realtà la soluzione più vicina al bonum e
all’aequum; il diritto serve per la pace sociale, serve a rendere l’uomo una persona migliore non solo
attraverso le sanzioni coercitive.
Ulpiano, infine, parla di “apparente filosofia”. Il diritto romano è stato accusato di “apparente filosofia”,
in particolare, dai padri fondatori della Chiesa, i quali ne contestavano i contenuti portanti.
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DIRITTO E UOMO
Il rapporto tra diritto ed essere umano è stato storicamente oggetto di numerosi attacchi.
o Un secondo attacco è ancora in atto ed è costituito dalla funzione economica del diritto, la vera
finalità del diritto è il profitto; questo meccanismo è più subdolo perché non si manifesta come
diritto contro l’essere umano ma è spacciato come progresso del diritto, come diritto moderno.
Diritto non più a misura d’uomo, ma a misura delle imprese.
Per i romani la persona coincide con l’essere umano. Per il diritto romano non esiste una persona che non sia
uomo in carne ed ossa; persona è solo persona fisica, al di là dello status (lo schiavo è una persona).
In entrambe le interpretazioni emerge la centralità dell’uomo; Giuseppe Grosso negli anni ’60 parlò di
misura umana del diritto; un diritto adeguato agli interessi concreti degli esseri umani è un buon diritto.
Proprio perché il diritto è stato creato grazie agli uomini è necessario iniziare dal diritto delle persone.
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RUOLO DEL GIURISTA
Il diritto romano non conosce una teoria della gerarchia delle fonti;
nonostante la varietà di fonti, questo modello ha resistito per secoli grazie all’operato dei giuristi.
L’interpretazione non è un’interpretazione delle leggi, ma un’interpretazione nel diritto
perché porta anche alla creazione di nuovo diritto.
I giuristi hanno in mano tutto il sistema del diritto.
POMPONIO
(giurista della stessa epoca di Gaio, dinastia degli Antonini)
Pomponio nella sua opera parlerà prima della storia del diritto (civile, delle genti e onorario), poi tratterà
storicamente delle magistrature romane (dall’epoca regia all’epoca imperiale) e infine parlerà dei giuristi
(quest’ultima è la parte più lunga, e per noi più importante, del frammento).
“Dopo ciò, di seguito tratteremo della successione degli autori, poiché il diritto non può stare saldo insieme se non vi è
qualche esperto del diritto attraverso cui, giorno dopo giorno, possa venire condotto innanzi verso il meglio”
Secondo Pomponio, per poter vedere la sistemicità e la coerenza dello ius è necessario
l’operato del giurista.
Della parte finale del testo (cottidie in melius produci) sono state date diverse interpretazioni:
- Vittorio Scialoja ritiene che la cultura romana sia una cultura tradizionalistica e che i romani non
abbiano una visione del progresso; l’idea del progresso è nata a partire dall’800.
Noi oggi siamo una società proiettata al futuro; i romani avevano una visione contraria: la regola
tradizionale si fonda sull’esperienza per cui il nuovo va guardato con diffidenza e deve essere verificato.
Quindi Scialoja dice che il termine “in melius” non poteva essere corretto, il concetto originario di
Pomponio, secondo l’autore, doveva essere “in medium produci”, cioè attraverso un elemento di
tramite; il giurista è un medium tra la realtà e la costruzione dello ius.
Questa tesi è stata recentemente accolta anche da Mario Talamanca.
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IURA POPULI ROMANI
Queste sono le parole usate da Gaio.
I romani, fino ad una certa epoca (III sec. d.C.), non parlano di ius romanorum (ossia di diritto romano)
ma prediligono la costruzione al plurale: iura populi romani (ossia diritti del popolo romano).
Si inizierà a parlare di “diritto romano” a partire dalla codificazione di Giustiniano.
Questo plurale mette in crisi la nostra concezione di unicità dell’ordinamento giuridico. Nell’impero del
popolo romano ci sono più diritti (gli iura). Non c’è un diritto che prevale sugli altri, non c’è una gerarchia
I romani hanno lo ius civile, lo ius gentium, lo ius honorarium e lo ius naturale.
Queste sono partizioni del diritto che non sono nate storicamente tutte insieme
(le partizioni più antiche e più importanti sono ius civile e ius gentium).
o Ius civile.
Lo ius civile non è una partizione del diritto privato, come la categoria attuale del diritto civile.
Lo ius civile non è nemmeno un diritto nazionale (i romani non sono una nazione, nascono sulla base del
principio volontaristico: Roma viene creata per la volontà di stare insieme delle comunità che stavano
vicino all’ansa del Tevere dell’isola Tiberina, ciascuna delle quali porta i propri diritti).
Il termine “civile” sta ad indicare il diritto dei cittadini romani (il diritto fondamentale dei cittadini
romani; il diritto fondamentale della città perché statuisce non solo il diritto privato, ma anche il diritto
pubblico e il diritto criminale), il diritto che regolerà i rapporti esclusivamente tra cittadini romani in
termini di eguaglianza anche qualora essi provengano etnie diverse. Pertanto, un non cittadino non può
fare uso di questo diritto, a meno che non siano i romani stessi a concederglielo (si pensi al commercio,
al matrimonio… si tratta di concessioni). Troverà espressione scritta nelle XII Tavole (anche se queste
non possono considerarsi un’opera esaustiva, completa).
Ma se Roma non esisteva e quindi non esisteva un diritto dei romani, ma solo diritti particolari
delle varie comunità, come nasce lo ius civile?
Lo ius civile è il frutto del più poderoso processo di unificazione del diritto che noi conosciamo.
Quello che noi vediamo è il risultato finale di un processo che ha visto impegnata
la giurisprudenza pontificale (collegio deputato all’interpretazione del diritto).
I pontefici si trovarono di fronte ad una comunità politica nuova; ogni comunità all’interno di Roma
aveva i suoi costumi, le sue consuetudini, le sue regole… e quando queste comunità decidono di unirsi e
fondare una nuova comunità politica continuano comunque a vivere secondo le regole proprie della gens
di appartenenza.
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del modello testamentario, introducono una gerarchia di valori (dalle XII tavole, infatti, emerge che si
applica la forma successoria che valorizza l’unità della famiglia solo in assenza di testamento).
I pontefici prendono gli istituti previsti dai vari diritti e li aprono a tutti i cittadini romani
(se prima un istituto valeva solo per una determinata comunità, con l’unificazione del diritto
esso viene esteso a tutti i cittadini), in questo modo prende forma lo ius civile.
Lo ius gentium non è diritto internazionale pubblico, non è diritto internazionale privato e non è la lex
mercatoria del Mediterraneo; è un sistema giuridico sovranazionale a vocazione universale.
- Non è diritto internazionale pubblico. L’ideologia sottesa al diritto internazionale pubblico è che il diritto
è espressione necessaria dello Stato all’interno di un determinato territorio (il diritto, quindi, avrebbe dei
confini: diritto italiano, diritto francese, diritto tedesco…). Il diritto radicato nel territorio di uno Stato
non potrà produrre effetti al di fuori di quel territorio, per poterlo fare è necessario un accordo tra gli
Stati coinvolti; accordo che permette di creare un diritto internazionale (le parti concludono un Trattato).
Lo ius gentium non è questo: non si esaurisce nel diritto dei trattati che Roma fa con gli altri popoli ed è
usufruibile anche da chi con Roma non ha nessun trattato.
- Non è diritto internazionale privato perché i contenuti dello ius gentium sono una novità rispetto al
panorama degli istituti giuridici esistenti nell’antichità.
- Non è la prassi commerciale vigente. Nello ius gentium vengono elaborati nuovi strumenti, sconosciuti
all’epoca.
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Esempio: compravendita consensuale si tratta di uno schema totalmente innovativo che ruota attorno al
consensus che le due parti si danno e che fa nascere l’obbligazione. Lo scambio è proiettato nel futuro
ma il vincolo giuridica sorge al momento dell’accordo. Principio di bona fides.
Si tratta di un sistema aperto a tutti: chiunque può farne uso e chiunque può chiederne tutela a Roma.
CICERONE De officis in cui egli fa un discorso sulle diverse società umane
“…C’è infatti una società…avente la massima estensione, di tutti fra tutti, una società più ristretta, tra gli appartenenti ad
una stessa gente ed una ancora più limitata, tra gli appartenenti alla medesima città…”
Cicerone individua tre società umane, parte dalla società più grande per arrivare a quella più piccola:
o la società più grande è data dall’insieme delle gentes ed è la
società universale di tutti gli uomini tra loro;
o la società intermedia è data dagli appartenenti ad una
determinata gens (intesa come comunità politica autonoma),
ossia dalla comunità di un popolo;
o la società più piccola è quella cittadina, ossia la civitas (tutti i
cittadini della stessa città).
“…Per questo i nostri antenati distinsero il diritto delle genti da quello civile; quello civile non può essere per ciò stesso
immediatamente delle genti, mentre quello delle genti non può non essere nel contempo civile…”
Cicerone individua tre tipi di società, ma quando passa a parlare dello ius espressione di queste società ne
ricorda solo due: il diritto civile e il diritto delle genti.
Questa affermazione di Cicerone, se interpretata secondo la concezione odierna degli ordinamenti giuridici,
non può essere compresa.
Il fatto che il diritto civile non può essere per ciò stesso immediatamente delle genti implica due cose: da un
lato che c’è una distinzione tra i due diritti, dall’altro che il diritto civile non è sempre distinto dal diritto
delle genti (a volte può essere anche ius gentium e a volte no; l’estensione del diritto civile al diritto delle
genti è legata alla capacità dell’istituto di diritto civile di acquisire vocazione universale: la mancipatio non
si estende allo ius gentium, la sponsio si espande allo ius gentium mediante la stipulatio).
Il diritto delle genti, invece, è sempre anche diritto civile. Questo perché? Perché lo ius gentium è un diritto
universale (se è aperto a tutti gli uomini, è sicuramente aperto anche ai romani).
Per chiarire che il diritto delle genti non è diritto internazionale analizziamo un’altra fonte di Cicerone.
“Ma Regolo non doveva sconvolgere con un giuramento le condizioni e i fatti di guerra fatti col nemico; la guerra era
condotta contro un nemico legittimo e giusto, nei cui confronti sussistono tutto il diritto feziale e molti diritti comuni”
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IUS CIVILE: dei cittadini romani applicabile a tutti solo in casi specifici
IUS GENTIUM: di tutti gli uomini sempre applicabili a tutti i cittadini (anche ai cittadini romani)
o Il diritto delle genti è un diritto comune a tutti gli uomini (vocazione universale).
o Gaio, a differenza di Cicerone, ci dà il fondamento di questo ius: è fondato sulla ragione
naturale.
Secondo il professore, Gaio riflette un dato fondamentale della realtà e cioè che gli uomini si
relazione tra loro; la relazione con altri uomini è propria della natura umana, a prescindere dalla
cittadinanza, dalla religione, dalla cultura…
Lo ius gentium è lo specchio di una realtà naturale dei rapporti umani.
o “Come a dire” dimostra la piena consapevolezza di Gaio che lo ius gentium non è il diritto usato
da tutte le genti.
ULPIANO
“Il diritto delle genti è quello di cui le genti umane fanno uso”
Nel periodo in cui scrive Ulpiano, lo ius gentium è giunto ormai a completa formazione.
Ius naturale. È la categoria più tarda di ius ad essere costruita (giuristi dell’età dei Severi 200-230 d.C.).
Per diritto naturale, oggi, tendenzialmente si intende un diritto stabile, inderogabile e che
valorizza o tutela valori che si considerano fondamentali (parità, eguaglianza, dignità umana…).
Questa idea attuale del diritto naturale ci proviene dal giusnaturalismo (scuola giuridica che emerge nel
XVI-XVII sec. Grozio, Pufendorf…); i giusnaturalisti ritenevano, una volta individuati gli elementi
fondamentali (persona, cosa, contratto, obbligazioni…), di poter costruire un sistema giuridico una volta
per tutte, un sistema giuridico conforme alla natura umana (si tratta di una visione utopica perché la
società umana è in costante evoluzione). Si tratta di un diritto naturale sostanzialmente statico.
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distaccarsi dalla visione giusnaturalistica.
Secondo il professore, il diritto naturale in un momento di particolare crisi della giurisprudenza romana
come categoria critica costruttiva del diritto (ius civile, ius gentium, ius honorarium) per migliorarlo.
ULPIANO
“Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli animali: infatti questo diritto non è proprio del genere
umano, ma è comune a tutti gli animali che nascono in terra, in mare, ed è comune anche agli uccelli. Da qui deriva
l’unione del maschio e della femmina, la quale unione noi chiamiamo matrimonio; da qui deriva la procreazione dei
figli; da qui l’educazione. Vediamo infatti che anche tutti gli altri animali, comprese le fiere, sono valutati in base
all’esperienza <che abbiano> di questo diritto”
È ovvio che due cani non vanno dal pretore e chiedono il divorzio, alla base della nozione offertaci da
Ulpiano c’è un’idea filosofica di comunanza uomo-animale.
La manumissione è l’istituto giuridico in base al quale, a Roma, è possibile rendere uno schiavo libero;
si tratta di un atto giuridico idoneo a produrre un passaggio di status.
Qui tocchiamo con mano il confronto tra diritto naturale e diritto delle genti in un contesto reale, ossia
l’esistenza della schiavitù. Ulpiano ammette l’esistenza della schiavitù, ma sottolinea che per natura gli
uomini nascono liberi (emergono due concetti fondamentali: libertà naturale ed eguaglianza naturale).
La concezione del diritto naturale secondo cui tutti gli uomini nascono liberi non ha prodotto a Roma alcuna
conseguenza effettiva; la schiavitù non è stata abolita, se non molti anni dopo.
Pertanto, il diritto naturale è ius, è diritto, ma non è dotata di quell’elemento di efficacia proprio del diritto.
A dimostrazione del fatto che il diritto naturale è ius, anche in assenza di un’azione specifica a tutela,
possiamo fare due esempi:
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Dire che questo non è diritto è un grave errore.
Il concetto di libertà naturale è stato usato dai giuristi romani anche prima di Ulpiano in materia
di “acquisto di proprietà sugli animali selvatici”. Per i romani, a seguito della cattura di un
animale selvatico si acquista la sua proprietà; tale proprietà non è infinita, infatti qualora
l’animale selvatico riesca a scappare riacquisterà la sua libertà naturale e potrà essere catturato
da un’altra persone che a sua volta ne acquisterà la proprietà.
Verifichiamo questa idea in materia di “schiavitù”. Cosa succede se lo schiavo scappa? I romani
distinguono tra lo schiavo che nasce schiavo e lo schiavo che è tale a seguito di cattura bellica
(lo schiavo di guerra che riesce a scappare, per i romani, riacquista la sua libertà naturale).
Mentre nel caso dell’obbligazione naturale i romani riconoscono la sussistenza del diritto anche
in assenza di una specifica azione a tutela, nel caso della libertà naturale non arrivano alla stessa
conclusione anche se un effetto giuridico viene comunque prodotto.
PAOLO
“Si dice ‘diritto’ in più modi: in un modo, quando si dice ‘diritto’ quel che è sempre buono ed equo, come è il diritto
naturale; in altro modo, si dice ‘diritto’ ciò che è utile a tutti o ai più in ciascuna città, come è il diritto civile; né meno
rettamente viene detto ‘diritto’, nella nostra città, il diritto onorario”
Il diritto naturale è un qualcosa di utopico a cui si deve tendere, rappresenta un obiettivo da raggiungere.
Per Paolo il diritto naturale è l’obiettivo perfetto (ecco perché è perenne) a cui dobbiamo tendere.
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PRODUZIONE DEL DIRITTO
Il diritto per venire ad esistenza necessita di meccanismi produttivi.
L’eredità dei romani fissa il seguente principio: diritto come volontà del popolo.
Va sottolineato che non tutto il diritto è nato dalla volontà del popolo (si pensi al senatoconsulto).
GAIO
“…nella parola popolo si intendono tutti i cittadini (omnes cives)…”
Gaio elabora un concetto concreto di popolo.
CICERONE
“La res publica è dunque – disse Scipione – cosa del popolo; ed il popolo, poi, non è un insieme di uomini congregato in
qualsiasi modo, ma un insieme di uomini associato per utilità comune e con consenso del diritto”
Insieme di uomini associato (sociatus), non c’è nessuna idea nazionale, naturale, ma si tratta di una
scelta volontaristica di alcune persone di unirsi come popolo. Non c’è un principio naturalistico, ma un
principio volontaristico consistente nella scelta politica di creare un popolo.
Come abbiamo già visto, Roma nasce dall’unione di comunità di umbri, sabini, latini, etruschi (si parla
di communio utilitatis); le singole comunità autonome decidono di unirsi per varie ragioni come il
potenziamento della difesa o delle capacità economiche oppure per l’unificazione religiosa.
Consenso del diritto (iuris consensus). Al riguardo ci sono due possibili interpretazioni:
Per i romani l’ordinamento non nasce dal fatto, ma nasce coerentemente al diritto già esistenti.
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Il principio di vigenza ha come conseguenza fondamentale il protagonismo del popolo.
Per i romani, la volontà concreta del popolo è il cuore della produzione del diritto.
o Consuetudine
o Legge pubblica
o Plebiscito
o Senatoconsulti
o Editto del pretore
o Costituzione dell’imperatore
- MORES
CICERONE, De inventione
“…Si ritiene che sia diritto derivante dalla consuetudine (ius consuetudine) quello che
la lunga durata ha consolidato con la volontà di tutti senza la legge”
Secondo Cicerone il fondamento del diritto consuetudinario è la volontà di tutti.
Per i romani la consuetudine è una fonte di produzione che deriva dalla volontà dell’essere umano
(si avranno consuetudini nate nell’ambito dello ius civile e altre nate nell’ambito dello ius gentium).
GAIO, Istituzioni
“Ci sono poi anche successioni <mortis causa> di un diverso genere, le quali non sono state introdotte né dalla Legge
delle XII tavole, né dall’editto del pretore, ma da quel diritto che viene recepito col consenso <dei cittadini>”
Da questa fonte emerge come tutto nasca da una proposta giuridica, la quale diventa poi vero e proprio
diritto grazie al recepimento, grazie al fatto che i cittadini ritengono che sia ben fatto.
Dietro alla proposta c’è il lavoro della giurisprudenza romana
(interpretazione prima pontificale e poi laica).
Nascita di nuovi istituti giuridici a livello consuetudinario attraverso la proposta giuridica:
c.d. interpretatio nei mores
(nei e non dei perché l’interpretazione si inserisce nel processo consuetudinario di produzione del diritto,
ne è il momento propulsore: viene recepito con il consenso dei cittadini e diventa ius civile).
“Si costituiva consensualmente il potere materiale su colei che perseverava per un anno <a restare> come moglie
<presso il marito>; infatti dato che si acquistava l’uso con il possesso protratto per un anno, era così trasferita nella
famiglia del marito e occupava la posizione della figlia di famiglia. Quindi si stabilì nella Legge delle XII Tavole che se
ella non volesse in tal modo far costituire il potere materiale su di lei, avrebbe dovuto assentarsi <dalla casa del marito>
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per tre notti e in tal modo interrompere per quell’anno l’effetto costitutivo <del potere materiale>. Ma tutto questo
diritto in parte è stato abrogato dalle leggi, in parte è stato dimenticato per desuetudine”
In questa fonte Gaio descrive la costituzione in manus attraverso l’usus.
o Se il principio fondante è lo stesso, ossia la volontà del popolo, sia per la legge che per la
consuetudine, è ovvio che se poi la volontà del popolo mediante comportamenti concludenti
disattenda la volontà dello stesso popolo espressa con voto nella legge quel diritto e quella legge
verranno abrogati per desuetudine.
Nella nostra ideologia la legge non è abrogabile per desuetudine, noi riteniamo che per abrogare
una legge sia necessaria un’altra legge (gli usi sono all’ultimo posto nelle nostre fonti).
Tuttavia, nella realtà, per desuetudine vengono disapplicate numerose leggi e regolamenti.
- CONSUETUDO
Dopo la Costitutio Antoniniana (che dà la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Impero) lo ius civile
cambia fisionomia e inizia ad estendersi a tutti; tutte le consuetudini locali diventano diritto.
Si pone il seguente problema: la consuetudine locale ha la stessa forza dei mores?
I giuristi iniziano ad affrontare il tema della dialettica tra consuetudini provinciali e diritto romano.
“La diuturna consuetudine suole essere osservata, in luogo del diritto e della legge,
in ciò che non trova riferimento in fonte scritta”
Dalla fonte emerge la sovrapposizione tra la concezione originaria della consuetudo, come fonte
primaria di produzione del diritto, e la concezione della consuetudo provinciale; anche quest’ultima è
considerata come fonte del diritto, ma in presenza di una fonte scritta sarà quest’ultima a prevalere.
Prevalenza del diritto scritto sul diritto non scritto (cosa che nel diritto classico non c’era).
“Quando qualcuno mostra di fare affidamento sulla consuetudine della città o della provincia, ritengo che, in primo
luogo, si debba indagare se la consuetudine sia stata confermata anche da qualche giudizio reso in contraddittorio”
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Da questa fonte emerge l’idea di controllo da parte dell’impero: la richiesta di riconoscimento giudiziale
rappresenta un freno alla produzione consuetudinaria del diritto.
Imperatore COSTANTINO
“L’autorità della consuetudine e dell’uso prolungato nel tempo non è di poco valore, ma non è destinata a prevalere a
tal punto da vincere la ratio del diritto <scritto> o la legge”
La consuetudine è diritto ma non prevale sul diritto scritto.
La consuetudine è una forma di produzione del diritto più democratica della legge perché realizza in
modo più diretto la coscienza sociale della comunità, per questo motivo il dispotismo la schiaccia
con il diritto scritto.
LEGGE E PLEBISCITO
Questa definizione per genere e specie dà una spiegazione a tutto: legge, plebiscito, rogazione e privilegio.
- Il privilegium: formalmente si tratta di una legge su proposta del magistrato che però non rappresenta un
comando generale, per questo motivo non rientra nel concetto di “legge pubblica”.
- La rogatio non è una legge, ma una proposta che fa parte del processo di formazione della legge.
Nel rapporto tra rogatio e voto vi sono due protagonisti: il magistrato che determinata il contenuto della
rogazione e il popolo che manifesta la propria volontà (se prevalgono i voti favorevoli la proposta
diviene legge pubblica, in caso contrario la proposta resta rogatio).
Capitone aggiunge “della plebe” perché ormai, nella sua epoca, il plebiscito è equiparato alla legge.
Inizialmente il plebiscito non è legge, ma è la volontà della plebe su proposta del tribuno della plebe
che vincola la plebe (prima della Lex Hortensia, affinché il plebiscito sia vincolante per tutto il popolo
romano è necessaria l’auctoritas del Senato).
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GAIO, Istituzioni
“Legge è quanto il popolo comanda e statuisce. Plebiscito è quanto la plebe comanda e statuisce.
Però la plebe si differenzia dal popolo, perché nella parola popolo si intendono tutti i cittadini, contati anche i patrizi;
invece nella parola plebe si intendono gli altri cittadini esclusi i patrizi; da ciò, un tempo, i patrizi affermavano che
essi non erano tenuti <a rispettare> i plebisciti, perché erano stati fatti senza la loro auctoritas; successivamente, però,
è stata emanata la Legge Ortensia (287 a.C.), la quale ha stabilito che i plebisciti vincolassero tutto il popolo;
in questo modo sono stati equiparati alla legge”
Le specificazioni di Capitone non sono più necessarie perché, all’epoca in cui Gaio scrive, ormai è evidente
la forza del popolo.
Il plebiscito, pur essendo un atto che produce diritto per volontà di una parte del popolo, viene indicato dai
giuristi come fonte di produzione del diritto. Fondamentale è stata la Lex Hortensia che ha equiparato il
plebiscito alla legge pubblica.
Nella definizione di “legge” espressa da Gaio, e prima di lui da Capitone, il protagonista fondamentale è il
popolo: secondo questi giuristi il momento fondamentale non è la rogatio del magistrato,
ma è il voto in assemblea del popolo.
La volontà del popolo in assemblea assume carattere imperativo (si parla di iussum populi).
Noi abbiamo maturato l’incapacità dei giuristi di guardare alla realtà, per noi il diritto è solo la legge.
I romani, al contrario, sono abituati a guardare la realtà; per loro la legge costituisce solo una delle fonti di
produzione del diritto, non c’è il primato della legge ma il primato della produzione consuetudinaria.
“La legge è precetto comune, parere di uomini sapienti, repressione dei delitti che si compiono intenzionalmente o per
ignoranza, solenne stipulazione comune della repubblica”
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SENATOCONSULTI (Senatus consulta)
Si tratta di una consulenza, di un parere del senato.
Il senato cambia la sua composizione quando ai censori, a partire dal V secolo a.C.,
inizia ad essere attribuito il potere di decidere quali cittadini faranno parte del senato.
In origine il senato era costituito dai capi delle comunità gentilizie.
A seguito dell’indebolimento della struttura gentilizia dell’aristocrazia romana, cambia il criterio
aristocratico in base al quale si diventa senatori: si inizia ad applicare il c.d. criterio dell’aristocrazia degli
uffici pubblici rivestiti (per i romani è aristocratico chi è stato considerato dai cittadini degno di essere eletto
in una delle magistrature). Il senato diventa quindi l’assemblea degli ex magistrati eletti dal popolo.
Al senato spetta il compito, qualora gli venga chiesto, di fare un consultum, cioè di dare un parere.
GAIO, Istituzioni
“Senatoconsulto è quanto il senato comanda e statuisce; e ciò fa le veci della legge, sebbene fu oggetto di dubbio”
Gaio applica al senatoconsulto lo stesso modello che aveva applicato alla legge pubblica:
“la legge è quanto il popolo comanda e statuisce”,
“il senatoconsulto è quanto la legge comanda e statuisce”.
Il parere (il consultum) viene descritto da Gaio in termini imperativi, come comando
(come iussum).
Gaio dice poi che il senatoconsulto fa le veci della legge; anche se questo punto è molto
discusso.
“Fare le veci di qualcuno o qualcosa” significa “prenderne il posto”.
Come fa il giurista a dire che il senatoconsulto fa le veci della legge, che prende il posto della legge?
Per dire questo egli considera il senato come organo che può prendere il posto del popolo.
Pertanto, come l’atto del popolo è legge,
l’atto del senato che prende il posto del popolo fa le veci della legge.
La ragione alla base di questa affermazione va rinvenuta nel fatto che, nel periodo in cui scrive Gaio,
il senato è composto da ex magistrati eletti dal popolo.
I senatori non sono eletti direttamente dal popolo (come avviene da noi), ma avendo avuto il
consenso del popolo (che li ha eletti come pretori, come consoli) sono considerati i cittadini migliori
e quindi degni di essere scelti dai censori per far parte del senato.
“In seguito, poiché la plebe cominciò a convenire a Roma con difficoltà, ed il popolo, certamente, con difficoltà ancora
maggiore, data la gran turba di uomini, la necessità stessa trasferì al senato la cura della cosa pubblica: così il senato cominciò
ad interporsi e tutto ciò che statuisse veniva osservato, e tale diritto veniva chiamato senatoconsulto”
Il modello è nettamente diverso da quello prospettato da Gaio, qui la legge non viene mai menzionata.
Pomponio è uno di quelli che aveva dubitato che il senatoconsulto potesse fare le veci della legge.
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GIUSTINIANO, Istituzioni
La rilettura giustinianea delle fonti di produzione del diritto accentua il modello legislativo (Gaio)
sottolineando, al tempo stesso, la centralità del ruolo dell’imperatore.
“Senatoconsulto è quanto il senato comanda e statuisce. Giacchè, essendosi accresciuto il popolo Romano in tale maniera da
renderne difficile la convocazione in un solo luogo al fine di statuire leggi, parve equo che, facendo le veci del popolo,
venisse interpellato il senato”
(Giustiniano riprende sia la definizione di Gaio che quella di Pomponio)
Il fondamento del fatto che il senatoconsulto faccia le veci della legge deriva dalla difficoltà di convocare
tutti i cittadini per statuire leggi. Il senato fa le veci del popolo, l’atto del sensato fa le veci della legge.
COSTITUZIONE DELL’IMPERATORE
La costituzione dell’imperatore non è l’atto fondante di una nuova comunità. Quando si parla di
“costituzione dell’imperatore” si fa riferimento a diversi tipi di atti o provvedimenti posti in essere
dall’imperatore (alcuni hanno natura generale, altri hanno natura particolare).
L’imperatore, dato il suo ruolo fondamentale nella Repubblica, comincia ad essere interpellato dai cittadini.
L’imperatore deve dotarsi di un ufficio composto da giuristi per poter far fronte a tutte le richieste.
Il parere giuridico per il caso concreto prende il nome di rescripta o subscriptiones.
I pareri degli imperatori non vanno a modificare la struttura delle regole del diritto romano; i rescripta sono,
sostanzialmente, dei pareri autorevoli che si affiancano ai pareri dei giuristi.
A fianco a questa forma di produzione del diritto, il principes può fare l’editto come il pretore, può fare dei
mandati oppure può fare costituzioni generali valide per tutti i cittadini.
Provvedimenti generali iniziano ad essere emanati a partire da Diocleziano.
Capo 6
“Che egli (Vespasiano) abbia il diritto e il potere di porre in essere tutti gli atti e fatti che riterrà utili alla repubblica”
Il potere dell’imperatore di fare atti vincolanti viene richiamato nella legge di investitura dell’imperatore.
Questo ci permette di individuare due elementi fondamentali:
Capo 8
“Che tutte le cose fatte, compiute, decretate, disposte dall’imperatore Cesare Vespasiano e da qualsiasi altro su suo incarico
o mandato anteriormente alla rogazione della presente legge, siano pienamente ratificate, come se fossero state fatte per
ordine del popolo o della plebe”
Tutto quello che viene fatto dall’imperatore, prima della legge di investitura, viene ratificato
come se fosse posto in essere sulla base di una legge pubblica, “per un ordine del popolo o della plebe”
(l’imperatore romano non prende mai il potere illegittimamente)
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GAIO, Istituzioni
“Costituzione del principe è quando l’imperatore statuisce con decreto o editto o lettera; né è mai stato dubitato che questo
faccia le veci della legge, dato che lo stesso imperatore riceve per legge il potere d’imperio (imperium)”
Pomponio anticipa quello che verrà poi espresso nella lex de imperio.
“Quanto parve bene al principe, ha forza di legge; poiché per legge regia, che è stata emanata sul potere d’imperio, il popolo
conferisce a lui e in lui tutto il proprio potere d’imperio e potestà…”
Il frammento conferma come al tempo dei Severi è ormai l’imperatore la fonte del diritto.
J. = Istituzioni di Giustiniano.
Nelle Istituzioni di Giustiniano questo frammento viene copiato,
l’unica differenza è costituita dal tempo del verbo (non più conferisce, ma conferì).
o
Per Ulpiano per ogni imperatore nuovo è necessario fare una lex
de imperio;
o Per Giustiniano, invece, il popolo ha dato all’imperatore una
volta e per sempre il potere.
Ciò comporta un cambiamento epocale: il protagonista non è più il popolo ma è l’imperatore al quale
il popolo ha ceduto la sua sovranità per sempre (i popoli ci rimetteranno secoli per riprendersi questo
potere, a partire dalla Rivoluzione francese).
“…E’ chiaro perciò che qualsiasi cosa l’imperatore abbia statuito per lettera e sottoscrizione o abbia decretato in sede di
cognizione processuale o abbia detto al di fuori di un processo ordinario o abbia disposto con un editto, consta essere legge.
Sono questi atti imperiali che chiamiamo abitualmente costituzioni”
Ulpiano conclude che tutte le forme con cui l’imperatore produce diritto sono legge.
Non è solo il popolo a fare la legge (iussum populi) ma anche l’imperatore.
Ogni pretore dura in carica 1 anno, viene eletto direttamente dal popolo in assemblea, ha l’imperium
(che gli viene conferito, in particolare, per esercitare la iurisdictio).
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Questo significa due cose:
Il principio della divisione dei poteri non è applicabile. Per creare un magistrato che
eserciti la giurisdizione, in questo periodo, è necessario affidargli l’imperium; siamo in
un’epoca in cui la giurisdizione ancora non è separata dal potere di governo.
Lo ius dicere è strettamente connesso all’imperium.
Il soggetto che si popone per l’elezione di pretore presenta un vero e proprio piano politico e legislativo.
Il popolo, sulla base di questi piani, esprimerà il proprio consenso.
Il giorno successivo all’elezione, il vincitore va in tribunale e affigge l’editto dove ha trascritto tutti gli
strumenti concessi ai cittadini e ai non cittadini a tutela dei loro interessi (la iurisdictio infatti non si esercita
solo nei confronti dei cittadini romani, ma nei confronti di tutti; rappresenta un valore universale).
L’editto appena descritto prende il nome di editto perpetuo, non perché dura per sempre ma perché dura
per l’anno di carica del pretore; ogni hanno i pretori fanno i loro editti.
Da non confondere con l’altro editto perpetuo, ossia quello che sotto Adriano viene codificato da
Giuliano e che rende immodificabili gli editti dei pretori.
Quindi l’editto perpetuo ha due accezioni: prima della codificazione e dopo la codificazione.
Abbiamo poi quello che viene chiamato editto repentino (si tratta di un’appendice all’editto).
Nell’esercizio della iurisdictio poteva accadere che al pretore venisse chiesta una tutela non prevista
dall’editto. Il pretore allora, valutata la necessità della tutela e attraverso l’esercizio del suo
imperium, può concederla sulla base di un decreto (c.d. azione decretale); fino a qui non c’è l’editto
repentino. Qualora l’applicazione di questo tipo di azione sia ricorrente, il pretore la aggiunge
all’editto come appendice tramite un editto repentino. Questo editto dura per il periodo di carica
rimanente del pretore.
Finita la carica del precedente pretore, il nuovo pretore eletto può riscrivere l’editto ex novo, ma la prassi
ha dimostrato che la maggior parte dei pretori hanno utilizzato e modificato l’editto del pretore
precedente. Il fenomeno per cui, pretore dopo pretore, una parte del contenuto dell’editto si consolida
prende il nome di editto tralaticio (il contenuto dell’editto resiste nel tempo).
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Inizialmente i giuristi non ritengono che l’editto scardini i normali atti di produzione di ius civile.
I giuristi vedono nel momento elettivo del pretore anche una copertura,
da parte della volontà dei cittadini, dell’editto proposto dal pretore.
Cicerone ci dice apertamente che una parte della giurisprudenza, quella che voleva riconoscere maggior
valore all’editto, diceva che l’editto del pretore è una legge annua (lex annua).
Come si fa a qualificare l’editto del pretore come legge? Noi sappiamo che la legge nella concezione
romana è iussum populi, dove è qui la volontà del popolo?
Probabilmente i giuristi ricordati da Cicerone valorizzavano il momento dell’elezione diretta del
pretore; l’elezione non sarebbe solo manifestazione della volontà di eleggere il cittadino come
pretore, ma anche la volontà di accogliere la sua proposta edittale.
CICERONE, De inventione
Qui troviamo un’altra costruzione concettuale per spiegare perché l’editto del pretore produce diritto.
“…Si ritiene che sia diritto derivante dalla consuetudine (ius consuetudine) quello che la lunga durata ha consolidato
con la volontà di tutti senza la legge. In essa vi sono elementi già essi stessi certi per la lunga durata.
Nel qual genere di elementi c’è una grande varietà, e una grande parte è rappresentata da quelle cose che
i pretori erano soliti includere negli editti…”
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GAIO, Istituzioni
“I magistrati del popolo romano, poi, hanno il diritto di fare gli editti (c.d. ius aedicendi). Ma è amplissimo il diritto
contenuto negli editti dei due pretori, urbano e peregrino, la giurisdizione dei quali in provincia spetta sempre ai
governatori; similmente negli editti degli edili curuli…”
Gaio non richiama solo gli editti del pretore urbano e di quello peregrino, ma anche quelli degli edili
curuli (magistrati addetti alle compravendite del mercato romano) e dei governatori provinciali.
Ci saranno anche gli editti dei magistrati municipali.
PAOLO, a Sabino
“Il ‘diritto’ si intende in più modi:…; né meno correttamente viene detto ‘diritto’, nella nostra città il diritto onorario.
Del pretore, si ritiene, persino, che ‘rende diritto’ (ius rendere) anche quando decide iniquamente (inique), in relazione,
s’intende, non a ciò che il pretore abbia fatto, ma a ciò che conviene (consono al suo ufficio) che il pretore faccia”
Questo testo è piuttosto complesso perché il giurista romano si trova di fronte ad un conflitto di principi.
Nell’ideologia della ripartizione dei poteri, la giurisdizione è il potere che in mano al potere giudiziario
che applica la legge: in questa concezione utopica, il giudice è visto come mero esecutore della volontà
dei rappresentanti del popolo espressa con la legge.
Paolo parte da un’altra prospettiva. “Rendere diritto” (ius rendere) sta ad indicare lo ius dicere,
consistente nell’enunciare il diritto per il caso concreto, non applicare il diritto per il caso concreto.
Noi tendiamo a confondere lo ius dicere con lo ius dicare perché nel nostro modello
è stata rotta questa separazione; il giudice applica il diritto ed emana la sentenza.
Quando il pretore esercita lo ius dicere non giudica la controversia ma crea una formula che vincola il
giudice più di quanto la legge attuale vincoli il nostro magistrato; il giudice scelto dalle parti non potrà
mai uscire dalla formula, in caso contrario sarà responsabile (i romani dicevano “fa sua la lite”).
Paolo è in questa prospettiva, ma anziché dire ius dicere dice ius rendere (questa formula indica lo ius
dicere dal punto di vista dei cittadini, ossia dal punto di vista dei soggetti che ricevono ius).
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Per Paolo vi sono due elementi in conflitto: da un lato la certezza del diritto e dall’altro la giustizia (il
contenuto del diritto che tendenzialmente deve rispettare l’aequum). In generale, nella regola generale ed
astratta è necessario rispettare l’aequum. Paolo, utilizzando la formula “rendere diritto”, accentua il
momento in cui il pretore dà concretamente il diritto alle parti e, quindi, anche se il pretore sbaglia, non
si può dire che non sia ius.
Paolo tra rispetto dell’aequum e certezza del diritto sceglie il male minore
in favore della certezza del diritto.
Se si potesse mettere in discussione l’esercizio del pretore
verrebbe a cadere la struttura della certezza del diritto.
CICERONE, Topica
L’idea dell’editto del pretore come fonte di ius civile è confermata anche da Cicerone.
“Le definizioni poi sono ora partizioni, ora divisioni; abbiamo le prime quando l’entità che è proposta viene per così
dire ripartita nei suoi membri, come se qualcuno dica che il diritto civile è costituito dalle leggi, dai plebisciti, dalle
sentenze, dall’autorità dei giureconsulti, dagli editti dei magistrati, dal costume, dall’equità”
GAIO, Istituzioni
“I diritti del popolo Romano sono formati dalle leggi, dai plebisciti, dai senatoconsulti, costituzioni dei principi,
dagli editti di coloro che hanno il diritto di fare editti, dai responsi dei giuristi”
All’interno degli iura populi romani non c’è separazione tra le fonti del diritto
(si tratta di fonti di ius civile, di ius gentium e di ius honorarium).
La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici ha cercato di spiegare questo rapporto.
Questa teoria considera ius civile e ius honorarium come due ordinamenti giuridici
contigui ma non interagenti, si tratta di ordinamenti giuridici autonomi.
Ad esempio, nel caso della stipulatio estorta con dolo, una volta formalizzata la promessa, la tutela è
assicurata nell’ambito dello ius civile (quindi nell’ambito dello ius civile non può essere messa in
discussione la vincolatività della promessa); il pretore interviene in questa ingiustizia e concede
l’exceptio doli. Anche se poi il giudice in base a questa formula (in cui è presente una parte di ius civile,
l’azione fondata sulla stipulatio, e un parte di ius honorarium, l’exceptio doli) non condanna il
convenuto, la stipulatio sul piano dello ius civile rimane perfettamente valida ed efficace, mentre sul
piano dello ius honorarium diventa totalmente inefficace. Qui emerge l’idea della contiguità ed
autonomia degli ordinamenti.
Questa teoria è stata seguita fino agli anni ’70-’80. Poi sono intervenute due critiche.
o La prima critica è quella di Franz Wiecker, il quale sostiene che questa teoria non sta in piedi perché a
Roma la iurisdictio è unitaria; se ci fosse una iurisdictio per il diritto civile e una iurisdictio per il diritto
pretorio allora questa teoria sarebbe valida.
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Il pretore quando enuncia il ius nel caso concreto lo fa sia attraverso lo ius civile, sia attraverso il diritto
degli editti, sia attraverso la consuetudine, i plebisciti, i senatoconsulti, sia addirittura inventando nuovo
diritto con l’esercizio dell’imperium. Il momento della giurisdizione è un momento di sintesi unitaria.
Quindi c’è un’interazione fortissima, all’interno dell’enunciazione del diritto nel caso concreto,
tra le diverse fonti di produzione del diritto.
o La seconda critica è quella di Filippo Gallo nel suo libro “Ius honorarium e officium del pretore”.
Secondo Gallo la difficoltà dell’ideologia moderna è legata all’incapacità di percepire come diritto solo
un diritto statico, preesistente, generale ed astratto; noi non siamo abituati a considerare come diritto
anche il momento di concretizzazione del diritto, tanto che per noi la iurisdictio è posta al di fuori del
diritto (è applicazione di un diritto già esistente).
Questa visione statica del rapporto tra giurisdizione e diritto non può essere applicata al diritto romano:
per i romani è ius sia la regola generale ed astratta sia la regola concreta, quest’ultima può poi essere la
concretizzazione di una regola generale ed astratta ma anche l’invenzione di una nuova regola concreta.
Dal testo di Papiniano emerge un rapporto di forte relazione tra le due forme di ius,
tutti e tre i verbi usati (aiutare, supplire e correggere) sono verbi di relazione non verbi di indipendenza.
Aiutare: il pretore aiuta lo ius civile, rafforza e migliora le tutele già esistenti nel diritto
civile.
Un esempio si ha in materia successoria: il testamento librale (per aes et libram) presentava delle
rigidità consistenti nella necessaria presenza del de cuius, del libripens e di 5 testimoni romani liberi,
qualora uno di questi soggetti non soddisfaceva i requisiti richiesti il testamento, per lo ius civile, era
invalido perché non rispetta la forma prescritta.
Un esempio di questa funzione lo abbiamo già visto nel caso dell’exceptio doli, l’intervento del
pretore consente di correggere l’iniquità connessa alla rigidità dello ius civile.
Un altro aspetto rilevato da Papiniano che è necessario sottolineare è “la pubblica utilità”.
La finalità del rapporto tra diritto civile e diritto onorario è comunque
l’utilità del popolo romano, della comunità dei cittadini.
MARCIANO, Delle istituzioni
“Infatti anche il diritto onorario è voce viva del diritto civile”
Anche in Marciano non c’è nessun rapporto di autonomia tra ius civile e ius honorarium, egli anzi dice che
“il diritto onorario è voce viva del diritto civile”.
Marciano vuole affermare che il diritto onorario è diritto civile,
che il diritto onorario può essere la voce vivificante del diritto civile.
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In sintesi:
- il rapporto tra le varie forme di ius non va mai pensato come rapporto tra sfere giuridiche autonome,
indipendenti, vi è interazione.
- la categoria dello ius honorarium è elaborata in un’epoca storica più tarda (Papiniano, Pomponio).
Storicamente cosa è cambiato? Tra l’epoca di Cicerone e quella di Papiniano è avvenuta la codificazione
dell’editto fatto da Giuliano sotto l’imperatore Adriano.
- la iurisdictio non è una mera applicazione del diritto (per i romani produzione e applicazione del diritto
partecipano al fenomeno giuridico).
Per noi oggi il giurista non partecipa né alla produzione né all’applicazione del diritto, al massimo partecipa
al fenomeno dell’interpretazione del diritto (attività di mera chiarificazione del diritto esistente). Quindi
quello del giurista è un ruolo abbastanza svilito, è maturata l’incapacità del giurista di leggere la realtà.
Secondo un’autorevole dottrina emersa negli anni ’70 del secolo scorso, da un lato la produzione
consuetudinaria del diritto sia per il diritto romano la fonte primaria (la maggior parte del diritto romano,
infatti, è di produzione consuetudinaria), dall’altro lato a Roma è emersa una comunità di specialisti, i
giuristi, che è stata in grado di leggere e di costruire questa realtà formata da consuetudini.
Si parla di interpretatio nei mores (nei e non dei) per indicare che questa interpretatio non è altro rispetto al
diritto creato dalla consuetudine, ma è dentro al processo di creazione consuetudinaria del diritto.
Questa fase dell’interpretatio nei mores è caratterizzata dalla presenza di un ceto di giuristi sacerdoti,
in particolare dalla presenza del collegio pontificale che è preposto proprio all’interpretatio del ius.
Il collegio pontificale è comporto da più pontefici; i quali per svolgere le loro attività si chiudono all’interno
del collegio (caratteristica fondamentale è la segretezza dell’interpretazione pontificale, maggiore
differenza rispetto alla giurisprudenza laica), quello che viene discusso all’interno del collegio è sconosciuto
e al termine dell’interpretatio uno dei pontefici è delegato a dare il responso ai cittadini.
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Il monopolio dei pontefici è anche di natura politica: inizialmente i pontefici possono essere solo patrizi.
(Si diventa magistrati per elezione del popolo,
si diventa pontefici per cooptazione ossia per decisione del collegio).
A partire dal III secolo a.C., i plebei iniziano a pretendere l’accesso al collegio pontificale.
Con una legge viene allargato il numero dei pontefici: 9 pontefici di cui 4 potevano essere plebei.
Quando il collegio pontificale emette il parere, quest’ultimo è dotato di un’auctoritas eccezionale e nessuno
poteva non attenersi al parere dato dal collegio. Pertanto, questa auctoritas può essere qualificata come
auctoritas istituzionale (come le attuali sentenze della Corte costituzionale) e il parere è di per sé vincolante.
L’entrata dei plebei spinge verso una democratizzazione dell’attività interpretativa: i plebei vogliono rendere
il discorso giuridico più conoscibile e più comprensibile per la comunità a cui quel discorso è diretto.
Per realizzare questo obiettivo possono essere individuate due modalità di lotta plebea:
lotta per la conoscibilità: cercare di rendere pubblici e conoscibili a tutti i meccanismi (le
tecniche interpretative) con cui si arriva al responso del collegio pontificale;
scrittura delle tecniche interpretative, iniziano a nascere le prime opere giuridiche.
Le prime opere giuridiche, in particolare, vertono sulle azioni a tutela (De actionibus).
Questa prima fase di laicizzazione, quindi, si caratterizza per l’apertura dei responsi mediante la
spiegazione delle tecniche interpretative e per la pubblicazione delle prime opere giuridiche.
In questa fase, comunque, i giuristi operano ancora all’interno del collegio pontificale.
Questo periodo si chiude con una pubblicazione molto importante: i Tripertita di Sesto Elio.
Si tratta di un’opera divisa in tre parti: Leggi delle XII tavole; interpretatio pontificale; actiones.
La seconda forma di indebolimento del monopolio pontificale è legata all’attività quotidiana dei pontefici:
si iniziano ad avere pontefici che, oltre all’attività pontificale, emettono privatamente pareri.
Ciò implica un’espansione dell’auctoritas, quest’ultima non è più solo istituzionale (imposta dalla struttura
della Repubblica) ma inizia ad essere democratica (legata alla stima che il cittadino ha per il giurista).
Laicizzazione del diritto significa che le tecniche interpretative non sono più sconosciute ai cittadini;
si può non essere pontefici e studiare il diritto.
Si mantengono le stesse tecniche interpretative, tuttavia il diritto non è più monopolio
di una oligarchia aristocratica ma si apre alla conoscenza di tutti.
Per diventare giuristi è necessario stare vicino a chi sa fare il giurista, sulla base di un rapporto di fiducia.
Nasce l’idea della scuola: chi vuole imparare diritto si affida ai grandi maestri.
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Nascono due grandi scuole: la scuola proculiana (Labeone) e la scuola sabiniana (Capitone).
Con la creazione del principato da parte di Ottaviano Augusto e l’assunzione da parte del princeps di tutti i
poteri della Repubblica, l’imperatore vuole controllare tutte le fonti di produzione del diritto e riesce a farlo
attraverso la creazione dello ius respondendi ex auctoritate principis, ossia il potere di dare pareri
sulla base di un’autorizzazione del principe, tenendo comunque conto della notorietà di alcuni giuristi.
GAIO, Istituzioni
“I responsi degli esperti sono i pareri e le opinioni di coloro ai quali è stato concesso di creare diritto.
Di tutti costoro, se concorrono in un comune parere, ciò che ritengono, fa le veci della legge; se invece sono in disaccordo,
al giudice è permesso seguire il parere che vuole; e ciò viene anche ribadito con un rescritto dell’imperatore Adriano”
Gaio parte dall’idea post-imperiale, quando dice “ai quali è stato concesso di creare diritto” egli fa
riferimento alla concessione dell’imperatore.
Il giudice sceglie, tra 2-3 pareri diversi, il parere che intende seguire; la certezza del diritto è assicurata dalla
limitatezza delle possibili soluzioni (la possibilità di scelta del giudice è ribadita in un rescritto di Adriano).
Il punto fondamentale della fonte va rinvenuto nel “fare le veci della legge”, qui Gaio mostra l’idea portante
del periodo della laicizzazione della giurisprudenza, ossia il momento democratico dell’auctoritas.
In sintesi:
- se c’è communis opinio, il parere comune dei giuristi fa le veci della legge;
- se c’è ius controversum, il giudice non può prendere un’autonoma decisione, ma può solo seguire il
parere che egli stesso ritiene più appropriato.
GIUSTINIANO, Istituzioni
“I responsi degli esperti sono i pareri e le opinioni di coloro ai quali era stato dato il permesso di creare il diritto.
Infatti, in antico era stato stabilito che vi fossero coloro che potessero interpretare il diritto pubblicamente,
ai quali era stato conferito il diritto di dare responsi dall’imperatore, e che si chiamavano giureconsulti.
I pareri e le opinioni di tutti costoro posseggono questa autorevolezza, così che al giudice non è permesso di allontanarsi
da quanto stabilito nel responso, e così è stato statuito”
- Giustiniano ribadisce che la sua codificazione è per lo più costituita da pareri dei giuristi classici e,
inoltre, spiega perché ha raccolto questi pareri: lo ha fatto perché quei giuristi avevano ottenuto dagli
imperatori il permesso di dare responsi.
Giustiniano, tuttavia, dice una cosa non vera; nel Digesto non ci sono colo i pareri dei giuristi imperiali
(da Augusto in poi), ma ci sono anche tanti pareri dei giuristi dell’età repubblicana.
All’epoca di Giustiniano non ci sono giuristi a cui egli ha concesso lo ius respondendi;
è l’interpretazione giurisprudenziale dell’età classica che diventa legge dell’imperatore.
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CONCLUSIONI SULLE FONTI DI PRODUZIONE DEL DIRITTO
La prima conclusione è che il cuore della produzione del diritto non è la forma con cui il diritto viene
espresso (le forme possono essere varie: voto in assemblea, comportamento concludente, voto del
senato, editto del pretore, costituzione dell’imperatore, pareri dei giuristi).
È necessario guardare al principio della volontà concreta del popolo: più il diritto prodotto
ha fondamento nella volontà concreta, più è un diritto coerente a quella comunità.
Più la fonte è lontana dalla volontà del popolo e meno è democratica,
più è vicina e più è democratica.
La seconda conclusione è che il processo di produzione del diritto, nel diritto romano, include istituti e
concetti che, invece, nell’ideologia della tripartizione dei poteri e dello statual-legalismo sono fuori dal
processo di produzione del diritto.
Come vedremo in seguito, l’analogia e l’azione sono istituti giuridici che partecipano al
processo di produzione del diritto.
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INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO
ANALOGIA
Disposizioni sulla legge in generale, preliminari al Codice Civile della Repubblica Italiana (1942)
Art. 12 Interpretazione della legge
«... Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che
regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali
dell’ordinamento giuridico dello Stato»
Il corpo normativo codificato esprime un valore, pertanto tutto ciò che verrà dopo
deve essere affrontato espandendo i valori presenti nella codificazione.
Nell’analogia c’è un’idea di fondo: l’espansione del valore del diritto esistente.
Il diritto già esistente è un modello e serve ad affrontare la novità.
Analogia legis
Analogia iuris
Fino al codice del 1865 tutti i codici preunitari parlavano di principi generali del diritto e, per tali, si
intendevano il diritto romano e la sua tradizione: il giudice, quindi, di fronte ad una lacuna della legge e
all’impossibilità di applicare per analogia una legge esistente, andava a prendere le fonti del diritto romano.
Nel 1804, con il codice francese, viene proposta una soluzione aberrante: quando il giudice non trova la
legge applicabile al caso concreto, deve rimettere alle camere e segnalare la lacuna, le camere dovranno poi
emanare una legge apposita. Si tratta di una soluzione non realistica.
Soluzione italiana: nel tradurre dal tedesco all’italiano il manuale delle Pandette di Windscheid (padre del
codice civile tedesco), il codice civile del 1865, tra i metodi per colmare le lacune dell’ordinamento, indica i
principi generali del diritto, ma in realtà tali principi sono da intendere come i principi generali
dell’ordinamento giuridico dello Stato.
Questa concezione è entrata nella dottrina dominate e poi nel codice civile del 1942.
L’Unione Europea ci parla di principi generali comuni dei diritti degli Stati membri. La Corte europea ha
sviluppato il c.d. ius romanum europeum, si è resa conto che, al di là degli ordinamenti, c’è una base
romanistica comune a tutti gli Stati membri e quindi ha iniziato ad enucleare una serie di principi generali
comunioni.
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“In materia di responsabilità contrattuale, la comunità deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti
degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni”
Nella prospettiva attuale, il giudice deve considerare il diritto esistente come un modello: di fronte ad una
controversia che non ha una regola giuridica codificata in grado di risolverla, il giudice deve cercare di
espandere il modello di valore codificato anche all’ipotesi non regolata. Nell’effettuare questa operazione di
espansione il giudice interpreta la legge; nella concezione attuale, come abbiamo detto, l’analogia è una
tecnica di interpretazione della legge esistente. Andando a trovare una disposizione che regola casi simili o
materia analoghe il giudice non crea diritto ma interpreta la legge esistente.
Il sintagma latino per esprimere l’analogia è “procedere ad similia” (procedere a quelle simili).
Il potere di fare analogia è affidato a chi è titolare della giurisdizione.
Erroneamente si potrebbe pensare che si tratti di un sistema uguale a quello esistente attualmente. Tra i due
modelli, tuttavia, c’è una grande differenza: partendo dal presupposto della naturale impossibilità di
prevedere tutto all’interno del dato normativo, chi ha la iurisdictio a Roma non ha un potere di mera
applicazione del diritto esistente ma partecipa anche alla produzione del diritto.
L’ideologia romana è coerente: essendo l’analogia un meccanismo che crea diritto, essa deve essere
esercitata da chi ha il potere di creare diritto e il potere di creare ius per il caso concreto spetta al pretore,
eletto direttamente dal popolo con questa finalità.
Pertanto, se per noi l’analogia è interpretazione della legge e quindi il giudice non crea diritto ma interpreta
la legge esistente, per i romani invece è esercizio dello iusdicere e quindi può essere esercita solo dai pretori
che sono eletti dal popolo con questa finalità.
L’analogia entra nel circuito di creazione giurisdizionale del diritto.
Par. 18
Ma poiché, mentre le cose divine sono perfettissime, la condizione del diritto degli uomini sempre si evolve all’infinito e
nulla vi è in essa che possa essere stabile nel tempo... non dobbiamo disperare se successivamente sorgano negozi che non si
annodano saldamente a queste leggi. Perciò se questo accade, si chieda l’intervento dell’imperatore, perché Dio prepose la
fortuna imperiale nelle cose umane, affinché questi possa con misure adeguate migliorare, ordinare e disciplinare tutte ciò
che accade di nuovo. E questo non l’abbiamo detto noi per la prima volta, ma discende dall’antica stirpe: poiché anche lo
stesso Giuliano, fondatore finissimo dell’editto perpetuo e di leggi, tramanda nei suoi libri che se qualcosa di imperfetto si
scopra, ciò sia corretto dalla sanzione imperiale. E non solo il giurista, ma anche l’imperatore Adriano, nella redazione
dell’editto stesso e nel senatoconsulto successivo, si pronunciò apertamente così: se qualcosa nell’editto così composto si
trova omesso, lo possa apprestare un nuovo contributo dotato di autorità, ispirato alle regole ivi contenute e
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all’interpretazione ed analogia nei suoi confronti (si quid in edicto positum non invenitur, hoc ad eius regulas eiusque coniecturas et
imitationes possit nova instruere auctoritas)
Si tratta di un’espressione dell’imperial-legalismo: è l’imperatore che dice che se c’è qualche lacuna è
necessario chiedere il suo intervento. È un’ideologia in cui l’imperatore ritiene ormai di avere il monopolio
delle fonti di produzione del diritto.
Per avvalorare la sua posizione di imperatore, egli poi ricorda la codificazione dell’editto perpetuo di
Giuliano e l’imperatore Adriano. Pertanto, sia nel caso dell’editto perpetuo sotto Adriano sia nel caso della
codificazione giustinianea c’è la necessità di ritenere che il contenuto della codificazione sia un valore
intorno al quale ruota la soluzione dei casi non regolati.
Sia in Giuliano, che in Giustiniano, che nella concezione dello statual-legalismo vi è l’idea dell’espansione
del diritto esistente ai casi non regolati; tuttavia l’ideologia più realistica è quella di Giuliano. Giuliano dice
che l’analogia deve essere realizzata da chi ha il potere di creare il diritto, perché l’analogia crea diritto.
Pensare che i nostri giudici, quando ricorrono all’analogia, non creino diritto è totalmente sbagliato; quando
ricorrono all’analogia i nostri giudici creano una grande quantità di diritto, senza però avere
costituzionalmente il potere per farlo.
PAOLO, All’editto
Peraltro, ciò che è stato recepito nel tempo contro la ratio iuris, non è da condurre innanzi, a conseguenze.
Disposizioni sulla legge in generale, preliminari al Codice Civile della Repubblica Italiana (1942)
- L’ideologia che emerge dalle Disposizioni preliminari è quella della prevalenza dei “verba”: la scelta di
valore del legislatore statual-legalista (visto che la produzione del diritto è monopolio dello Stato, con
legge) è quella di dire che chi interpreta deve attenersi in modo rigoroso alle parole usate e al loro
significato.
- Quando Giustiniano fa la codificazione vieta ai giuristi le interpretazioni: non vuole che il testo
codificato venga poi, grazie alle sottili interpretazioni dei giuristi, reso confuso. Quello che vale è il
testo.
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- Napoleone, nel suo codice, impone il divieto di interpretazione. La dottrina francese si trova costretta
all’interno dell’interpretazione strettamente formale delle parole (scuola dell’esegesi).
1. “Conoscere le leggi non è possedere le loro parole, ma la loro forza e la loro potestà”
Conoscere le leggi non è sapere quello che esse dicono, ma capire il valore fondamentale che esprimono.
Si tratta di una linea antitetica rispetto al “verba tenere” dell’Art. 12 delle preleggi.
2. “Quando sia stata citata qualche piccola parte di una legge, è giuridicamente scorretto giudicare o rispondere senza
averla esaminata tutta”
Criterio dell’interpretazione sistematica, completa; l’interpretazione deve tener conto della coerenza del
sistema e non solo della singola regola giuridica.
3. “Si devono interpretare le leggi in modo adeguatamente benevolo, per preservarne la bontà”
Criterio della conservazione del significato. Si deve interpretare la legge cercando di conservare un
significato adeguato all’intero corpo normativo.
La concezione contemporanea la giurisdizione viene vista come mera applicazione del diritto esistente.
Nel diritto romano, invece, la iurisdictio ha una grande forza di produzione del diritto.
Pensare che non sia ius il diritto enunciato per il caso concreto è una prospettiva sbagliata. È ius l’editto, è ius
la legge, è ius la dictio che il magistrato eletto dal popolo fa per regolare la controversia.
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APPLICAZIONE DEL DIRITTO
ACTIO
L’actio costituisce un’altra nozione fondamentale del diritto, l’agere.
In questo sistema, l’azione viene vista come una pertinenza del diritto soggettivo:
l’azione è il diritto soggettivo stesso che si attiva quando viene leso
(non è un diritto autonomo, ma è il diritto stesso che si mette in movimento).
Il titolare del diritto di proprietà, qualora la sua proprietà venga lesa, può agire a tutela della proprietà.
Ecco perché concezione materiale o sostanziale dell’azione: l’azione non vive da sola;
esiste l’azione soltanto se esiste il diritto soggettivo.
o Concezione formale o astratta dell’azione; questa concezione è dovuta allo sviluppo interpretativo di
un grande giurista italiano Liebmann, basato su una discussione tedesca tra Windsheid e Muther.
Secondo Liebmann quando viene esercitata l’azione il soggetto non sa se ha il diritto soggettivo,
pensa di averlo, sarà poi il giudice con la sentenza a dire se il soggetto ha ragione o torto.
L’azione, quindi, non può essere la pertinenza dinamica del diritto soggettivo;
l’azione è qualcosa a sé che l’ordinamento riconosce in quanto tale
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(l’azione è una situazione giuridica soggettiva autonoma, indipendente).
Liebmann rompe il collegamento tra diritti soggettivi e azione come pertinenza.
L’azione è, a sua volta, un diritto soggettivo: l’azione è il diritto di agire in giudizio a prescindere
dall’esito; solo in caso di esito positivo verrà riconosciuta la posizione di cui si richiede tutela.
- Pro della concezione materiale:
non c’è dubbio che, quando si esercita l’azione, l’esistenza o meno del fondamento dell’azione è oggetto
dell’accertamento processuale.
Anticamente l’agere non include solo l’agire in giudizio (davanti a colui che esercita la iurisdictio),
ma anche l’agire negozialmente, ossia compiere atti giuridici (es. nexum o mancipatio).
Pertanto, nella prospettiva arcaica è actio non solo quello che chiedo di fronte al titolare della giurisdizione
ma anche il compimento di atti giuridici rilevanti per il diritto.
Inizialmente “lege agere” non significa “azione giudiziaria basata su legge pubblica”,
ma significa “agire in modo rituale”.
Successivamente, a partire dalle XII Tavole, emerge l’idea che un’agere di fronte al titolare della iurisdictio
deve avere un fondamento in una legge pubblica (si crea una sorta di riserva di legge per l’agire).
Da quel momento in poi, per introdurre un nuovo modo di agire si deve far votare una legge pubblica;
politicamente è emersa l’idea della necessità di un fondamento legislativo dell’agere.
A questo antico processo, ad un certo momento, si affianca, sulla base della necessità di sviluppare
un diritto che regoli i rapporti tra romani e stranieri (ius gentium), un processo universale.
Nasce per situazioni specifiche, per situazioni non precedentemente tutelate dal processo formulare.
Azione fondata sullo ius civile e sullo ius gentium già esistente.
Sono le azioni che presentano la formula in ius; si tratta di azioni tipiche e nominate.
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Azioni introdotte dal pretore.
Sono le azioni che presentano la formula in factum; anche queste azioni sono tipiche e nominate
(in genere queste azioni prendono il nome o del primo pretore che le ha proposte nel suo editto o del
giurista che ha proposto al pretore l’azione).
Sia le azioni fondate sul ius che quelle fondate sul factum sono presenti nell’editto del pretore.
Azione decretale.
Qualora non venga trovata nell’editto un’azione adeguata, il pretore, se ritiene che la situazione sia
meritevole di tutela, può concedere un’azione apposita (fondata sull’imperium e sulla iurisdictio).
Actio, quindi, non è solo quella prevista dall’ordinamento (in ius o in factum), ma è anche qualcosa
che non esiste al momento della richiesta ma che il cittadino sente come meritevole di tutela.
Leggendo le fonti romane ci rendiamo conto che l’azione non è giudizio, l’azione non viene attratta nel
momento tecnico procedurale dell’accertamento, ma attratta automaticamente nella sfera del ius.
GIUSTINIANO, Istituzioni
“Niente altro è l’azione che il diritto di perseguire in giudizio ciò che ci è dovuto”
Giustiniano riprende parzialmente la definizione di Celso e la mette nelle sue istituzioni.
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o Celso, invece, ha una visione aperta: l’azione è ciò che pensiamo
ci sia dovuto.
L’azione non è legata a situazioni necessariamente già tutelate; può essere meritevole di tutela
anche una situazione per cui non sia prevista una specifica azione.
L’azione diventa l’arma, che ognuno di noi ha, per migliorare l’ordinamento
e per perseguire sia l’interesse del singolo sia l’interesse di una collettività.
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