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Immanuel Kant

Immanuel Kant (1724, Königsberg, Prussia orientale-1804) è uno dei massimi esponenti del
pensiero occidentale, a cui ha dato un grande contributo segnando una vera e propria svolta
nel panorama filosofico moderno.
Si potrebbe fare un parallelismo tra Kant e Copernico: infatti allo stesso modo in cui
quest’ultimo ha “ribaltato” i rapporti tra Terra e Sole, Kant capovolge i rapporti tra soggetto e
oggetto nell’ambito del processo conoscitivo, assegnando al soggetto un ruolo fondamentale
nell’elaborazione dell’esperienza.

Nelle sue opere il filosofo esamina le condizioni necessarie per rendere possibile la
conoscenza, l’ agire e l’esperienza estetica.
Nelle analisi di Kant emergono due aspetti fondamentali, quali il rigore e la serietà, e ciò
parte dall’idea radicata in lui secondo cui per praticare la ricerca filosofica non si deve dare
nulla per scontato, bensì dubitare e sottoporre ogni cosa al vaglio (esame accurato che
precede una valutazione) critico della ragione, a cominciare dalle facoltà del ragionamento.

L’opera fondamentale di Kant è la Critica della ragion pura; a essa seguono la Critica della
ragion pratica e la Critica del giudizio.
Già dai titoli scelti si evince il motivo per il quale gli studiosi sono soliti distinguere la fase
matura del suo pensiero, denominata “criticismo” (caratterizzata dalla realizzazione delle
opere citate precedentemente), e una fase precedente chiamata “precritica”.
IN questo primo periodo Kant si interessa ai testi dei razionalisti e degli empiristi, studiando
la metafisica razionalista di Leibniz e la fisica di Newton, da cui resta particolarmente
affascinato, arrivando a prenderla come modello di tutte le scienze naturali.
Analizzando a fondo i principi delle due correnti più importanti della filosofia moderna, il
razionalismo e l’empirismo, Kant comincia a dubitare della validità della metafisica, e
addirittura dichiara di essere stato svegliato da un «sonno dogmatico» (ossia
dall’accettazione acritica della metafisica) grazie alla lettura di Hume. Scrive dunque Sogni
di un visionario chiariti con i sogni della metafisica in cui giudica quest’ultima illusoria tanto
quanto i sogni di un visionario in quanto reputa che essa non potendo fondare i principali
oggetti di studio come Dio sull’esperienza giunge a conclusioni stravaganti.

Nel 1781 Kant pubblica la prima edizione della Critica della ragion pura, che nonostante
venga definito da molti, come ad esempio Schopenhauer, «il libro più importante che sia
stato mai scritto in Europa», tuttavia non viene accolto con favore dal pubblico, anche a
causa della difficoltà del linguaggio, che in alcuni punti risulta oscuro e complesso. A questa
prima edizione ne segue una seconda, ampiamente modificata, e successivamente altre
opere, tra cui Critica della ragion pratica (1788) e Critica del giudizio (1790). Del 1793 è poi
La religione nei limiti della semplice ragione, uno scritto che mette in discussione la
politica religiosa del governo prussiano, il quale usa il cristianesimo come arma che
conferisca autorità. A questo scritto il governo non reagisce bene e Federico Guglielmo II
intima a Kant di non scrivere più di tematiche religiose. Il filosofo nonostante sia in
disaccordo con le accuse che gli vengono rivolte si piega all’ordinanza e si impegna a non
trattare più tali argomenti finché il re è in vita.
Dopo qualche anno scrive Per la pace perpetua, un breve saggio in cui sostiene che la
politica deve essere guidata dall’etica e argomenta a favore dell’obbligo morale della pace
tra gli Stati.
Alla morte del vecchio sovrano e con l’avvento di Federico Guglielmo III il filosofo pubblica
La metafisica dei costumi, con la quale torna a scrivere contro il dispotismo e a favore della
libertà di pensiero.

Per quanto riguarda il pensiero di Kant è difficile elaborarne un resoconto sintetico, ma è


possibile affermare che il suo interesse primario sia il problema della metafisica, cioè quale
valore assegnare all’indagine su Dio, sull’anima e sull’ordine del mondo, temi che da sempre
hanno impegnato i pensatori e in particolari i filosofi razionalisti.
Cartesio non soltanto aveva ammesso la possibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza
di Dio, ma aveva anche parlato della teoria delle idee innate, di cui tutti disponiamo ,
immesse direttamente da Dio nella nostra mente; nella stessa prospettiva si erano posti gli
altri razionalisti, che deducevano tutta la conoscenza da quelle verità fondamentali.

La dimostrazione dell’esistenza di Dio secondo Cartesio


Cartesio fornisce tre prove
1) La prima prova parte dall’idea di perfezione:
Cartesio dubita e si rende conto che dubitare non è perfezione. Se fossi perfetto, infatti, non
dubiterei. Tuttavia, per poter dire che sono imperfetto dovrei avere nella mente l’idea della
perfezione, e ciò risulta impossibile in quanto non posso aver preso questa idea da me
stesso, essendo imperfetto. Non potendo aver preso questa idea nemmeno dall’esterno,
dato che non ho la certezza delle cose di cui faccio esperienza diretta, questa idea di
perfezione deve necessariamente venire da un essere che lo è a sua volta, Dio.

2) La seconda prova parte dalla constatazione dell’ imperfezione dell’essere umano:


Cartesio afferma di essere imperfetto in quanto dubita, e ciò implica che non possa essere
stato creato da un altro essere umano, perché altrimenti gli sarebbero state date tutte quelle
“perfezioni” che sa di non avere. Se, dunque, non è in possesso di queste “perfezioni”
significa che a crearlo non può essere stato in alcun modo un altro essere umano
(imperfetto a sua volta), bensì un essere al di sopra, come Dio.

3) La terza prova parte dall’idea di Dio come essere perfetto:


Cartesio afferma che dal momento in cui ci troviamo davanti a un essere che è l’oggetto
dell’idea di perfezione, la sua esistenza è necessariamente compresa. Se egli è l’essere
perfetto, il che significa che non manca di nulla, deve esistere, perché se non esistesse gli
mancherebbe qualcosa, cioè l’esistenza e dunque non sarebbe perfetto. Per questo
principio Cartesio afferma l’esistenza di Dio.

4) La quarta prova che Cartesio presenta non è una prova:


Egli constata che nella nostra mente esistono delle verità innate, le quali non possono
provenire dai sensi in quanto ingannano, dunque possono provenire solo da Dio. Dunque
Dio esiste (e dobbiamo fidarci di queste verità perché Dio e buono e non ci inganna)

——
Guardando alla storia della filosofia, Kant matura la convinzione che la metafisica è stata sì
una costante ambizione del pensiero umano, ma nulla di più: i tentativi dei razionalisti di
dimostrare che esiste un Dio intelligente e buono, che l’anima è una sostanza immortale e
che il mondo tende a uno scopo sono, a suo avviso, falliti. Su questi tre problemi
fondamentali la metafisica non è riuscita a elaborare altro che ipotesi fantasiose.

La critica alla metafisica razionalista per Kant non implica un'adesione all’empirismo, anzi il
filosofo evidenzia molteplici volte i limiti di questa corrente di pensiero. Se il razionalismo
metafisico approda a esiti dogmatici in quanto pretende di dedurre tutto l’edificio del sapere
attraverso la ragione, senza servirsi dell’esperienza, l’empirismo arriva a conclusioni
scettiche in quanto, limitando il campo della conoscenza all’esperienza, che è sempre
particolare e contingente (tutto ciò che è accidentale, che può non essere, opposto al
necessario), nega la possibilità di un sapere universale e necessario.
È da qui che sorge il dubbio su cosa fare in questo caso, su quale direzione seguire. Il
filosofo a queste domande risponde dopo un’attenta analisi avvenuta grazie a Hume, e lo fa
affermando che, se è vero che la conoscenza umana non può trascendere l’esperienza,
come dicevano gli empiristi e Hume in particolare, tuttavia è proprio a partire dal
riconoscimento di tale limite che è possibile fondare la validità della scienza.
in Kant la concezione empirista non porta ad atti scettici, ma costituisce il presupposto per
individuare un ambito in cui è possibile realizzare una conoscenza universale e necessaria.
L’analisi riguardo le condizioni per ottenere tale sapere è l’obiettivo della prima critica
kantiana. In ciò consiste il fulcro del progetto criticista: indagare le capacità e i limiti della
ragione umana, e acquisire la consapevolezza dell’estensione e dei confini del suo orizzonte
conoscitivo, in modo da evitare di inseguire pericolosi sogni metafisici.

La Critica della ragion pura: la teoria della


conoscenza
Nella Critica della ragion pura Kant sottopone a indagine rigorosa le facoltà conoscitive
dell’essere umano, arrivando a definirne il funzionamento e il campo legittimo di
applicazione.

La riflessione di Kant parte dalla constatazione che la metafisica, a differenza della scienza,
non riesce a trovare soluzioni condivise, come nel caso dei razionalisti e degli empiristi, dato
che i pensatori si contrappongono l’uno all’altro. Ciò accade, a suo avviso, perché la filosofia
non ha a disposizione un criterio per distinguere senza alcun dubbio il vero dal falso, a
differenza della scienza che si può dire essere universale.
L’esigenza primaria del filosofo è dunque di trovare un nuovo fondamento della metafisica, in
modo da raggiungere l’oggettività che le manca. Allo stesso tempo, per evitare lo scetticismo
della dottrina empirista, egli sente il bisogno di effettuare un’indagine critica riesaminando le
strutture della scienza fisico-matematica, pur essendo fermamente convinto della sua
validità.
Kant, introducendo la prima delle sue Critiche, immagina di rivolgere la questione a un
tribunale, detto tribunale della ragione, che dopo un processo avrà il compito di risolvere la
controversia tra razionalismo e scetticismo, e chiarire possibilità e limiti della conoscenza
umana. La ragione dovrà indagare due aspetti:
1) Le fonti da cui la ragione medesima può derivare le sue nozioni;
2) l’estensione e i confini del suo raggio d’azione.

La critica della ragione è quindi come un'autocritica, in cui la ragione e1 giudice e imputata al
tempo stesso.
All’origine del progetto kantiano possiamo quindi individuare alcune domande fondamentali:
in primo luogo “come è possibile la scienza?”, cioè quali sono le sue condizioni di
possibilità, dato che non occorre mettere in discussione la sua validità; in secondo luogo “è
possibile una metafisica come scienza?”; nel caso della metafisica, infatti, il problema è
proprio se essa possa avere una validità a livello scientifico.

Kant procede ad analizzare i fondamenti e i principi della matematica e della fisica, ossia del
sapere scientifico certo e sicuro, partendo dai suoi elementi di base: i giudizi.
Le proposizioni della scienza sono dette “giudizi” perché costituite da un soggetto e un
predicato. Più in generale, sostiene Kant, tutta la conoscenza si basa sull’attribuzione di un
predicato a un soggetto: es. “il prato è verde”. Pensare è giudicare.
Kant afferma che esistono due tipi di giudizi:
1) I giudizi analitici, detti a priori, sono quelli in cui il predicato è già contenuto nel
soggetto: es. “tutti i corpi sono estesi”, in cui L'estensione è già parte integrante del
concetto di corporeità. Vengono definiti giudizi a priori in quanto il loro contenuto non
deriva dall’esperienza.
2) I giudizi sintetici, detti a posteriori, sono invece quelli in cui il predicato dà
un’informazione nuova: es. “i corpi sono pesanti”; in questo caso, l’attributo della
pesantezza non è contenuto nel soggetto ma deve essere dimostrato.
Kant si dimostra insoddisfatto di entrambi i giudizi, in quanto quelli a priori, tipici del pensiero
razionalista, pretendono di dedurre tutto il sapere dalle idee innate, mentre quelli a
posteriori, tipici dell’empirismo, si fondavano unicamente dall’esperienza.

Kant osserva inoltre che esiste un terzo tipo di giudizi, che egli definisce sintetici a priori.
Si tratta dei giudizi di cui si serve la scienza newtoniana, in cui il rigore matematico
(necessità e universalità) si coniuga con l’incremento della conoscenza tramite l’esperienza.
L’attenzione di Kant si concentra proprio su quest’ultima tipologia di giudizi, che sono alla
base della conoscenza scientifica, la quale si può definire valida e proficua proprio perché
utilizza giudizi sintetici a priori.

La domanda da cui era partita l’indagine kantiana su come sia possibile la scienza viene
riformulata nel modo seguente: “come sono possibili i giudizi sintetici a priori?”.
La tesi del filosofo è che i giudizi sintetici a priori basano la loro validità non dall’oggetto —
che come sappiamo è sempre contingente e parziale —, ma dal soggetto. Secondo Kant,
infatti, nella scienza possiamo distinguere due aspetti, quello materiale e quello formale: il
primo è costituito dalle impressioni sensibili che derivano dall’esperienza (gli elementi a
posteriori), il secondo dalle forme (a priori) con cui la mente umana ordina tali impressioni.
Sono proprio le forme a priori che garantiscono la validità della scienza: esse rappresentano
la modalità universale con cui tutti gli individui conoscono la realtà.
La visione kantiana della conoscenza implica il ribaltamento dei rapporti tra soggetto e
oggetto: se fino a quel momento si riteneva che dovesse essere la mente ad adeguarsi alla
realtà circostante, per Kant è la realtà, nell’atto conoscitivo, a doversi adeguare alle facoltà
umane attraverso cui è percepita.
Il filosofo si può dire abbia compiuto nella filosofia una rivoluzione simile a quella operata da
Copernico nell’ambito dell’astronomia. Kant dunque nella conoscenza ha spostato
l’attenzione sul soggetto, riconoscendo il suo ruolo attivo, non soltanto ricettivo, nei confronti
dell’oggetto.

la rivoluzione copernicana operata da Kant comporta che la filosofia non debba più
occuparsi degli oggetti in sé stessi (ricercandone la presunta “essenza”), ma debba spostare
l’attenzione sugli elementi soggettivi a priori che rendono possibile la conoscenza di questi
oggetti.
È appunto in questo senso che Kant definisce la sua indagine filosofica «trascendentale»,
un termine che avrà grande importanza.

Kant adopera questo termine per definire un tipo di conoscenza che si occupi non tanto di
oggetti, quanto del nostro modo di conoscerli. È per questo che le sezioni della Critica della
ragion pura che studiano le forme a priori delle diverse facoltà vengono denominate
«trascendentali»: Estetica trascendentale e Logica trascendentale.

In tale prospettiva, tutta la Critica ha una funzione trascendentale, ossia è una teoria della
possibilità a priori della conoscenza. Il trascendentale non indica una dimensione ontologica
(riguardante la natura e la conoscenza dell’essere come oggetto in sé), una realtà che
sussiste oltre l’esperienza, bensì l’ambito dei presupposti gnoseologici (la dottrina o teoria
della conoscenza umana, con riferimento alla ricerca dei suoi fondamenti) che rendono
possibili il nostro sapere.

La Critica della ragion pura di Kant, come le altre opere maggiori, presenta una struttura
articolata e complessa. Essa è un trattato sistematico che risponde a un’esigenza
metodologica fondamentale: secondo Kant, la sistematicità è un requisito indispensabile per
ogni conoscenza scientifica.
L’opera è divisa in: Dottrina degli elementi, che scompone la ragione nelle sue parti
fondamentali, gli elementi “puri” o “a priori” del conoscere; Dottrina del metodo, che si
riferisce al metodo di applicazione di tali elementi formali. Essa si divide a sua volta in
Estetica trascendentale e Logica trascendentale. La prima analizza la conoscenza sensibile
e le sue forme a priori; la seconda, invece, studia il pensiero e le sue regole.

L’Estetica trascendentale
Nell’Estetica trascendentale, una delle due parti in cui si articola la Dottrina degli elementi,
Kant esamina le condizioni di possibilità della conoscenza sensibile, individuandone le forme
a priori.

Nell’estetica trascendentale Kant analizza la sensibilità e le sue forme a priori. Secondo il


filosofo ogni conoscenza inizia con l’esperienza, ossia con la percezione degli oggetti esterni
attraverso i sensi. Il termine “estetica”, dunque, è utilizzato nel suo significato originario
(derivato dalla parola greca áisthesis, “sensazione”) , in riferimento non a una teoria del
bello, bensì ai princìpi dell’intuizione sensibile.
Kant afferma che la sensibilità ha una duplice fisionomia: è innanzitutto “passiva”, in quanto
riceve dall’esperienza esterna i dati, ma è anche “attiva”, in quanto organizza il materiale che
riceve dall’esterno attraverso lo spazio e il tempo.
Questi ultimi non sono derivabili dall’esperienza, ma sono le condizioni in virtù delle quali si
conoscono gli oggetti, ossia le forme a priori della sensibilità. Infatti, come si potrebbe
immaginare di conoscere un oggetto qualsiasi senza collocarlo nello spazio e nel tempo?

Lo spazio è una rappresentazione necessaria a priori che sta a fondamento di tutte le


intuizioni degli oggetti esterni, ed è pertanto definito «la forma del senso esterno»; è grazie a
tale rappresentazione che le cose risultano collocate le une accanto alle altre.
Kant inoltre afferma che, secondo la sua ottica trascendentale, lo spazio è un’intuizione
pura, ossia innata in noi, a priori. In breve, abbiamo in noi l’intuizione pura dello spazio e tale
caratteristica nella mente umana rende possibile la conoscenza sensibile degli oggetti
esterni. La geometria è dunque definita dal filosofo come scienza sintetica a priori.

Per quanto riguarda il tempo l’argomentazione è più articolata, dato che per la filosofia è
una questione di primaria importanza. Mentre lo spazio è la forma del senso esterno, perché
serve a farci conoscere gli oggetti fuori di noi, il tempo è la «la forma del senso interno»,
ossia la rappresentazione innata in noi, a priori, che costituisce il fondamento dei nostri stati
interiori, grazie alla quale noi li percepiamo sempre uno dopo l’altro, in una successione
regolare di passato, presente e futuro.
Se l’intuizione pura dello spazio è alla base della geometria, l’intuizione pura del tempo è
alla base dell’aritmetica, perché soltanto partendo dal concetto di “successione” (che
appunto dipende dall’intuizione del tempo) è possibile comprendere le proprietà della serie
numerica, e di conseguenza del numero.

L’Analitica trascendentale
Nell’Analitica trascendentale — che rientra nella Logica trascendentale, ossia nella seconda
articolazione della Dottrina degli elementi — Kant esamina il modo in cui l’intelletto unifica i
dati dell’esperienza elaborando i giudizi.

La sensibilità offre molte percezioni (visive, acustiche, olfattive ecc.), collegate grazie alle
due forme a priori dello spazio e del tempo, e costituisce il primo, necessario livello della
conoscenza. Tuttavia, per ottenere una conoscenza autentica dobbiamo affidarci al
pensiero, che si articola in intelletto e ragione. È grazie all’attività “sintetica” dell’intelletto
che gli oggetti da noi intuiti grazie alla sensibilità vengono unificati sotto «rappresentazioni
comuni», cioè i concetti. soltanto in questo modo arriviamo a una conoscenza universale e
necessaria, che supera quella disordinata della sensazione.

per Kant dunque sensibilità e intelletto sono entrambi indispensabili e indissociabili, dato che
senza l’intelletto c’è un fascio disordinato di sensazioni, mentre senza la sensibilità il
pensiero non ha dati da unificare, e quindi risulta “vuoto”.
L'attività del pensiero è l’attività unificatrice dell’esperienza che si spiega attraverso i concetti
e secondo modalità comuni a tutti gli esseri umani, essa coincide con la facoltà di giudicare,
cioè di collegare un concetto (un predicato) a un soggetto.

Per Kant i concetti sono di due tipi: quelli empirici, che derivano dall’esperienza, e quelli
puri, cioè i contenuti a priori dell’intelletto.
È su questi ultimi che il filosofo concentra la sua attenzione, in quanto leggi attraverso cui la
mente unifica il materiale offerto dalla conoscenza sensibile.
Poiché i concetti puri costituiscono i modi universali del pensare, Kant li definisce anche
«categorie». Con Aristotele le categorie indicavano i modi universali dell’essere; ora Kant le
usa per rappresentare i modi possibili di costruzione dei giudizi.
Se pensare equivale a giudicare, afferma il filosofo, ci saranno tante categorie quanti sono i
tipi di giudizio.

La tavola delle categorie kantiane risulta così composta di dodici concetti puri, raggruppati in
quattro classi:
1) quantità
2) qualità
3) relazione
4) modalità

Nella tavola si possono rinvenire tutte le forme di giudizi possibili, in quanto offre tutto il
possibile repertorio dei concetti puri di cui si serve l’intelletto nella sua attività conoscitiva.
Chiarite le funzioni della sensibilità dell’intelletto con le loro rispettive forme a priori, Kant si
pone il quesito gnoseologico fondamentale: che cosa giustifica l’applicazione nelle categorie
ai dati dell’esperienza? Che cosa garantisce che la natura possa venire ordinata secondo
questi parametri soggettivi?
Kant chiama questo problema «deduzione trascendentale delle categorie», dove il
termine “deduzione” è impiegato per indicare la volontà di chiarire se sia legittima la pretesa
dei concetti di riferirsi agli oggetti.non è in dubbio che le categorie vengano usate nella
conoscenza scientifica, ma non è detto che questo uso sia valido, cioè che la ragione abbia
il diritto di applicare tali forme a priori alla natura.

L’argomentazione kantiana parte dall’osservazione che tutta l’attività in cui consiste la


conoscenza ha il suo fondamento nell’io penso. Si tratta di un concetto importantissimo
nella filosofia kantiana, grazie al quale possiamo ricondurre a unità e attribuire a un soggetto
l’intero processo conoscitivo.
L’io penso non è inteso nel senso di coscienza individuale, ma come struttura mentale
universale; senza di esso non potrei definire “mie“ le varie rappresentazioni e pertanto non
esisterebbe alcuna esperienza.

Kant ora risolve il problema della deduzione trascendentale facendo dell’io penso il
fondamento della conoscenza, giustificando le categorie che, pur essendo forme soggettive
del pensiero e di natura del tutto dissimile dalle cose, risultano legittimamente applicate agli
oggetti, in quanto è soltanto per loro che gli oggetti sono elementi dell’esperienza
conoscitiva. Senza l’attività dell’io penso e le categorie di cui si serve non ci sarebbe il
mondo dell’esperienza umana, dal momento che l’unico mondo possibile per l’essere umano
è quello pensato e categorizzato attraverso gli strumenti intellettivi di cui dispone.
In questo modo è garantita anche l’oggettività del sapere, in quanto la realtà è modellata
sulla base dei principi universali e necessari dell’intelletto.

Con questa dottrina il filosofo porta a compimento il progetto della modernità, che ha in sé le
premesse per quella svolta in base alla quale l’io riveste una funzione fondamentale nella
costituzione della realtà.

La distinzione tra fenomeno e noùmeno


Analizzando l’io penso abbiamo visto come esso svolga una funzione legislazione nei
confronti della realtà, ora è necessario comprendere che la realtà realtà a cui canta allude è
unicamente quella fenomenica.

Il termine fenomeno, secondo l’etimologia greca della parola, significa “ciò che appare”, e
fenomeni, per Kant, sono tutti gli oggetti della realtà, che si danno all’essere umano
attraverso le forme a priori della sensibilità e dell’intelletto.
il fenomeno costituisce l’oggetto nel suo rapporto con il soggetto, ovvero ciò che appare al
soggetto grazie alle sue facoltà conoscitive.

La dimensione delle cose in sé, dell’essenze, di ciò che si estende al di là del fenomeno e
della realtà che è data al soggetto e alle sue facoltà (sensibilità e intelletto), è “pensabile” ma
non “conoscibile”: essa è denominata noùmeno, un termine di derivazione greca che
significa appunto “la realtà pensabile“.
Perché, allora, se la cosa in sé non è conoscibile, bisogna ammetterla? Canta questo
risponde affermando che la cosa in sé è una sorta di concetto limite che segna il confine
invalicabile della scienza: è il residuo oggettivo che rivela qualcosa di più grande che
l’individuo può soltanto immaginare, ma non possedere in modo scientifico.
Il tentativo di andare oltre il mondo fenomenico non può che portare a inevitabili paradossi e
contraddizioni. È di tali “errori” che tratta la Dialettica trascendentale, la sezione con cui si
chiude la Critica della ragion pura.

La Dialettica trascendentale
Con la Dialettica trascendentale, che fa parte della Logica trascendentale, Kant passa a
esaminare la funzione della ragione.quest’ultima aspira l’assoluto, ma, dal momento che
supera i limiti imposti dall’esperienza, non può garantire una conoscenza certa.

La conclusione dell’Analitica trascendentale ci ha mostrato come la mente non possa


conoscere nulla al di fuori dell’ambito fenomenico.
La ragione umana, tuttavia, non si accontenta di tale orizzonte finito. Essa è portata a
concepire un vasto e ambizioso disegno, in base al quale tutti i dati del senso interno
vengono unificati sotto l’idea di anima, che sta a indicare la totalità dei fenomeni interiori; tutti
i dati del senso esterno vengono unificati sotto l’idea di mondo, ossia la totalità dei fenomeni
esterni; infine, tutti i dati sia esterni che interni, vengono unificati sotto l’idea di Dio, la totalità
assoluta.
queste tre idee, che costituiscono una parte essenziale della metafisica tradizionale, per
Kant sono illusioni e parvenza di verità.la ragione non può dimostrare né l’immortalità
dell’anima, né l’ordine generale del mondo, né l’esistenza di Dio, perché in tutti questi casi
dovrebbe abbandonare il terreno dell’esperienza.
rispetto a tali idee l’essere umano non può dire né che sono vere né che sono false:
semplicemente non le può conoscere. Naturalmente, sarà sempre tentato di pensare che
l’anima sia immortale o che si sta a Dio, ma “pensare“, secondo Kant, non equivale a
“conoscere“.

La metafisica rappresenta agli occhi di Kant proprio lo sforzo della ragione di andare oltre
l’esperienza. Tale desiderio è del tutto naturale ed è anche inevitabile. L’essere umano
desidera attingere l’infinito, l’assoluto. la metafisica, dunque, non nasce dall’arbitrio dei
filosofi e neppure da un loro inganno, bensì dal perenne bisogno umano di dare un
significato unitario al mondo e a tutta l’esperienza.

Concludendo, l’anima, il mondo e Dio sono gli oggetti “impossibili” della ragione finita.
Tuttavia, è grazie a essi che l’essere umano può aspirare a una sempre maggiore
perfezione in tutti i campi, da quello fisico a quello spirituale. Si tratta di una meravigliosa
illusione, che gratifica la nostra esistenza, ma che dobbiamo rifiutare, perché la filosofia
critica ci impone di rimanere nei limiti del mondo fenomenico e di accontentarci di tale
ristretta esperienza conoscitiva, distinguendola rigorosamente dall’ampio orizzonte del
pensare.

La Critica della ragion pratica: la teoria morale


Intenzionato a valutare scrupolosamente anche le condizioni di possibilità dell'etica, Kant
muove alla scoperta di una legge morale inscritta nell'animo umano.

Dopo aver affrontato il problema della conoscenza, Kant si trova di fronte al problema della
morale.
Per lui, le norme morali non possono essere ricavate da dottrine metafisiche (incentrate ad
esempio sull'idea di anima o di Dio) perché illusorie.
Su quali basi, dunque, fondare la morale? Il filosofo risponde a questo interrogativo nella
Critica della ragion pratica e nella Fondazione della metafisica dei costumi.

Come nell'ambito della conoscenza, Kant si propone di trovare le condizioni a priori


necessarie e universali che rendono possibile la morale.
Una morale che non abbia il carattere della necessità e che non sia valida per tutti gli
individui, infatti, per lui non può essere definita tale.
Ma dove è possibile rinvenire queste condizioni a priori? Non possono certo risiedere nella
sensibilità, la quale, essendo radicata nella particolarità delle inclinazioni individuali, è
incapace di assicurare norme universali.
La soluzione kantiana è che esse risiedono nella ragione: la legge morale è inscritta in noi e
ne abbiamo consapevolezza a priori.
Nella ragione esiste una regola morale che guida le nostre azioni, imponendosi in modo
universale, cioè in modo indipendente dalle circostanze particolari e dai bisogni istintuali.
Tale legge ha la forma del comando, in quanto deve imporre i propri imperativi
contrastando la sensibilità e gli impulsi egoistici che esistono nell'essere umano accanto
alla razionalità.
L'individuo, infatti, per Kant è caratterizzato dalla tensione fra istinto e ragione: se si
riducesse all'uno o all'altro di questi aspetti, verrebbe meno l'esigenza della morale, perché
egli agirebbe sempre per istinto, come gli animali
.
Se nella Critica della ragion pura Kant condannava la presunzione della ragione di poter
andare oltre i limiti dell'esperienza, nella Critica della ragion pratica egli condanna il
fanatismo religioso, che pretende di superare la finitezza che ci connota postulando la
possibilità di raggiungere un'ipotetica condizione di perfezione morale. L'essere umano è
imperfetto e limitato, e la virtù sta proprio nella lotta che egli deve sostenere per
contrastare la sua natura sensibile, il suo essere fenomenico, impegnandosi in un
percorso etico che non potrà completare in questa vita.

Nell'ambito dell'etica, Kant parla di "ragione" distinguendone l'uso "pratico" da quello


"teoretico".
In entrambi i casi il termine indica la facoltà di superare (trascendere) l'ambito dei sensi.
Tuttavia, se nell'uso teoretico il filosofo critica la ragione perché si distacca dall'esperienza
per inseguire le illusioni metafisiche, nell'uso pratico, al contrario, la esalta proprio perché
indipendente rispetto all'esperienza.

La ragione pratica coincide con la volontà, intesa come la facoltà che consente di agire
sulla base di principi normativi, cioè di regole razionali che ne orientano le scelte.
In particolare, Kant riconosce che ci sono due tipi di principi della ragione pratica: le
massime e gli imperativi. Le prime sono soggettive, cioè valide per l'individuo singolo che
le segue (ad esempio posso accettare la massima di moderarmi nel cibo e di non fumare, o
quella di leggere ogni giorno almeno dieci pagine di un libro), mentre i secondi sono
prescrizioni oggettive, che cioè devono valere per tutti.

Gli imperativi, a loro volta, sono distinti in ipotetici e categorici.


L'imperativo ipotetico, come suggerisce il nome stesso, ha la forma del "se …. allora ..."
("se aiuti il prossimo, allora sarai apprezzato") e prescrive un'azione in vista del
raggiungimento di un fine determinato, che non necessariamente è condiviso da tutti:
«Gli imperativi ipotetici presentano la necessità pratica di un'azione possibile quale mezzo
per raggiungere qualche altra cosa che si vuole (oppure che è possibile volere)»
(Fondazione della metafisica dei costumi). Tale imperativo, secondo Kant, mancando
dell'universalità non può essere posto a fondamento della morale.
L'imperativo categorico, invece, è incondizionato, ossia comanda un'azione a prescindere
dal fine o dagli effetti che ne possono conseguire: «L'imperativo categorico è quello che
rappresenta un'azione come necessaria per se stessa, senza relazione con nessun altro
fine, come necessaria oggettivamente» (Fondazione della metafisica dei costumi). Esso
esprime la legge del dovere per il dovere, e sinteticamente si può racchiudere nella formula
"tu devi!".
È su questo che si fonda la moralità, che per Kant, come abbiamo detto, deve essere libera
e autonoma rispetto alle situazioni contingenti, pertanto incondizionata e universale (deve
valere per tutti e sempre).

Per comprendere meglio le prerogative dell'azione morale, consideriamo alcuni esempi.


Secondo la teoria di Kant, se conduco una vita esemplare, ma lo faccio mirando a un
determinato fine (di carattere spirituale o materiale), non adempio veramente al dovere
morale, perché le mie azioni hanno come fine il conseguimento di un obiettivo esterno
(ad esempio l'approvazione sociale). Se per me è naturale soccorrere il ferito che incontro
sulla mia strada, perché la mia indole mi porta a essere compassionevole e generoso verso
gli altri, la mia azione non è un atto morale; allo stesso modo non è configurabile come
azione morale quella della madre che, per un istinto naturale, si prende cura dei propri figli
fino a sacrificare sé stessa: in questi casi si agisce per istinto, non per dovere.

Kant ritiene inoltre che sia sbagliato associare l'etica alla ricerca della felicità, come
facevano Aristotele e i filosofi antichi. La felicità, infatti, dipende da una serie di circostanze
esterne o interiori (le inclinazioni soggettive, le speranze individuali o collettive...): se fosse
assunta come scopo delle proprie azioni, farebbe venir meno i presupposti
dell’incondizionatezza e dell'autonomia tipici dell'agire etico. In altri termini, poiché la felicità
dipende da una molteplicità di fattori empirici, non può rappresentare il motivo universale
dell'agire morale.
La virtù, dunque, consiste nell'obbedire alla legge morale che impone il "tu devi",
indipendentemente da qualsiasi fine o motivazione esteriore. In ciò risiede il fulcro dell'etica
kantiana: sforzarsi di attuare la legge inscritta nella ragione per il semplice rispetto della sua
norma, senza altri condizionamenti.

L'etica kantiana è un'etica del dovere o, come viene denominata nel linguaggio filosofico,
un'etica deontologica (in greco to déon significa "il dovere"). Poiché non ammette che si
compia il dovere in vista di un bene, ma soltanto in vista della legge e per rispetto della
legge, è categorica e incondizionata. Inoltre, è formalistica, perché non prescrive il contenuto
di ciò che dobbiamo fare, ma soltanto la sua forma a priori.
Per questa sua sconcertante "semplicità", la morale kantiana si può prestare a vari
fraintendimenti: come posso determinare quale sia il mio dovere nelle varie situazioni della
vita? Kant risponde a tale obiezione con il cosiddetto principio di universalizzazione.

Partendo dal presupposto che siamo esseri razionali, egli sostiene che il modo per sapere
se l'azione concreta che vogliamo mettere in pratica è moralmente accettabile è quello di
chiederci: «è opportuno che la mia azione sia generalizzata?». Ad esempio, per sapere
se è moralmente giusta una bugia, devo chiedermi: «posso volere che tutte le persone
dicano bugie?»; insomma: «voglio che il mio comportamento sia universalizzabile?».
Naturalmente, essendo io, come gli altri individui, un essere razionale, in tutti i casi citati non
posso rispondere affermativamente, perché altrimenti sceglierei la distruzione
dell'ordinamento su cui si fondano i rapporti reciproci e la stessa società.

Stabilito il criterio della universalizzazione, Kant può enunciare la prima e fondamentale


formula dell'imperativo categorico: «agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo
stesso, puoi volere che divenga una legge universale». Tale formula indica appunto che la
regola che guida un determinato comportamento può valere come principio morale
unicamente se è universalizzabile, se cioè può essere estesa a ogni persona.

La seconda formula asserisce: «agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona
sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»
(Fondazione della metafisica dei costumi). Siamo di fronte a un'affermazione ritenuta
fondamentale ancora oggi, perché sancisce l'appartenenza dell'essere umano al cosiddetto
«regno dei fini», una comunità ideale di persone libere, che rispettano ciascuna la dignità
dell'altra. Nessuno, dice Kant, può mai essere trattato come mezzo per il nostro
egoismo o i nostri desideri; ciò vale non soltanto per il prossimo, ma anche nei confronti di
noi stessi.

La terza e ultima formula prescrive di agire in modo tale che «la volontà, in base alla
massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente
legislatrice» (Fondazione della metafisica dei costumi). Sviluppando un contenuto già
presente nella prima formulazione dell'imperativo categorico, Kant mette in luce come la
volontà, quando agisce in nome della legge morale, non sia soggetta a un imperativo
esterno che la rende schiava: nel momento in cui si conforma all'imperativo etico, essa si
sottomette a un comando che deriva dalla sua stessa natura razionale e, dunque,
obbedisce soltanto a sé stessa. Nel regno dei fini - afferma Kant - la volontà è
«autolegislatrice» e quindi l'essere umano è, insieme, suddito e legislatore: in tale
dimensione egli, rispettando la legge morale e la dignità di sé stesso e degli altri, manifesta
la propria libertà al livello più elevato.

Una delle caratteristiche fondamentali dell'etica kantiana, definita anche "etica


dell'intenzione", è che essa non richiede soltanto una conformità di fatto al dovere, ma
anche la convinzione interiore che è giusto fare ciò che la legge comanda. Se,
nell'uniformarci a una determinata norma etica, manca la convinzione, ricadiamo per Kant
nel campo del diritto, della legalità, non in quello dell'agire morale; per lui, infatti, l'etica è lo
spazio di responsabilità del soggetto.

La moralità eleva al di sopra del sensibile. Non basta dunque che un'azione venga compiuta
nel rispetto della legge, ma è indispensabile che sia supportata dalla cosiddetta «volontà
buona», che coincide con l'adesione consapevole e convinta della volontà alla legge
morale.
Tale volontà è indipendente dalla natura sia fisica sia psicologica dell'essere umano - cioè
dalle passioni, dagli affetti, dai desideri ecc.- ed è fondata unicamente sulla ragione
"depurata" da ogni commistione con la sensibilità.
Si tratta di una concezione morale estremamente severa (e per questo definita dai critici
"rigorismo etico"), che elimina dall'ambito dell'etica ogni riferimento a emozioni o
sentimenti, se si esclude il «sentimento di rispetto della legge» che deve prevalere su tutti
gli altri. Certamente, Kant riconosce che l'individuo non è pura razionalità e possiede una
natura sensibile, bisogni e desideri istintivi che non può sopprimere; anzi, come abbiamo
detto, è proprio per questo che la moralità gli si presenta sotto le vesti dell'imperativo e del
comando. L'agire morale, tuttavia, rappresenta quel "di più" che serve alle persone per
elevarsi al di sopra del sensibile e del naturale.
Il principio kantiano dell'autonomia e dell'incondizionatezza dell'azione morale non deve
dunque spingere l'individuo a negare la propria natura sensibile; la scoperta della legge
morale, tuttavia, implica per lui la consapevolezza di possedere una dimensione di libertà
che non gli è data come ente naturale immerso nel mondo fisico. Si profila una sorta di
ambivalenza dell'essere umano, che da un lato è sottomesso alle leggi di natura ed è
inserito nell'ordine causale che regola il piano fenomenico, e dall'altro, in quanto dotato di
volontà, è in contatto con il mondo noumenico dei fini e della libertà. Una dimensione,
quest'ultima, in cui è dischiuso quel mondo intelligibile che alla ragione speculativa era del
tutto precluso.

In conclusione, possiamo osservare come Kant, anche nel campo dell'etica, operi una sorta
di "rivoluzione copernicana": egli pone in primo piano il soggetto e le sue forme a priori,
individuando nella volontà la fonte autonoma della legge morale.

I postulati della ragione e l’orizzonte noumenico


dell’essere umano
Sebbene la felicità non possa diventare obiettivo dell'azione morale, tuttavia è naturale
pensare che, pur agendo per dovere, si diventi degni di felicità. Per questo Kant postula
l'esistenza di Dio, cioè di un essere che premia i buoni nell'aldilà, e l'immortalità dell'anima.

La legge morale è un "fatto" che la ragione scopre in sé stessa e che, come abbiamo detto,
non ha bisogno né di essere dimostrato né di essere giustificato. La moralità non ha altro
fondamento che la ragione umana. Da questi presupposti derivano importanti conseguenze
per quanto riguarda la concezione di Dio e della religione.
Per Kant, infatti neppure Dio può essere assunto come fondamento dell’etica: anzi, chi
agisse per paura della punizione divina non agirebbe moralmente.
Tuttavia, la morale conduce alla religione. Capovolgendo l'opinione comune, Kant ritiene che
sia la religione a essere fondata sulla morale, in quanto le sue dottrine fondamentali
- quella dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio - non sono altro che postulati della
ragione pratica. Con il termine "postulato", desunto dal linguaggio della matematica, Kant
denomina quelle proposizioni che, pur non essendo dimostrabili, devono essere ammesse
come condizione della stessa esistenza e pensabilità della morale.

L'argomentazione del filosofo prende le mosse dall'analisi del "sommo bene". Quest'ultimo è
un concetto problematico, in quanto implica la realizzazione della virtù e, allo stesso tempo,
della felicità, due dimensioni che nella vita terrena sono, secondo Kant, perlopiù disgiunte.
Chi agisce per dovere, infatti, deve superare con la volontà gli impulsi egoistici e quindi
rinunciare a soddisfare i suoi bisogni e i desideri immediati (cosa che gli darebbe felicità).
Inoltre, nell'esperienza accade di osservare come le persone virtuose non sempre siano
felici in proporzione ai loro meriti.
Nonostante tutto, nell'individuo permane l'insopprimibile esigenza di pensare che colui
che agisce per dovere sia anche degno di felicità.
Per Kant, la soluzione al problema appena esposto risiede nel postulare un Dio che
garantisca una felicità proporzionata alla virtù e un aldilà in cui sia possibile la
realizzazione del sommo bene, che in questo mondo sembra inattuabile.
Se infatti non esistesse tale possibilità, allora l'impegno etico dei buoni sarebbe vanificato e
la morale non avrebbe senso. La morale, dunque, postula come sua esigenza fondamentale
l'esistenza di Dio, il quale, essendo "onnisciente" (non si inganna mai sui meriti delle
persone buone) e "onnipotente" (è perfettamente in grado di far corrispondere la felicità al
grado di vita virtuosa realizzata), saprà assicurare la felicità in proporzione ai meriti.

Analogamente, sostiene il filosofo, si deve postulare anche l'immortalità dell'anima: dal


momento che il sommo bene non può essere realizzato nel tempo limitato di questa
vita terrena, si deve ammettere che l'essere umano disponga di un tempo infinito, dopo la
morte, per progredire verso di esso.

Con la dottrina dei postulati Kant non intende dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio e
dell'anima immortale, ma soltanto riconoscerne la necessità pratica. D'altra parte, egli non
asseconda neppure il fanatismo religioso di coloro che ritengono realizzabile l'ideale della
santità, eludendo i limiti della condizione umana. Infatti, tenendo distinto il sommo bene
(sintesi di virtù e felicità, che si consegue nell'altra vita), che possiamo "sperare" di
raggiungere, dal bene pratico, da realizzare nella vita di tutti i giorni, il filosofo ha inteso
dare concretezza alla propria etica.

Accanto a quelli di Dio e dell'immortalità dell'anima, c'è un terzo, essenziale, postulato della
morale: quello della libertà. Senza presupporre l'esistenza dell'autonomia e della libera
volontà, infatti, l'imperativo morale non avrebbe senso. Se in me è inscritto l'imperativo
categorico del "dovere", è necessario anche che io "possa" realizzare ciò che esso
ordina: "tu devi", dunque "tu puoi". Il postulato della libertà rappresenta la condizione
stessa dell'etica: il fatto che la legge morale sia espressa come un comando indica che
l'individuo è libero di sottomettersi o meno alle sue prescrizioni e di realizzarle.

Se i contenuti dei postulati della morale non hanno valore conoscitivo e rappresentano
soltanto delle ragionevoli "speranze" che l'essere umano alimenta per dare un senso al
suo difficile e rigoroso percorso verso la virtù, tuttavia essi aprono un varco verso il mondo
trans-fenomenico, in quanto comportano che sul piano pratico la ragione ammetta
proposizioni inammissibili dal punto di vista teoretico. È in questo senso che Kant parla
di primato della ragione pratica rispetto alla ragione teoretica.

La dimensione etica e la presenza della legge morale nell'essere umano mostrano come egli
non appartenga unicamente al mondo fenomenico - benché dal punto di vista conoscitivo
quest'ultimo rappresenti un limite invalicabile -, ma anche a quello noumenico presupposto
dalla ragione pratica. E su questa duplicità di aspetti della condizione umana che si incentra
la riflessione condotta dal filosofo nella terza delle sue opere mature, la Critica del giudizio.

La Critica del giudizio: la teoria estetica


Nella terza Critica, Kant sottopone a indagine la facoltà
del sentimento, grazie alla quale formuliamo i giudizi estetici o giudizi di gusto. Essi per Kant
sono universali: il piacere estetico nasce dalla sola contemplazione della "forma" di un
oggetto e non è legato da alcun elemento sensoriale e mutevole.

Nella Critica del giudizio Kant analizza la facoltà del "sentimento", attraverso cui l'essere
umano fa esperienza della finalità insita nel reale e che il filosofo considera intermedia fra
l'intelletto e la ragione. Il termine «giudizio», presente nel titolo, allude proprio a questa
autonoma facoltà, che diventa oggetto di un'indagine critica analoga a quella a cui sono
state sottoposte la ragione pura e la ragione pratica: un'analisi volta a coglierne le strutture
universali e necessarie.
Il «giudizio» di cui si parla qui non è dunque quello esaminato nella Critica della ragion pura.
La prima importante precisazione effettuata da Kant, all'inizio della sua opera, è appunto la
distinzione dei giudizi dell'intelletto da quelli del sentimento: i primi sono giudizi
determinanti, i quali, unificando il molteplice attraverso le categorie dell'intelletto,
"determinano" l'oggetto fenomenico; i secondi sono giudizi riflettenti, che cioè si limitano a
"riflettere" sull'oggetto già costituito, interpretandolo in base al principio della finalità.

I giudizi riflettenti a loro volta possono essere di due tipi: da un lato ci sono i giudizi estetici,
che riguardano il rapporto tra il soggetto e la rappresentazione dell'oggetto e ne valutano
l'accordo; dall'altro i giudizi teleologici, che colgono l'ordine finalistico interno agli oggetti
stessi.

La prima parte della Critica del giudizio è dedicata all'analisi del giudizio estetico. Il termine
"estetico" in questo contesto non si riferisce alla sensibilità - come avveniva nella Critica
della ragion pura -, ma assume il significato più comune di "relativo all'arte e alla bellezza".
L'opera si occupa di due importanti concetti: il bello e il sublime.

Kant osserva che, per stabilire se una cosa è bella oppure no, non ci serviamo della facoltà
teoretica, ma facciamo riferimento al sentimento di piacere o di dispiacere che si manifesta
in un giudizio di gusto, il quale è puramente "contemplativo". I giudizi riflettenti, infatti, si
limitano a riflettere sugli oggetti, a cui il sentimento si rivolge senza altro scopo che quello
di valutare se essi suscitano o meno un particolare gradimento. Certo, un'opera d'arte
può diventare oggetto di un'indagine conoscitiva, ad esempio quando un critico ne analizza
la proporzione delle parti, la regolarità del disegno o la corrispondenza rispetto allo scopo
per cui è stata composta; ma ciò dimostra soltanto che un medesimo oggetto può essere
colto da prospettive differenti (teoretica, morale, estetica ecc.).
Il giudizio estetico, pertanto, è assolutamente disinteressato: non riguarda l'oggetto in sé,
bensì la rappresentazione di esso e il sentimento che suscita.

Per Kant il giudizio di gusto - pur riguardando il sentimento che la rappresentazione della
cosa bella suscita nel soggetto - ha la pretesa dell'universalità: il bello, per lui, è «ciò che
piace universalmente senza concetto». Questo significa che le persone possono
condividerne l'apprezzamento, pur non ricorrendo ad alcun ragionamento, cioè non facendo
riferimento ad alcuna specifica conoscenza: la bellezza, secondo il filosofo, è qualcosa che
ciascuno può intuire in modo immediato, anche se non riesce a spiegarla
"intellettualmente".
Quando affermiamo ad esempio che questo fiore è bello, presupponiamo che su tale
giudizio tutti debbano essere d'accordo, senza però poter offrire una giustificazione
concettuale dell'emozione che proviamo. Kant riconosce che di fronte al bello siamo come
"necessitati" a provare un sentimento di piacere.
Si tratta di una tesi che può sembrare paradossale, per il fatto che il gusto è una facoltà a cui
solitamente si riconosce il massimo della soggettività e della relatività. Questa tesi
rappresenta tuttavia un punto fondamentale della riflessione kantiana.

Kant si rende conto della problematicità della sua posizione, tanto da chiedersi
espressamente: «Come è possibile un giudizio, che dal solo sentimento particolare di
piacere per un oggetto, proclami a priori, senza aver bisogno di attendere il consenso altrui,
che quel piacere inerisce alla rappresentazione dell'oggetto in ogni altro soggetto?». In altre
parole, come è possibile che la Gioconda di Leonardo da Vinci sia giudicata "bella" da tutti?
Da che cosa dipende l'accordo, che riguarda pur sempre un giudizio di gusto?

Per rispondere a tali interrogativi, il filosofo innanzitutto distingue l'ambito del piacere
estetico da quello del piacevole. Quest'ultimo è definito come «ciò che piace ai sensi nella
sensazione» e che dà origine a giudizi estetici "empirici", i quali sono soggettivi e relativi in
quanto dipendono dalle inclinazioni e dai gusti personali. Quando invece parliamo del
piacere estetico alludiamo a un sentimento che deriva dall'immagine e dalla forma
dell'oggetto, e che suscita un piacere disinteressato, sollecitando giudizi estetici "puri". Tali
giudizi hanno la pretesa dell'universalità appunto perché sono privi di condizionamenti.

Per rafforzare la sua tesi Kant introduce un'ulteriore distinzione tra «bellezza libera», cioè
colta senza l'utilizzo di un concetto e senza pensare ad alcuno scopo o perfezione a cui
l'oggetto dovrebbe corrispondere, e «bellezza aderente», la quale comporta invece il
riferimento a un determinato archetipo di perfezione che condiziona la valutazione della
cosa.
In quest'ultimo caso il giudizio non è puro, perché si mescola a considerazioni intellettuali o
pratiche, che possono variare a seconda delle epoche o delle civiltà (ad esempio il
parametro della bellezza dei modelli architettonici o musicali).

Bisogna però ancora offrire una piena giustificazione dei giudizi estetici puri, cioè capire su
quali basi essi possono legittimamente esigere di valere per tutti.

Per Kant la pretesa di universalità dei giudizi di gusto è fondata sulla comune struttura
mentale degli esseri umani, cioè, ancora una volta, sulle condizioni a priori di tali giudizi: in
tutti i soggetti esiste un «senso comune» che permette di cogliere l'accordo sussistente tra
l'immagine della cosa e le nostre esigenze di unità e finalità. È come se, di fronte a un
oggetto bello, si avvertisse che si adatta perfettamente e spontaneamente alla nostra
attitudine unificatrice e sintetica; in altre parole l'oggetto, anche se naturale, sembra "fatto
apposta per noi", predisposto per essere da noi recepito. Dal momento, poi, che il senso
comune è condiviso da tutti, analoghi saranno il modo di sentire l'accordo e il piacere che
ne deriva.

Per questo Kant afferma che la bellezza non risiede negli oggetti ma nel soggetto, il
quale, vivendo il sentimento di armonia in sé, lo proietta inconsapevolmente sugli oggetti,
come se si trattasse di una loro proprietà intrinseca.
Il giudizio estetico, dunque, non deriva né da qualità che l'individuo trova fuori di sé - quasi
fosse una forma inferiore di conoscenza rispetto alla scienza -, né da una convenzione
sociale (oggi diremmo dalla "moda"). Il giudizio estetico è un giudizio di relazione, in cui è il
soggetto che, cogliendo l'accordo con l'oggetto, gli conferisce l'attribuzione della
"bellezza"; in questo senso va letta l'affermazione kantiana secondo cui quest'ultima è un
"favore" che noi facciamo alla natura, in quanto le permettiamo di elevarsi al livello
dell'umanità.

In conclusione, ponendo il fondamento della necessità e dell'universalità dei giudizi di gusto


nelle strutture a priori del soggetto, il filosofo opera anche in campo estetico una sorta di
rivoluzione copernicana, che inverte i rapporti tra soggetto e oggetto. In virtù della teoria
del senso comune - che presuppone in ogni essere umano l'esistenza delle stesse
condizioni soggettive del giudizio - Kant giustifica l'universalità dei giudizi estetici (la
quale, non poggiando sull'oggetto, sarà un'universalità «soggettiva») e la loro
comunicabilità.

Il giudizio estetico, oltre al bello, ha per oggetto il sublime: esso consiste in un sentimento
dell'illimitato che provoca una sorta di «piacevole orrore» di fronte a uno spettacolo
grandioso o sconvolgente della natura, che affascina e inquieta al tempo stesso.

Il sublime può essere di due tipi: 1. matematico; 2. dinamico.


Il sublime matematico ha per oggetto la "grandezza" della natura (ad esempio, l'immensità
del cielo o del mare); il sublime dinamico nasce, invece, di fronte alla "potenza" della
natura (ad esempio, gli spaventosi effetti dei terremoti o delle tempeste).
Per Kant sia il bello sia il sublime piacciono per sé stessi, cioè in modo disinteressato; ma,
mentre il bello riguarda la forma dell'oggetto, che consiste nella sua limitatezza, e
ammette una proporzionalità rispetto al soggetto che lo ammira, il sublime, al contrario,
potendosi trovare in qualcosa di indefinito e privo di forma, provoca la rappresentazione
dell'illimitatezza e, dunque, suscita piacere e terrore al tempo stesso. Il piacere del
sublime, a differenza di quello del bello (che trasmette serenità, in quanto conduce alla
percezione dell'armonia delle forme), si presenta come qualcosa di inquietante e tremendo,
un "piacere negativo", misto di «meraviglia e stima».

Al cospetto degli eventi grandiosi della natura l'individuo prova sentimenti ambiva-lenti: da
un lato avverte tutta la sua finitezza, restando stordito e spaventato (si pensi alle sensazioni
provate dagli uomini primitivi, privi di difese); dall'altro, però, lo stesso sentimento
dell'immensità e dell'incommensurabilità dell'universo fisico riesce a risvegliare in lui la
consapevolezza della sua superiorità spirituale. Da questo consegue che, se in un primo
momento l'essere umano è portato a considerare sublime lo spettacolo esteriore che lo
affascina, in seguito riconosce in sé stesso la grandezza attribuita all'oggetto: il
sentimento del sublime esalta la sua qualità di essere pensante depositario delle idee
della ragione e della legge morale.

In connessione con il tema del gusto estetico Kant analizza la questione della creazione
artistica, che egli distingue nettamente dal "fare" dell'artigiano: mentre la prima è creazione
libera, il fare dell'artigiano, essendo vincolato alla produzione di oggetti che hanno finalità
pratiche, si configura come creazione condizionata e dunque non rientra nella discussione
estetica.

Per quanto riguarda l'opera d'arte, Kant ritiene che non possa ritrovarsi come tale in natura
se non in nuce, quasi come una predisposizione. L'opera d'arte, infatti, richiede la creazione
da parte dell'artista, che Kant identifica con il genio, «il talento tramite il quale la natura dà le
regole all'arte». Infatti, non si avrebbe arte se il talento (dono naturale) del genio non
imponesse all'attività quelle regole di cui ogni creazione artistica deve essere dotata: è
attraverso tali regole che «le stravaganze originali», partorite dalla libera immaginazione del
soggetto, possono divenire, per gli altri, parametri e misure del giudizio.

In altre parole, l'arte è per essenza libertà e dal genio non si può pretendere che renda
conto delle procedure del suo lavoro in modo tecnico o scientifico; tuttavia, la sua creazione
può divenire misura e regola del giudizio estetico degli altri. Infatti, sebbene le opere
del genio non possano essere imitate né riprodotte, tuttavia possono essere "seguite": in
alcuni casi possono stimolare la nascita di altri geni; nella maggior parte dei casi - dato che il
genio è un «privilegio della natura» ed è raro - il suo esempio produce una scuola, ovvero un
insegnamento metodico secondo le regole che si possono trarre dalle opere del genio e
dalla loro originalità.
L'arte, dunque, possiede anche una finalità educativa, in quanto l'essere umano mediante
l'opera coglie e fa propri quelle idee originali e quegli spunti creativi che appartengono
all'artista.

Anche se relativi alla nostra capacità di riflessione ed ai nostri interessi, tuttavia i giudizi
teleologici sono universali, in quanto esigenza insopprimibile di ogni individuo: di fronte
agli organismi, anche quelli più semplici, oppure osservando la crescita di un filo d'erba o il
movimento di un insetto, siamo portati inevitabilmente a supporre in essi la presenza di un
fine o di uno scopo.

Approfondendo la sua indagine, Kant mostra come, a differenza della fisica che è regolata
dalle leggi del meccanicismo, la biologia richiede una prospettiva teleologica. A questo
proposito il filosofo sottolinea la differenza che sussiste tra un orologio e un organismo
vivente. L'orologio è un meccanismo complesso, dato che una rotella ne muove un'altra e
determina così il movimento dell'ingranaggio, ma non ha capacità auto-organizzatrice: una
rotella non può creare un'altra rotella né un orologio può generarne un altro o auto-ripararsi.
Nel mondo degli organismi viventi le cose stanno diversamente: un albero, attraverso i semi,
ne crea un altro della medesima specie e, inoltre, si sviluppa, si conserva, in caso di malattia
si rigenera. Dunque, se le relazioni tra i fenomeni fisici o i sistemi meccanici possono essere
chiarite nei termini di causa-effetto, il mondo biologico non si esaurisce nella spiegazione
meramente causale (meccanicistica). Pur ammettendo che quest'ultima è l'unica
scientificamente valida per quanto riguarda il mondo fisico, Kant la reputa insufficiente
quando si considerano gli organismi viventi, i cui nessi di interazione tra le parti non si
possono spiegare senza ricondurli a un disegno e, dunque, a un'intenzione creatrice che li
ha prodotti in vista del benessere dell'individuo.

Da ciò scaturisce un'importante conseguenza: la teleologia - che deriva da una tendenza


insopprimibile a scorgere cause finali per i fenomeni naturali, al di là di quelle
meccanicistiche - sfocia inevitabilmente in una teologia, in quanto sia i filosofi sia le persone
comuni possono facilmente scoprire «l'unica prova della dipendenza e dell'origine
dell'universo da un essere che è fuori del mondo e intelligente».
Questa conclusione potrebbe apparire incoerente per una filosofia critica come quella
kantiana, se il filosofo non ribadisce con decisione che il giudizio teleologico ha un valore
non costitutivo o scientifico, ma unicamente regolativo. Esso non esprime, dunque, una
conoscenza oggettiva (al pari del giudizio determinante), ma riflette un modo soggettivo e
inevitabile di rappresentare la realtà. Ciò significa che anche la teoria finalistica più
analitica e rigorosa non potrebbe mai dimostrare l'esistenza di un ente intelligente creatore
del mondo, che pertanto rimane soltanto un'esigenza dell'essere umano.

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