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From ''To The Lighthouse'' BY Virginia Woolf

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JAMES JOYCE:

Romanziere irlandese, considerato lo scrittore più audacemente inventivo e sperimentale del Novecento
modernista, nasce il 2 febbraio 1882 a Rathmines, sobborgo a sud di Dublino nel 1882.

Joyce era il primo di dieci figli di John Stanislaus, impiegato dell’esattoria comunale, uomo ben noto in città
per i suoi modi schietti ed esuberanti, ma debole di carattere e per di più dedito al bere, e di Mary Jane
Murray, una donnina mite e gentile, molto legata ai valori della fede cattolica.

L’intera carriera scolastica di Joyce si svolse a Dublino, dove già dagli anni della scuola secondaria si distinse
vincendo vari premi accademici. Per qualche tempo contemplò la possibilità del sacerdozio, idea che poi
abbandonò (com’è noto, si allontanò poi dalla chiesa cattolica sino ad abbandonarla del tutto).

Fece gli studi universitari allo University College di Dublino, dove si laureò in Lingue moderne nel 1902. Gli
anni dell’Università, in cui approfondisce la conoscenza dei grandi autori della letteratura, sono anche gli
anni in cui si acuisce il suo senso di insofferenza verso il clima soffocante della cultura irlandese, chiusa a
tutto quanto sappia di novità e sperimentalismo.

A questi anni (1900) risale il suo saggio Ibsen’s New Drama, in cui difende la drammaturgia immorale e
sovversiva dell’autore norvegese. Il suo saggio attira l’attenzione della critica, che risponde in maniera più
che altro positiva. Lo stesso Ibsen inviò al giovanissimo critico una lettera di ringraziamento. L’insofferenza
verso il provincialismo e il nazionalismo reazionario della cultura irlandese (ed in particolar modo
l’intolleranza nei confronti degli ideali locali del Celtic revival e dell’IRISH NATIONAL THEATRE, promotore di
una politica culturale che Joyce considerava gretta e provinciale) vengono invece manifestate da Joyce nel
saggio The Day of Rabblement (il giorno della marmaglia).

L’insofferenza nei confronti della terra natìa lo induce a trasferirsi a Parigi dove inizia a studiare medicina.
Ma alla Bibliothèque Nationale ad interessarlo sono soprattutto testi letterari e filosofici. Tornò però in
patria per le disperate condizioni di salute della madre, e il rimorso per non aver voluto pregare al suo
capezzale costituirà, come è noto, uno dei temi di apertura di Ulysses.

Restò in Irlanda insegnando in una scuola solo fino al 1904, anno in cui decise di abbandonare
definitivamente Dublino. Il 1904 fu un anno decisivo per Joyce: scrive il lungo saggio “A Portrait of the
Artist”, che poi decide di trasformare in un romanzo dal titolo Stephen Hero, che costituirà la base per il più
articolate Poprtrait of the Artist as a Young Man. Compone nel coprso di quest’anno molte poesie della
raccolta Chamber Music e, con lo pseudonimo di Stephen Dedalus, il racconto “The Sisters”, il primo dei
quindici che costituiranno la raccolta Dubliners. Nel corso di questo stesso anno incontra Nora Barnacle,
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originaria di Galway e cameriera in un albergo di Dublino: il 16 giugno, giorno del loro primo
appuntamento, sarà poi scelto da Joyce come giorno in cui si svolge l’azione dello Ulysses. Nora, che
avrebbe poi sposato solo nel 1931, sarà la compagna insostituibile della sua vita.

Nel 1905 la coppia si trasferì a Trieste, porto dell’impero austroungarico e città cosmopolita come poche.
Furono anni duri, in cui James e suo fratello Stanislaus – che l’aveva raggiunto per seguirlo nella sua
avventura – si mantengono impartendo lezioni di inglese presso la Berlitz School. lavorava come insegnante
di inglese. Tra i suoi studenti ci fu Italo Svevo, con il quale ebbe vita un vero e proprio sodalizio. Fu Joyce
contribuì in seguito a rendere Svevo noto in Europa.

Fu a Trieste che Joyce portò a termine una raccolta di racconti iniziata in patria, DUBLINERS, pubblicata poi
nel 1914, ed anche il suo romanzo autobiografico, PORTRAIT OF THE ARTIST AS A YOUNG MAN, pubblicato
poi nel 1914-1915 sulla rivista di Ezra Pound, The Egoist, poi in volume nel 1916.

È a Trieste, nel 1905, che nasce George, il primogenito di James e Nora. Nel 1907 nasce la secondogenita,
Lucia, nella corsia dei poveri dell’ospedale di Trieste, che sarà per lui e Nora fonte di grande dolore.

Nell’estate del 1909 Joyce torna a Dublino per far conoscere i figli alla sua famiglia d’origine, ma anche per
contrattare la pubblicazione di Dubliners e per lanciarsi nell’investimento di un cinema. Ma entrambi i
tentativi finirono male. L’editore non volle rischiare di pubblicare i racconti poiché troppi personaggi
influenti della città sono riconoscibili. Il cinema fallisce nel giro di un mese.

Dopo il triste rientro in patria, Joyce e la sua famiglia tornano a Trieste.

Durante il primo conflitto mondiale, Joyce e Nora si trasferirono a Zurigo, dove Joyce terminò il vasto
romanzo epico-comico che aveva iniziato come continuazione del Portrait, Ulysses. È un periodo molto
duro: oltre alle ristrettezze economiche, Joyce comincia a soffrire di gravi disturbi alla vita. Dovrà subire vari
interventi chirurgici che lo costringeranno a più o meno lunghi periodi di parziale cecità.

Quest’opera venne pubblicata a puntate sulla rivista americana “THE LITTLE REVIEW” tra il 1918 e il 1920,
quando venne poi bloccata dalla censura. Al termine della prima guerra mondiale James e Nora si
trasferirono di nuovo a Trieste, per restarvi due anni prima del trasferimento a Parigi, dove rimasero fino
allo scoppio della seconda guerra mondiale.

A Parigi Joyce terminò di scrivere Ulysses, che venne pubblicato nel 1922 (stesso anno della pubblicazione
della Waste Land di Eliot: per questo il 1922 viene considerato l’annus mirabilis del modernismo inglese). A
causa della censura, Ulysses non venne pubblicato in America prima del 1934, ed in Gran Bretagna prima
del 1936.

Nel 1923 Joyce cominciò a scrivere il suo ultimo romanzo, Finnegans Wake, epica onirica e verbale,
costruito come un interminabile gioco di parole, che lo terrà impegnato per circa 16 anni. Dopo la sua
pubblicazione, nel 1939, Joyce e la moglie, allo scoppio della seconda guerra mondiale si trasferirono di
nuovo in Svizzera, nel 1940.

La residenza svizzera questa volta fu però molto breve: Joyce si ammalò, e morì per un’ulcera perforata nel
1941. Venne sepolto nel cimitero di Zurigo.

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Joyce aveva esordito con la scrittura di brevi composizioni in prosa, quadretti realistici colti al volo,
pubblicati poi postumi con il nome di Epiphanies, e con le liriche di Chamber Music, all’apparenza esercizi di
scrittura.

Le opere: tra le opere giovanili di Joyce ricordiamo le prose brevi “epiphanies”, epifanie, una quarantina di
componimenti in prosa costituiti per lo più da brevi dialoghi. Intendono essere, come testimonia il titolo
stesso, delle piccole stesure in prosa che catturano sulla pagina dei momenti EPIFANICI, vale a dire –
secondo una definizione che diede lo stesso Joyce, delle RIVELAZIONI IMPROVVISE DELLA VERITA’ DELLE
COSE, SCATURITE DALL’OSSERVAZIONE, ANCHE OCCASIONALE, DI OGGETTI, COSE, LUOGHI, PERSONE
COMUNI CHE, PER UNA SORTA DI IMPROVVISA ,MANIFESTAZIONE SPIRITUALE, RIVELANO LA LORO ANIMA.

DUBLINERS:

Come spiega Joyce stesso, i racconti dei Dubliners “aspirano a scrivere un capitolo della storia morale del
mio paese, ed ho scelto Dublino come scena perché quella città mi sembrava essere il centro della
PARALISI”. Per riuscire a comprendere meglio i racconti joyciani bisogna ricordare, seppur per grosse linee,
il difficile momento storico che stava vivendo l’Irlanda proprio negli anni della giovinezza di Joyce.

Nei Dubliners Joyce intende perseguire due obiettivi nello stesso momento. Il primo è quello di proporre la
città di Dublino come “personaggio” capace di esprimere simbolicamente l’inerzia e la paralisi di un popolo
e di una civiltà. Dall’altro, il RINNOVO delle tecniche narrative del romanzo dell’Ottocento.

Seppure in sé autonomi, i racconti dei Dubliners sembrano regolati da una precisa e globale struttura
narrativa. Sono suddivisi in 4 apsetti, o momenti: infanzia, adolescenza, maturità, vita pubblica.

Ciascuno dei racconti vede lo sviluppo articolato della tecnica delle EPIFANIE, ossia l’ampliamento in forma
di racconto di quelle brevi annotazioni destinate a registrare attimi assai delicati ed evanescenti di
un’improvvisa rivelazione della verità delle cose. Nei Dubliners, dunque, le epifanie si sviluppano fino a
diventare una forma narrativa più ampia ed articolata, e sempre l’attimo che dà l’impulso primario
all’epifania parte da Dublino, cogliendo da tale città vicende di vita quotidiana, squarci di esistenze
individuali o storie di vita pubblica. Dublino è dunque una fonte illimitata di momenti topici che ispirano
epifanie rivelatrici della verità dei momenti vissuti.

Per quanto riguarda lo stile, Joyce è qui lontano dalla scrittura sperimentale del Portrait o di Ulysses.

I Dubliners sono scritti con grande finezza espressiva (l’intensità dell’atmosfera psicologica ha fatto pensare
a Cechov), stesi in uno stile oggettivo, neutro, improntato alla massima ECONOMIA ESPRESSIVA e allo
stesso tempo con una precisione naturalistica del dettaglio (che sembra paradossalmente richiamare
proprio ai francesi dell’Ottocento, Maupassant e Flaubert), i racconti ruotano tutti intorno ad alcuni temi
centrali:

LA FRUSTRAZIONE E IL FALLIMENTO, LA PARALISI, OSSIA LA STAGNAZIONE IN UNA SITUAZIONE


INSODDISFACENTE E L’INCAPACITA’ DI SFUGGIRVI.

L’efficacia della narrazione dei Dubliners è data, oltre che dall’unità dell’ambientazione e della tecnica
espressiva, anche dalla capacità di Joyce di tenere insieme i singoli racconti non solo mediante la ricorrenza
dei medesimi temi ma anche in virtù di una fitta rete di simboli, immagini assonanze e simmetrie che ne

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fanno un microcosmo unitario e coerente, che raggiunge uno stato di perfezione compiuta nel racconto
finale, THE DEAD.

LA TEORIA DELLA PARALISI: per Joyce ad essere ostili ad ogni movimento e ad ogni possibile sviluppo verso
il moderno sono: LA BORGHESIA IRLANDESE, LA CHIESA, LA FAMIGLIA.

Per quanto riguarda la borghesia e la situazione politica dell’Irlanda di quegli anni – la lotta per
l’indipendenza dall’Inghilterra era sfociata nella Pasqua del 1916 in una violenta rivolta che fu duramente
repressa nel sangue con l’uccisione di molti giovani – a Joyce sembra che anche i movimenti indipendentisti
non siano dinamici e sovversivi quanto più che altro difensivi, ristretti a delle minoranze nazionaliste e
ripiegate su se stesse.

La Chiesa poi, che egli conosce dall’interno, non gli appare animata da nessun afflato modernista: la
dottrina cattolica gli appare gelida nel suo immobilismo, nel formalismo vuoto delle liturgie, nell’offerta di
modelli di vita ormai anacronistici. E la famiglia, come la Chiesa, gli appare come la sede elettiva e garante
di tali modelli obsoleti.

Al loro primo apparire i racconti fecero meritare all’autore la definizione di “English Zola” – e non sappiamo
quanto possa aver fatto piacere a Joyce la definizione “English”…

Ed in effetti lo stile dei Dubliners sembra essere a metà strada tra il naturalismo Ottocentesco ed il
Simbolismo letterario: non vi è infatti racconto in cui la riproduzione attenta del reale non si accompagni ad
una proiezione allegorica o simbolica della stessa. L’attenzione quasi ossessiva per il dettaglio – un quadro
sulla parete, una foto ingiallita, un ambiente, le stesse idiosincrasie linguistiche di un personaggio –
discende da una prospettiva allegorico-simbolica che quasi sempre pone il particolare prescelto in
consonanza immaginativo-semantica con un giudizio già emesso o con una scena già disegnata.

L’umanità che viene dipinta in questi racconti è priva di alito di vita: è un’umanità che ripete i suoi gesti,
sempre uguali a se stessi, che non riesce a sfuggire ad una paralisi che non consente un vero e vitale
movimento che dia senso alla vita stessa, ma solo conati di movimento che presto tornano a soffocare,
lasciando le singole inutili vite in un grigiore e in un’apatia che pare riverberarsi nel colore stesso della città
di Dublino, sempre immersa in un’ombra perenne che assimila gli edifici gli uni agli altri e trasforma tutto in
una scena noiosa e che si ripete sempre uguale a se stessa.

Il racconto che apre la raccolta è emblematico: il titolo è THE SISTERS, la narrazione è in prima persona da
parte di un ragazzo che si reca in una casa dove è esposta la salma di un vecchio prete, morto –
emblematicamente – per una PARALISI. La parola paralisi, che risuona continuamente nella mente del
ragazzo, contiene, per via simbolica, la chiave interpretativa dell’intera raccolta: lo spazio è quello di una
città immobile, in cui il tempo è fermo e l’azione si riferisce solo a CONATI DI GESTI EMANCIPATORI, A
VELLEITA’ MAI PERSEGUITE FINO IN FONDO, A DESIDERI MAI SODDISFATTI CHE DEGENERANO IN UN
APATOLOGIA DEL QUOTIDIANO CHE INVESTE TUTTO CIO’ CHE E’ VISIBILE.

Viene fuori da questi racconti il ritratto di una borghesia apatica e vuota, descritta nello svolgimento dei
suoi RITI INSIGNIFICANTI, incapace di dar corpo anche a solo uno dei sogni di fuga che raramente,
fugacemente, la colgono. Emblematico in questo senso è anche EVELINE, la cui protagonista – che dà il
nome, appunto, al racconto – non fuggirà mai con il suo innamorato verso quei luoghi lontani che avevano
sognato insieme. Resterà, alla fine del racconto, pietrificata sul molo da dove dovrebbe partire,
immobilizzata in un ottundimento totale dei sensi e della ragione. “Si precipitò oltre i cancelli chiamandola

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perché la seguisse. Gli urlarono di proseguire, ma lui continuava a chiamarla. Allora lei gli mostrò il volto
esangue, come quello di un animale spaurito. I suoi occhi non gli dettero il minimo segno d’amore, di addio
o di riconoscimento”.

Ed ancora, in The Boarding House (Pensione di famiglia), il protagonista BOB che nutriva sogni di libertà, di
librarsi sul tetto e volar via in un altro paese, finisce per sposare la figlia dell’affittacamere che lo ospita,
optando per una vita tranquilla e sicura, quanto RIPETTITIVA ed OTTUSA.

PER QUANTO RIGUARDA L’ULTIMO RACCONTO, THE DEAD, possiamo parlare di un racconto destinato a
diventare un vero e proprio oggetto di culto della narrativa breve novecentesca. Il racconto fu aggiunto nel
1907 da Joyce, che, come lui stesso precisa, decise di aggiungerlo perché si era accorto, rileggendo i
racconti, di aver completamente trascurato di soffermarsi su una delle caratteristiche più condivise e
invidiate della cultura irlandese: l’ospitalità. Ed infatti la tradizionale, generosa festa natalizia delle signorine
Morkan – che fa da cornice al racconto – fornisce sicuramente una compensazione al senso di colpa
dell’autore che, come abbiamo più volte detto, ha scelto di abbandonare il luogo natio per una vocazione
europeistica che come abbiamo visto lo induce a demolire sistematicamente le componenti funzionali della
sua cultura di provenienza: famiglia patriarcale, religione cattolica, nazionalismo.

Quando nel 1904 Joyce abbandona l’Irlanda per trasferirsi – per un improponibile lavoro di insegnante di
inglese – nella città del territorio italiano inglobato nell’impero asburgico austro-ungarico (Trieste), SI SENTE
EUROPEISTA MA ANCHE, INESORABILMENTE, ESULE. E da esule decide di rivivere nell’arte e nella scrittura
la propria cultura di provenienza, per denunciarne i limiti, le contraffazioni, le incongruità. Ed infatti le sue
storie sui dublinesi rappresentano nel loro insieme una crudele e impietosa disamina dei difetti della loro
matrice culturale ed ideologica. E tuttavia, dalla distanza emotiva, psicologica e intellettiva garantita
dall’esilio italiano Joyce sente di aver tradito, in qualche modo, i presupposti positivi della sua cultura di
appartenenza.

A PORTRAIT OF THE ARTIST AS A YOUNG MAN

I primi racconti dei Dubliners furono firmati da Joyce con lo pseudonimo di STEPHEN DEDALUS, nome che
sarà quello del protagonista del lunghissimo frammento autobiografico intitolato Stephen Hero che non
sarà in realtà altro che il confuso e incompiuto abbozzo del romanzo A Portrait of the Artist.

L’idea di Joyce in “Stephen Hero” era quella di scrivere una PROIEZIONE ANALOGICA DELLA SUA
ADOLESCENZA vissuta all’insegna dell’emancipazione e della riflessione esistenziale e intellettuale, ispirata
ad una ballata settecentesca, dal nome Turpin Hero, che celebrava le gesta di un fuorilegge.

La stesura di quest’opera incompiuta risale al 1905-1906, anni in cui Joyce era impegnato anche a scrivere
i Dubliners. Ma poi Joyce abbandonò definitivamente il progetto.

Rimangono solo 12 capitoli, dal XIV al XXV, poiché Joyce distrusse – in un momento di sconforto – tutto il
lavoro precedente. Il libro consta della registrazione minuziosa, si potrebbe dire maniacale, del quotidiano
di Stephen: un accumulo di dati che finisce per costituire una serie troppo lunga di capitoli monotoni
ravvivati solo dai momenti di epifanie. Ad ogni modo, il carattere troppo privato dei fatti narrati non
consente all’opera di innalzarsi in un’autentica trasfigurazione in termini artistici.

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Stephen Hero era l’ambizioso progetto di voler comporre una sorta di Don Juan byroniano degradato alla
prosa quotidiana (del resto nello Ulysses adotterà poi il modello del poema eroicomico in prosa). La
straordinaria lunghezza dell’opera (erano previste 2000 pagine) doveva essere in funzione della
registrazione minuziosa dell’insignificante quotidiano, che avrebbe acquistato senso e importanza proprio
dal suo accumulo, percorso da lampi epifanici, ricostruendo il ritratto interiore del protagonista attraverso
la rappresentazione della sequenza fluida dei suoi “presenti” passati.

Ma la difficoltà, sul piano estetico-narrativo di un tale procedimento sta nella sua mancanza di una “forma”,
di una struttura generale e portante identificabile. Un capitolo segue l’altro in mera successione
cronologica, con occasionali impennate stilistiche, ma senza delineati prospetti architettonici. Questo
AMORFISMO STRUTTURALE è il difetto di Stephen Hero, che però scomparirà nel Portrait. Anzi, il Portrait è
proprio UN MODELLO DI COERENZA STRUTTURALE E STILISTICA, UN ROMANZO IN CUI L’AUTORE RIESCE A
CONTROLLARE, ORDINARE, DARE FORMA E SIGNIFICATO ALLE DINAMICHE E ALLE TENSIONI INTERNE CHE
HANNO VITA DALL’INTERAZIONE TRA MONDO ESTERNO-SOCIALE E MONDO INTERIORE-INDIVIDUALE.

Tale controllo si ottiene mediante il rigore formale della narrazione che riesce a creare un susseguirsi di
“blocchi/centri narrativi” che hanno un potere di attrazione e trazione dell’uno verso l’altro.

A Stephen Hero mancava in realtà la cifra stilistica che sarà invece dominante nel Portrait (l’opera è
conosciuta in Italia anche come Dedalus, titolo che scelse di dargli Cesare Pavese quando tradusse il
romanzo): vale a dire la giusta distanza critica e ironica dell’autore empirico rispetto al suo personaggio:
non una autoritratto, ma una ricostruzione con un adeguato distacco critico dalla figura di un giovane che
non si pone come fine solo l’emancipazione dall’ambiente, dai padri e dalle proprie soffocanti radici ma
anche, e soprattutto, l’INDAGARE LA NATURA DELL’ARTE ED I MODI PER ACCEDERVI COME SOGGETTO
CREATIVO.

Joyce vi lavorò a lungo, dal 1907 al 1915. L’opera apparve in versione quasi integrale su The Egoist tra il
1914 e il 1915, poi in volume nel 1916.

La trama è semplice: Stephen Dedalus, che studia in un collegio di Gesuiti, ad un certo punto della sua
crescita avverte imponente la necessità di allontanarsi dalla PATRIA, dalla CHIESA e dalla FAMIGLIA, le tre
istituzioni in cui non crede più ed in cui vede solo potenti ostacoli alla libera estrinsecazione di sé come
uomo e soprattutto come artista.

In altre parole, si tratta di un autoritratto in cui l’artista ormai maturo rivede e ricostruisce se stesso da
giovane. Dal punto di vista dello sfondo e delle tematiche, le analogie con i Dubliners sono notevoli.
Stephen Dedalus potrebbe essere uno dei personaggi dei racconti iniziali – dell’infanzia e dell’adolescenza –
che del resto aveva firmato.

Ma, a differenza dei Dubliners, in cui la solidità dell’impianto strutturale complessivo – un viaggio attraverso
le differenti età dell’uomo, ciascuna caratterizzata da momenti epifanici rivelatori – riflette una totale
staticità socio-storica (che abbiamo più volte definito “paralisi”). Nel caso del Ritratto dell’Artista alla
staticità si sostituisce l’evoluzione, la maturazione del soggetto che giunge ad un personale concezione

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dell’arte e della creazione artistica che daranno forma e senso alla sua esistenza. Una esplorazione, dunque,
in termini narrativi, dell’io dell’artista. L’analisi di uno sviluppo e di un’evoluzione – lo ripetiamo, quindi,
non statici – della personalità umana caratterizzata dalle sue costanti.

Joyce stesso ci tiene però a specificare che il suo non è affatto un romanzo “psicologico”. L’operazione
condotta è tutta in termini artistico-narrativi. Joyce condannava, in realtà, qualsiasi psicologismo e qualsiasi
narrativa psicologica. Riteneva il romanzo psicologico un’espressione soggettiva di egocentrismo, del tutto
priva di quell’impersonalità e di quella distanza tra l’autore e la sua opera che costituiscono, secondo la sua
personale poetica, l’essenza dell’opera d’arte.

Dunque non un romanzo psicologico e nemmeno l’obiettività fotografica (seppur commossa) dei Dubliners:
ma – utilizzando la pregnante definizione formulata da Giorgio Melchiori:

LA PROIEZIONE OGGETTIVA DI UN IMPULSO EGOCENTRICO, oppure anche LA RICERCA DELL’IO PASSATO


ATTRAVERSO LO SGUARDO OGGETTIVO DELL’IO PRESENTE.

IL GRANDE RAGGIUNGIMENTO del romanzo di Joyce è quello di non essere più epos quotidiano
autobiografico e autocritico ma proiezione della vita nella sua interezza ma filtrata attraverso
l’immaginazione dell’artista, che si annulla in quanto personalità individuale e idiosincratica nel momento in
cui crea l’opera e si mette al servizio dell’arte. La straordinaria felicità del Portrait, che ne fa uno dei primi
grandi romanzi pienamente realizzati del secolo scorso (Proust stava lavorando alla Recherche, che sarà
nota solo anni più tardi), sta nell’aver concretizzato questa POETICA DELL’IMPERSONALITA’, organizzando
un materiale sempre e trasparentemente autobiografico, attraverso successivi filtri e sottili dislocazioni
(figurative, spaziali e/o temporali), in forme autonome. La pigra seuenza autobiografica di Stephen Hero
diviene ora una composizione di 5 solidi blocchi narrativi, ciascuno con una PROPRIA FISIONOMIA ICONICA,
con un proprio DIAGRAMMA EMOZIONALE, e con una serie di FUOCHI/FULCRI ESPRESSIVI che intensificano
il potere semantico e irradiante dei rispettivi nuclei epifanici.

Ecco nel primo capitolo le POLISEMIE e le DISLOCAZIONI LINGUISTICHE (che anticipano i virtuosismi
sperimentali di Finnegans Wake) che rendono conto delle illuminazioni semi-articolate dell’infanzia, la
scoperta del mondo sociale nella scuola e di quello politico durante il pranzo natalizio; poi la prima
esperienza dell’esercizio gratuito della violenza, nel collegio di Clongowes Wood, debolmente compensata
dal ricorso all’autorità.

Il secondo capitolo, la prima adolescenza, anch’essa tenuta in un collegio di Gesuiti, è costituita da alcuni
momenti topici: 1. il primo lieve e vago risveglio dei sensi ; 2. l’intuizione definitiva dello squallore e
dell’ipocrisia del mondo provinciale dominato dalla ferocia di un moralismo gretto e ipocrita. 3. la scoperta
sconvolgente del suo estraniamento dal mondo del padre – durante la visita a Cork – e infine 4. il primo
atto liberatorio della scoperta del sesso.

Il terzo capitolo è un unico blocco compatto, dominato dalle immagini infernali del sermone gesuitico
(Joyce fa riferimento ai testi del sermone secentesco di padre Gian Pietro Pinamonti): l’esperienza religiosa

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diviene in queste pagine puro terrore, l’umiliante senso del peccato e l’angoscia della punizione non
riescono ad essere placati neanche dai sacramenti della penitenza e dell’eucarestia.

Una spietata analisi delle discipline religiose ed una lucida e liberatrice presa di coscienza di scelte di vita
laiche caratterizzano il quarto capitolo:

insorgono i dubbi sulla purezza della vita imposta dalla paura e non dalla libera scelta; la considerazione
della contemplata assunzione dell’abito talare come codarda evasione da un mondo ostile, e infine la
visione ultima della sessualità, non più vissuta come un’esperienza infernale e peccaminosa ma, al
contrario, come qualcosa di salvifico e confortante: l’epifania della fanciulla seduta sulla spiaggia, che segna
l’avvento della vita, della gioia pagana, e che coincide con la rivelazione della vocazione di artista. L’ultimo
capitolo, il più lungo, coincide con gli anni dell’Università e si svolge per gran parte in forme dialettiche che,
attraverso una serie di rifiuti, portano all’unica scelta possibile e coerente: l’esilio volontario: il rifiuto della
famiglia, della cultura accademica, della religione, della provinciale ipocrisia politica, del “confortevole”
fidanzamento borghese. Dunque, il famoso NON SERVIAM.

Poi, nell’ultimo capitolo, l’improvviso passaggio alla forma di diario e dalla terza alla prima persona. Le
pagine del diario alla vigilia della partenza per l’esilio parigino nella loro stessa esuberanza stilistica fanno
risuonare una nota ironica: la maturità ostentata dapprima è smentita da questo improvviso scarto
linguistico che rimanda a quello della prima parte del libro – dell’infanzia, dell’epifania infantile – e
stabilisce anche sul piano stilistico la circolarità dell’opera. Il volontario esilio parigino si connota infatti non
come un vero e proprio estraniamento dalla società quanto come semplice ed inconcludente evasione
giovanile. Il vero esilio sarà invece quello del personaggio più completo e maturo creato da Joyce: parliamo
di Leopold Bloom, protagonista di Ulysses, il cui ruolo sarà quello autentico di ebreo errante, di esiliato
perpetuo. Si tratta di una sorta di percorso di formazione, Bildungsroman, attraverso il quale il
protagonista giunge ad una serie di rivelazioni – riguardo alla religione, alla politica, alle relazioni
sentimentali – che lo condurranno ad un conclusivo MAGISTERO LAICO DELL’ARTE che, per potersi però
svolgere, dovrà accompagnarsi ad un distacco – anche fisico da chi lo ha generato e dalla terra di origine.Si
tratta del raggiungimento di una CONDIZIONE DI ARTISTA LIBERA E LAICA, sancita da un NON SERVIAM
(latino per IWILL NOT SERVE, locuzione attribuita a Lucifero che esprime il suo rifiuto a servire Dio)
pronunciato dallo stesso Stephen al termine dell’opera. Un non serviam rimasto giustamente celebre:

Look here, Cranly, he said. You have asked me what I would do and what I would not do. I will tell you
what I will do and what I will not do. I will not serve that in which I no longer believe, whether it call itself
my home, my fatherland, or my church: and I will try to express myself in some mode of life or art as
freely as I can and as wholly as I can, using for my defence the only arms I allow myself to use—silence,
exile, and cunning.

“Guarda, Crainly – disse. Mi hai chiesto cosa avrei fatto e cosa no. Io ti dirò cosa farò e cosa non farò. Non
servirò ciò in cui non credo più, si chiami la casa, la patria o la Chiesa: e tenterò di esprimere me stesso in
un qualche modo di vita o di arte quanto più liberamente e totalmente potrò, utilizzando per difendermi le
sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio, l’astuzia / la scaltrezza”.

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Troppo spesso Dedalus è stato commentato in forma strettamente autobiografica andando a fare torto
quella che è l’esplicito e tanto sofferto obiettivo di impersonalità dell’opera. Il romanzo si offre infatti come
opera d’arte compiuta ed autosufficiente fissata in un tempo e uno spazio che vogliono essere
esclusivamente narrativi ed estetici: proprio per questo Joyce ripudiò Stephen Hero, riscrivendo l’opera
daccapo proprio per raggiungere il fine dell’autonomia estetica. Vi tornò sopra eliminando capitoli interi e
cancellando tutti i punti in cui l’identificazione tra personaggio e autore era troppo ovvia ed evidente.

Per quanto riguarda la cifra autobiografica – così netta e persino irritante in Stephen Hero – in questo
romanzo l’autore riesce a raggiungere livelli di impersonalità elevati che creano un distacco tra sé e il
personaggio che risponde perfettamente a quanto lo stesso Stephen dice a proposito della creazione
artistica facendo un paragone con Dio e il suo creato:

The artist, like the God of creation, remains within or behind or beyond or above his handiwork, invisible,
refined out of existence, indifferent, paring his fingernails. (5.1.150)

“L’artista, come il Dio della creazione, rimane dentro o dietro o al di là o al di sopra dell’opera sua,
INVISIBILE, SOTTILIZZATO fino ad uscire dall’esistenza (fino a sparire), indifferente, occupato a curarsi le
unghie”

Quello che per Eliot è un tortuoso e sofferente percorso di rinuncia al proprio io in favore dell’impersonalità
dell’opera poetica è invece in Joyce una divagazione speculativa che porta a un’immagine dell’artista come
dandy felice e indifferente che si taglia le unghie dopo aver messo in moto un universo che procede
luminosamente nella propria totale autonomia (un’immagine che in realtà è in netto contrasto con quella,
più volte testimoniata, di Joyce chiuso nel suo studio intento a scrivere e riscrivere fino allo sfinimento
psichico e fisico).

Possiamo dunque considerare il romanzo come una completa fusione tra Bildungsroman e Künstlerroman,
ossia tra il romanzo di formazione (incentrato sulla crescita e maturazione di un soggetto) e il romanzo
dell’artista (incentrato sulla crescita e maturazione di un soggetto che è un artista). Alla prima tipologia
vanno ascritti soprattutto i capitoli iniziali, quelli del collegio dei Gesuiti, del “divorzio” di Stephen sia con la
religione – considerata vuota e gretta nei suoi riti e nelle sue fredde formalità – che con la figura paterna.
Poi, i restanti capitoli, mostrano la crescita di Stephen come artista, il suo raggiungimento di una
concezione personale dell’arte che deriva dal congiungimento di intuizioni personali e teorie tomiste
(derivanti cioè dallo studio e approfondimento delle teorie dell’arte di Tommaso d’Aquino).

Il momento in cui Stephen si sente per la prima volta “artista” coincide con la visione di una splendida
ragazza seduta sulla sabbia. La sua bellezza è tale che Stephen ne ricava una trasfigurazione estetica che la
muta in una sublime creatura metà donna e metà uccello:

“A girl stood before him in midstream, alone and still, gazing out to sea. She seemed like one whom magic
had changed into the likeness of a strange and beautiful seabird. Her long slender bare legs were delicate as
a crane's and pure save where an emerald trail of seaweed had fashioned itself as a sign upon the flesh. Her

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thighs, fuller and soft-hued as ivory, were bared almost to the hips, where the white fringes of her drawers
were like feathering of soft white down. Her slate-blue skirts were kilted boldly about her waist and
dovetailed behind her. Her bosom was as a bird's, soft and slight, slight and soft as the breast of some dark-
plumaged dove. But her long fair hair was girlish: and girlish, and touched with the wonder of mortal
beauty, her face.

She was alone and still, gazing out to sea; and when she felt his presence and the worship of his eyes her
eyes turned to him in quiet sufferance of his gaze, without shame or wantonness. Long, long she suffered
his gaze and then quietly withdrew her eyes from his and bent them towards the stream, gently stirring the
water with her foot hither and thither. The first faint noise of gently moving water broke the silence, low
and faint and whispering, faint as the bells of sleep; hither and thither, hither and thither; and a faint flame
trembled on her cheek.

-- Heavenly God! cried Stephen's soul, in an outburst of profane joy.

He turned away from her suddenly and set off across the strand. His cheeks were aflame; his body was
aglow; his limbs were trembling. On and on and on and on he strode, far out over the sands, singing wildly
to the sea, crying to greet the advent of the life that had cried to him.

“Una ragazza gli stava davanti in mezzo alla corrente, sola e immobile, guardando lontano verso il mare.
Sembrava una creatura trasformata per incanto a somiglianza di uno strano e bellissimo uccello marino. Le
lunghe, sottili gambe nude erano delicate come quelle di un airone e intatte, salvo dove una striscia
smeraldina di alghe aveva formato un segno sulla carne. Le cosce, più piene e di una tinta tenue come
l’avorio, erano denudate quasi fino ai fianchi, dove gli orli bianchi dei calzoncini sembravano piume di
soffice lanugine bianca. Le gonne blu ardesia erano rialzate audacemente intorno alla vita e riunite dietro a
coda di colomba. Il seno era come quello di un uccello, soffice e delicato, delicato e soffice come il petto di
una colomba dalle piume scure. Ma i lunghi capelli biondi erano di ragazza: e di ragazza, toccato dal
miracolo della bellezza mortale, il volto.
Era sola e immobile e guardava lontano verso il mare; e quando sentì la presenza di Stephen e l’adorazione
nei suoi occhi, volse gli occhi verso di lui accettandone serena lo sguardo, senza vergogna o civetteria.
Lungamente, lungamente ne sopportò lo sguardo e poi serena distolse gli occhi da quelli di Stephen e li
chinò verso la corrente, agitando piano qua e là l’acqua con il piede. Il primo lieve suono di acqua mossa
piano ruppe il silenzio, sommesso, lieve e bisbigliante, lieve come le campane del sonno; qua e là, qua e là:
e una fiamma lieve le tremò sulla guancia.
«Dio del cielo!», gridò l’anima di Stephen, in uno scoppio di gioia profana.
Le volse le spalle improvvisamente e si incamminò attraverso la spiaggia. Aveva le guance in fiamme, il
corpo ardente, le membra tremanti. Si allontanò avanti, avanti, avanti, a grandi passi, sulle sabbie,
cantando selvaggiamente al mare, gridando per salutare l’avvento della vita che lo aveva chiamato.
L’immagine della ragazza gli era entrata nell’anima per sempre e nessuna parola aveva rotto il sacro silenzio
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della sua estasi. Quegli occhi lo avevano chiamato e la sua anima era balzata al richiamo. Vivere, errare,
cadere, trionfare, ricreare la vita dalla vita! Un angelo selvaggio gli era apparso, l’angelo della gioventù e
della bellezza mortale, un messaggero dalle belle corti della vita, per spalancargli dinanzi in un attimo di
estasi le porte di tutte le vie dell’errore e della gloria. Avanti, avanti, avanti!”

Si tratta di un’epifania che coincide con una vera e propria “chiamata” alla vocazione, un avocazione però
non sacra, ma profana, la vocazione all’arte, l’unica che possa consentire all’uomo di creare vita dalla vita,
bellezza da altra bellezza.

ULYSSES

Ulysses non è solo il punto di arrivo dell’attività creativa di Joyce ma anche un momento di svolta cruciale
della letteratura occidentale. Al pari del Waste Land di Eliot e della Recherche proustiana, l’opera di Joyce
segna la definitiva consumazione dell’esperienza simbolista e decadente, quindi anche di quella romantica
e post-romantica, a loro volta sfociate nel decadentismo (Wilde).

Il romanticismo, così come, appunto, il simbolismo e il decadentismo, avevano messo in crisi la forma
letteraria che nei due secoli precedenti aveva dominato e caratterizzato la tradizione inglese: vale adire,
ovviamente, il novel, caratterizzato da un’istanza fondamentalmente realistica sia sul piano figurativo-
descrittivo che su quello caratterizzante dei personaggi.

Secondo Eliot, lo Ulysses joyciano aveva avuto il merito di mettere un punto al genere del romanzo
tradizionale, finito con Henri James in Gran Bretagna e Gustave Flaubert in Francia. Sempre secondo Eliot,
l’invenzione da parte di Joyce del metodo MITICO, che va a sostituire al realismo narrativo dei costanti
parallelismi con un poema mitico (l’Odissea, nel caso di Ulysses), aveva avuto l’importanza di una scoperta
scientifica. METODO MITICO: utilizzare la struttura, lo scheletro di un’opera mitologica (come appunto
l’Odissea), per costruire il romanzo moderno. Uylisses segue infatti la struttura dell’Odissea, e i vari episodi
portano infatti il nome di quelli in cui è divisa l’opera greca. Ma il parallelismo tra gli episodi mitologici e
quelli vissuti da uomini dell’era moderna serve proprio a mettere in risalto il carattere anti-eroico della vita
moderna e delle sue vicende quotidiane. Il mito viene dunque proiettato nell’era moderna, ed i suoi aspetti
eroici si degradano e divengono grotteschi.

Bisogna però aggiungere alcune fondamentali osservazioni a quanto argutamente sostenuto da Eliot: non si
può considerare Ulysses un NON-ROMANZO, quanto, piuttosto, un recupero e una sofisticata
rielaborazione di tutta la stagione della tradizione del novel inglese. Partiamo dalla definizione che del
novel diede Henry Fielding (Joseph Andrews), e cioè quella di un POEMA EROICOMICO in prosa, inteso cioè
a dare una rappresentazione minuziosamente realistica della vita contemporanea sul modello, però,
dell’epica classica, in modo da ironizzare allo stesso tempo sia l’antieroismo dell’esperienza quotidiana che
la magniloquenza dell’atteggiamento dell’epica.

Vediamo dunque che già in Fielding c’erano alcuni dei tratti che verranno poi sviluppati ampiamente da
Joyce. Ma Joyce recupera anche caratteristiche di altri maestri del novel: lo psicologismo e la narrazione
soggettiva di Richardson vengono trasfigurati nel monologo interiore; le caratteristiche così peculiari dello
Sterne del Tristam Shandy, in cui gli assi categoriali dello spazio e del tempo vengono dilatati e ristretti a
proprio piacimento, e dove il rapporto ludico con la scrittura diviene vero e proprio metodo: una pagina

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lasciata bianca qua e là, una nera, un’altra striata o occupata da asterischi; e poi digressioni infinite,
amplificazioni di eventi insignificanti, ingannevoli appelli al lettore, l’uso di meccanismi associativi e
linguistici che anticipano lo stream of consciousness; l’attenzione che potremmo definire maniacal,
morbosa, di Swift per il corpo, le sue funzioni fisiologiche e i suoi processi di disfacimento.

È dalla sapiente ripresa di tutti questi elementi che Joyce riesce – rielaborandoli e facendoli contessere ed
intrecciare – a giungere ad un metodo narrativo che risolve l’antinomia tra realismo e simbolismo che stava
minando le basi stesse del romanza alla fine dell’Ottocento. La dimensione eroicomica riesce a contenere la
forma espressiva in un ambito inclusivamente umano senza giungere alle tendenze metafisiche insite nel
romanzo simbolista.

Nel 1918, quando cioè era quasi al termine della composizione dell’opera – che impegnò 7 anni della sua
vita – Joyce stesso fornì due definizioni dell’opera: “Odissea moderna”, facendo riferimento ovviamente al
parallelismo con la struttura dell’Odissea , la seconda, “EPICA DEL CORPO UMANO”, è particolarmente
degna di nota: l’opera si pone infatti come una summa di tutte le esperienze fisiche dell’uomo in
contrapposizione alle esperienze metafisiche. Come un contrapporre una Summa Antropologica alla
Summa teologica di san Tommaso d’Aquino.

Le peregrinazioni di Ulisse per terre e mari lontani divengono il vagabondare di Leopold Bloom e Stephen
Dedalus per le strade e i bar di Dublino nel corso di un’unica giornata, il 6 giugno, dalle 8.00 del mattino alle
ore piccole della notte. Sia Leopold che Stephen sono proiezioni di Joyce stesso, ma non si può parlare
propriamente di autobiografismo, quanto di quell’impulso autobiografico governato da un totale
raggiungimento del principio di impersonalità di cui parlava Stephen del Portrait. Joyce prende a
protagonisti del suo romanzo due personaggi che gli somigliano semplicemente perché sono gli ESEMPLARI
UMANI che meglio conosce.

Ulysses è dunque epica del corpo umano, nel senso che, per quanto popolato da una folla di dublinesi, la
summa che si ricava è quella di un’unica figura. L’opera vuole rivelare – attraverso l’insieme dei personaggi
– la figura umana nella sua interezza, nella sua autenticità, nella sua complessità.

Al di là dei numerosi personaggi secondari, si individuano 3 protagonisti:

BLOOM è l’uomo medio sensuale, positivo e inefficiente, curioso di avere nuove esperienze, ma timido e
cauto, alla ricerca di certezze e di rapporti umani autentici che non riesce, però, a trovare. Bloom, a
differenza di Stephen, che nasce cattolico e si distacca con fatica e sofferenza dalla religione – e resta per
tutta la vita, come si dirà di Joyce stesso, “impregnato” di cattolicesimo – nasce laico (è ebreo ma non
credente e non praticante), per cui potremmo dire che mentre Stephen cerca e guadagna la sua condizione
di esule, Bloom nasce già esule errante.

STEPHEN: a differenza dello S. del Dedalus, qui il personaggio è già sconfitto. È Stephen già rientrato a
Dublino da Parigi, per cui egli stesso vittima di quella incapacità di agire e realizzare le proprie aspirazioni
che era stato il motivo dominante dei Dubliners.

Entrambi vivono dunque una condizione di ricerca, che è quella del “senso”, contenuto soprattutto nella
sincerità del rapporto umano. Dal punto di vista narrativo – e secondo il parallelismo mitologico – questa
ricerca diviene speculare poiché Bloom-Ulisse è alla ricerca del figlio (ed infatti Bloom ha perduto l’unico
suo figlio naturale, morto in tenere età, per cui cerca in maniera struggente, la figura di un figlio); Stephen,

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che ha smesso di credere in suo padre (nel Portrait sentì forte l’estraniamento dalla figura paterna nel
viaggio a Cork), cerca un padre acquisito che risponda alla sua idea di padre.

MOLLY BLOOM: la moglie sensuale ed infedele, riassume in sé le caratteristiche di tutte le figure mitiche
dell’Ulisse e dunque dei loro significati (Penelope, ovviamente, ma anche Calipso, Nausicaa, Circe etc…).
Molly è l’essenza stessa della femminilità, espressione della fisicità più assoluta, e dell’accettazione
quotidiana assoluta – MA NON PASSIVA – della condizione umana. Tale è il senso di quei “YES” pronunciati
alla fine del libro, nel lungo stream of consciousness in cui il suo dormiveglia è popolato da immagini
sensuali. Potremmo dire dunque che MOLLY BLOOM, l’elemento femminile, sia anche l’elemento risolutivo,
la risposta, della ricerca di Leopold Bloom e Stephen Dedalus.

Una serie di motivi ricorrenti intessono le reti – poiché di trama non possiamo parlare – che reggono la
vasta opera. Si tratta del corrispondente narrativo della tecnica musicale wagneriana dei motivi conduttori
ricorrenti.

I temi che ricorrono sono, per Stephen: il pentimento di non aver pregato….; l’identificazione con Amleto;
l’esilio come liberazione; per BLOOM: infedeltà della moglie, morte di suo padre suicida e di suo filgio
bambino, il richiamo sensuale dell’Oriente, da cui ha origine la sua razza ebrea;

I motivi ricorrenti comuni a tutti sono: morte per annegamento; MUTABILITà di tutte le cose, senso della
storia come incubo e distruzione.

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