CAPITOLO V
GLI ASPETTI DEL CAPITALISMO NEL XX SECOLO
I - IL CAPITALISMO DI GRUPPO ASPIRA AL MONOPOLIO
Trasformazione delle strutture.
I primi 13 anni del XX secolo si possono considerare appartenenti ancora al secolo
XIX per quanto riguarda il sistema di vita, e la concezione filosofica ed economica.
Solo la prima guerra mondiale segna la rottura tra i due secoli, instaurando un nuovo
mondo sociale, politico ed economico; dopo di essa i governi ed i popoli non
potranno più restaurare il primitivo stato di cose.
Il regime capitalista conoscerà una vera crisi di strutture, non di adattamento come
quelle che avevano accompagnato il suo sviluppo. Il capitalismo liberale scomparirà
cedendo il posto al capitalismo di gruppo e di monopolio. Questa sostituzione non è
avvenuta però bruscamente e dappertutto nello stesso periodo. In Francia, dal 21
marzo 1884 anno in cui fu proclamata la legge che dette una veste legale ai sindacati,
si formano e si sviluppano in tutti i settori le unioni e le combinazioni del monopolio.
La classe operaia approfitta della legge per rafforzare ed accrescere le proprie
organizzazioni: nel 1895 viene creata una Confederazione generale del Lavoro, che
cerca di ottenere il monopolio della rappresentanza operaia; ma gli imprenditori
capitalisti nelle industrie-chiavi, si avvalgono della legge Waldeck-Rousseau per dare
uno statuto giuridico alle loro agenzie di vendite e ai loro grandi Comitati (Comitato
Metallurgico e Carbonifero); i grandi agricoltori fanno lo stesso e le loro associazioni
specializzate, come i sindacati d'acquisto e vendita, si costituiscono avvalendosi della
legge del 1884. In Germania e negli Stati Uniti, nel 1890, appaiono rispettivamente
cartelli di produzioni e vendita e trusts che assoggettano l'industria alla finanza.
L'Inghilterra vittoriana, focolaio per eccellenza del liberalismo, si concede, al finire
del secolo, con la guerra contro i Boeri, alle ebbrezze dell'imperialismo; benché la
sua potenza politica ed economica si basi sul libero gioco di grandi mercati di
ridistribuzione della City di Londra, essa incoraggia le formazioni e le combinazioni
del monopolio e di potenti gruppi economici la cui attività non può non produrre il
libero accesso al mercato o la libera formazione dei prezzi.
Il capitalismo liberale era quindi già insidiato molto prima della guerra del 1914-1919
che gli dette il colpo di grazia.
La guerra e il dopoguerra suscitano in ogni parte violente ondate di nazionalismo
spinto, che favoriscono l'affermarsi del protezionismo ed il rinforzarsi dello
statalismo. Il tempo del "laisser-faire" appariva ormai come un'epoca di fiacchezza, di
debilitazione delle risorse nazionali.
Le necessità belliche avevano costretto i governi a requisire l'oro e le valute estere dei
cittadini, a controllare i cambi, a proibire le importazioni voluttuarie, a passare
ordinazioni all'estero per assicurare l'armamento delle truppe e il vettovagliamento
dei civili, in breve a controllare, abbastanza energicamente d'altronde, cambi e
commercio esteri.
Appena finita la guerra, l'inflazione monetaria e la lotta ingaggiata contro di essa,
costringono non solo a mantenere i controlli, ma a studiare nuove forme di
protezionismo: alcune discrete come i regolamenti amministrativi e le proibizioni
veterinarie, altre dure come i contingentamenti.
Col protezionismo le imprese capitaliste si fortificano, formano associazioni,
coalizioni d'interessi che per agire più decisamente sui pubblici poteri in vista di
mantenere i loro vantaggi, cercano di essere sempre più potenti; lo Stato, sollecitato
dalle combinazioni monopolistiche, si occuperà sempre di più dell'economia
generale, darà leggi a decreti, interverrà, prima per aiutare, sovvenzionare e
proteggere le imprese private, e poi per far loro concorrenza e per soppiantarle.
Lo Stato-gendarme dei liberali diviene Stato-provvidenza, poi Stato-padrone. Un
capitalismo di Stato si apre la via a spese del capitalismo di gruppi privati a tendenza
monopolizzatrice.
I gruppi privati sono nati dalla concentrazione e dall'associazione. Nell'industria,
nella banca, nel commercio, perfino nell'edilizia, le grandi imprese hanno eliminato le
piccole, assorbendole o distruggendole; la concentrazione non è limitata all'interno di
una branca d'attività; essa congloba spesso, riunendole sotto di sé, altre imprese che
s'interessano di successivi stadi di fabbricazione, per esempio le foreste che
forniscono legno per il carbone, le miniere di ferro, gli alti-forni, le centrali termiche,
le acciaierie, i laminatoi.
L'associazione è una reazione difensiva del capitalismo: la libera concorrenza, coi
suoi eccessi, condusse alla grande depressione del 1930; per controllarne i
movimenti, in alcuni settori, erano state fondate banche, cartelli, trusts. Ma si trattava
quasi sempre di raggruppamenti provvisori, fatti in vista di una determinata
operazione che attiravano la diffidenza dello Stato. Ormai le combinazioni
monopolistiche hanno carattere permanente; vengono concluse in accordo e spesso
per sollecitazione dello Stato che vede in esse gli strumenti per regolare la
produzione, i prezzi ed i profitti. L'unione, in molti paesi, riceve uno statuto legale; in
Francia, nel 1935, il governo cerca anche di renderla in alcuni casi obbligatoria.
Nel 1929, dopo lo scoppio della crisi mondiale, il problema dell'associazione, entra in
un piano internazionale. I corsi mondiali delle principali materie prime sono
sprofondati verticalmente; bisogna risanare i mercati riportando la produzione al
livello del consumo, in altre parole bisogna ridurla. Le associazioni internazionali dei
produttori (zinco, stagno, caucciù, grano, acciaio ecc.) per mantenere il loro
monopolio, mettono in pratica il malthusianesimo economico; in mancanza di
un'organizzazione soddisfacente per la ripartizione delle materie prime o di una
regolamentazione razionale della produzione, esse provocano la "miseria
nell'abbondanza".
Questa miseria nell'abbondanza discredita il capitalismo dei gruppi privati e la classe
operaia la tollera tanto meno in quanto essa stessa ha costituito delle combinazioni
monopolistiche: le centrali operaie, le federazioni operaie d'industria si presentano
adesso sul mercato del lavoro come se avessero la supremazia dell'offerta. Grazie alla
loro potenza monopolistica, esse hanno imposto il limite di 48 ore della durata del
lavoro, ridotto poi a quaranta ore settimanali; le ferie pagate; la costituzione di
quartieri con alloggi igienici ed aerati, l'alimentazione dei ragazzi nelle scuole, le
assicurazioni sociali. I Sindacati, con l'accrescersi dei loro effettivi e della loro
importanza economica, vogliono continuare a dettare legge e non esitano a preparare
programmi di rinnovamento allo Stato.
Questo sviluppo dei gruppi e delle combinazioni monopolistiche, è sostenuto dal
turbamento dei dati tecnici e geografici. Durante la prima guerra mondiale sono
comparse le industrie chimiche, mentre l'aviazione comporta il crescente uso di
combustibili liquidi; si sono sviluppate l'industria della gomma, dell'alluminio e delle
leghe, dell'automobile, dei fìlms, dei grammofoni e della radio. Per esse occorre la
disponibilità di un'immensa massa di capitali finanziari e tecnici, che un'impresa a
tipo liberale non potrebbe riunire.
Infatti tutte le industrie che hanno alimentato l'attività del capitalismo liberale sono in
declino: l'industria del carbone che in Inghilterra sembrerà colpita a morte dal 1919 al
1939, l'industria tessile (cotone), la costruzione di ferrovie; per finanziare industrie
nuove o rinnovate non si ricorre più all'oro ma alla carta moneta.
Il progresso tecnico sembra procedere di pari passo con i "miracoli del credito". L'età
del carbone, delle ferrovie e del campione-oro è finita: siamo nell'era dell'energia
elettrica ed atomica.
Anche la geografia si è trasformata: l'Europa non è più il centro del mondo. La terra è
stata scoperta completamente ed è ora sfruttata a svantaggio del Vecchio Mondo. I
Paesi nuovi si industrializzano rapidamente. La divisione del lavoro tra paesi
d'oltremare, fornitori delle materie prime, e i paesi europei, fornitori di prodotti
manufatti, divisione tanto vantata dagli economisti liberali, scompare davanti alle
nuove correnti del commercio mondiale (1).
Reazione contro il materialismo meccanicistico.
II liberalismo non è soltanto condannato a morte nei fatti; lo è nello spirito. La crisi
del capitalismo del XX secolo è indubbiamente una crisi tecnica ed economica, ed è
anche, forse in primo luogo, una crisi metafisica.
Il razionalismo meccanicistico del XIX secolo era sbocciato in uno scientismo
volgare. Da Cartesio si è arrivati a Kant, Hegel, Marx, Lenin e Stalin; una serie di
autori di sistemi scientifici, sociali e politici che volgarizzano l'idea dell'onnipotenza
dello spirito umano in tutti i campi, sia in quelli della conoscenza che in quelli
dell'applicazione tecnica.
Orbene, nel XX secolo, invece di ridurlo, i progressi scientifici allargarono il campo
del mistero, dell'inconoscibile, dell'indimostrabile. Mentre i tecnici progredivano a
ritmo vertiginoso e in tanto più sostenuto in quanto il capitalismo di gruppo forniva
per le ricerche, considerevoli mezzi finanziari, la scienza pura dubita di se stessa, dei
suoi mezzi e delle sue possibilità; è la crisi della scienza. Più essa riflette su di sé, più
si pone problemi, più si trova di fronte alle contraddizioni e all'oscurità. Tutte le
nozioni fondamentali cui ricorreva il razionalismo meccanicistico, dimostrano la loro
inconsistenza e la loro vanità. In matematica i lavori del Borel, in fisica quelli del
Planck, di Bohr e di Einstein, in chimica quelli di Raimn, in fisiologia quelli di Ross
G. Harrison e di Alexis Carrel, in psicologia quelli di Freud e di Carl G. Jung, in
dietetica quelli di Casimiro Punk, fanno scartare le formule precedenti sui rapporti di
legalità e causalità, sulla determinazione e l'omogeneità degli atomi, sulla continuità,
sull'energia; lo spazio e il tempo acquistano un nuovo significato; il caso e il gioco,
l'incerto ed i grandi numeri, l'incosciente ed il movente sono ormai l'oggetto
principale della ricerca scientifica.
Questa crisi della conoscenza, riconduce alla metafisica. In filosofia, la reazione
antirazionalista è decisiva. A Cartesio vengono opposti Pascal e Kierkegaard che
hanno espresso l'angoscia tragica, la disperazione dell'uomo condannato dalla
macchina ad essere solo uno strumento, e che hanno posto ogni speranza di salvezza
in una fede superiore.
Nel 1917, Oswald Spengler annunciava il declino dell'Occidente (Untergang des
Abenddlandes) e la fondazione di imperi extranazionali: meno di quindici anni dopo,
quando le sinistre previsioni del filosofo tedesco sembrava stessero per avverarsi,
Nicola Berdiaeff, per ricacciare la tecnocrazia conquistatrice, fa appello alle forze
mistiche e propone di promuovere un "nuovo Medio Evo". Nel 1928, Edmond
Husserl pubblica le sue Logische Untersuchungen, frutto di trent'anni di meditazione.
Pur mirando a fare della filosofia una scienza esatta, la scienza dei fenomeni o più
esattamente la scienza delle essenze in opposizione alla scienza dei fatti, egli rafforza
la spinta irrazionalista. Approfondisce l'opposizione fra la logica, il razionale e ciò
che è puramente psicologico. Max Scheler, che analizza con tanta acutezza le forze
dell'incoscio e Karl Jaspers, proseguono l'opera di Husserl; per salvare l'individuo
avvilito dal meccanicismo del capitalismo contemporaneo, trasportano lo spirito della
fenomenologia nel dominio dei valori; Martin Heidegger, infine, collocando l'uomo
nel nulla mostra la disperazione di un'epoca tormentata da due guerre mondiali,
assurde nei loro principi e nelle loro conseguenze e da una crisi che sembra non dover
mai finire. Sein und Zeit, il suo capolavoro (1927), esprime sul piano metafisico
l'angoscia di un mondo condannato all'irrazionale e privo ormai di qualsiasi certezza
(2).
La "grande depressione" e l'enciclica "Quadragesimo Anno".
Nel 1931 l'angoscia giunge al culmine: la crisi economica iniziatasi nel 1929 s'è
rapidamente trasformata in una crisi mondiale di credito e di squilibrio dei prezzi.
"Non è una crisi di funzionamento del regime capitalista come quelle che l'hanno
preceduta, in particolare come quella del 1920, fenomeno di riconversione
dall'economia autoritaria di guerra in una economia ritornata pacifica; essa è una crisi
di struttura. Per questo la depressione che la segue, è di un'intensità e di una durata
eccezionali: è realmente, per chiamarla col nome che le ha dato Lionel Robbins e con
il quale sarà tramandata alla storia, "la grande depressione".
Nella fase culminante di essa tutto sembra sconvolto: i legami economici
internazionali sono praticamente tagliati e ogni nazione si rifugia al riparo delle
frontiere doganali, nell'autarchia; la disoccupazione arriva a cifre gigantesche: nel
mondo i disoccupati si contano a decine di milioni; lo statismo si rinforza e la
confusione è generale.
È allora che si alza la voce di Pio XI. Questo grande Papa " ha il dono di sentire
vivamente nella sua anima la nuova miseria umana e di comprendere le necessità
dell'ordine futuro" (3). Quarant'anni dopo la Rerum Novarum, il 15 maggio 1931, egli
pubblica l'enciclica Quadragesimo Anno.
Il papa rileva dapprima i profondi cambiamenti avvenuti dal tempo di Leone XIII nel
regime capitalista. Leone XIII aveva avuto presente soprattutto il capitalismo liberale
di piccole unità; Pio XI è contemporaneo del capitalismo di gruppo a tendenza
monopolistica e questa nuova forma di capitalismo si estende a dominare il mondo
intero.
"L'ordinamento capitalistico dell'economia, col dilatarsi dell'industrialismo in tutto il
mondo, dopo l'enciclica di Leone XIII si è venuto esso pure allargando dappertutto,
cosicché ha invaso ed è penetrato anche nelle condizioni economiche e sociali di
quelli che si trovano fuori delle sue cerchia, introducendovi insieme coi vantaggi,
anche gli svantaggi e i difetti suoi propri lasciandovi in certo modo la sua
impronta".La dittatura economica delle combinazioni monopolistiche ha sostituito la
libera concorrenza: "In primo luogo quello che ferisce gli occhi - osserva il Papa - è
che ai nostri tempi non vi è solo la concentrazione della ricchezza, ma l'accumularsi
altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell'economia nelle mani
di poche persone, che spesso non sono i proprietari ma solo i depositari e gli
amministratori del capitale di cui però dispongono a loro piacimento. Questo potere
divenne più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il denaro, si
comportano come padroni, dominano il credito e padroneggiano i prestiti; per cui
sono in un certo qual modo i distributori del sangue stesso di cui vive un organismo
economico, ed hanno in mano l'anima dell'economia; sicché nessuno, contro la loro
volontà, potrebbe nemmeno respirare".
Questa dittatura economica mira ad asservire ai propri fini il potere politico: "La
concentrazione di ricchezza e di potenza genera tre specie di lotta per il predominio:
si combatte prima per la prevalenza economica; si contrasta poi con accanimento per
il predominio nel potere politico, per valersi delle sue forze e della sua influenza nelle
competizioni economiche; infine si lotta fra gli stessi Stati perché le nazioni
adoperano le loro forze e la potenza politica a promuovere i vantaggi economici dei
propri cittadini e perché applicano il potere e le forze economiche a troncare le
questioni politiche sorte fra le nazioni" (4).
Lo sviluppo del capitalismo di gruppo ha provocato sempre più frequenti interventi
dello Stato, e, quindi, una degradazione dello Stato stesso. Se era augurabile che,
rinunciando all'estensione che gli imponeva il liberalismo, lo Stato, si preoccupasse
di proteggere i lavoratori, non lo era altrettanto che esso divenisse l'emulo, poi il
successore delle oligarchie industriali e finanziarie. "Dopo che l'individualismo è
riuscito a spezzare,- a spegnere quasi la ricca antica forma di vita sociale, svoltasi un
tempo mediante un complesso di diverse associazioni, restano di fronte, quasi soli, gli
individui e lo Stato - constata Pio XI -. Tale deformazione dell'ordine sociale reca un
non piccolo danno allo stato medesimo, nel quale vengono a ricadere tutti i pesi, che
quelle distrutte corporazioni non possono più portare, per cui si trova oppresso da
un'infinità di carichi e d'affari... L'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società
stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già
di distruggerle o assorbirle" (5).
Come ristabilire l'ordine economico e restaurare lo Stato?
Il capitalismo di gruppo è incapace di riformarsi e di rimettere la vita economica sotto
la legge di un principio giusto ed efficace; al contrario esso ha bisogno di un freno
energico e di una direzione saggia. "Si devono quindi ricercare - prosegue il Papa -
più alti e più nobili principi da cui questa egemonia possa esser vigorosamente e
totalmente governata: e tali sono la giustizia e la carità sociale. Perciò è necessario
che alla giustizia anche si ispirino le istituzioni dei popoli, anzi di tutta la vita della
società; e più ancora è necessario che questa giustizia sia efficace, ossia costituisca un
ordine giuridico e sociale a cui si conformi tutta l'economia. La carità sociale, poi,
deve essere come l'anima di questo ordine, alla cui totale rivendicazione efficace deve
attendere la pubblica autorità; e lo potrà fare tanto più facilmente se si libererà di quei
pesi che non le sono propri" (6).
Il Papa indica poi come devono esser costituite le istituzioni del nuovo ordine sociale
e risolti i problemi che angosciano l'umanità contemporanea.
a) II problema dei gruppi. - I gruppi devono essere coordinati, disciplinati e
sottomessi agli imperativi del bene comune. Vi si arriverà solo con un corpo di
istituzioni professionali e interprofessionali.
"Siccome poi l'ordine, come dice ottimamente San Tommaso, è l'unità che risulta
dall'opportuna disposizione di molte cose, il vero e genuino ordine sociale esige che i
vari membri della società siano collegati fra di loro per mezzo di qualche saldo
vincolo. Questa forma di coesione si trova infatti tanto nell'identità dei beni da
prodursi o dei servizi da farsi, in cui converge il lavoro riunito dei datori e prestatori
di lavoro della stessa categoria, quanto in quel bene comune, a cui tutte le varie
classi, ciascuna per parte sua, devono unitamente ed amichevolmente concorrere. E
questa concordia sarà tanto più forte ed efficace quanto più fedelmente i singoli
uomini e i vari corpi professionali si studieranno di esercitare le proprie professioni o
di segnalarsi in esse" (7).
Senza organizzazione professionale non vi è una base solida per la restaurazione
dell'ordine economico e sociale.
b) II problema del monopolismo - II monopolismo, specie quando per assicurare ad
alcune oligarchie il dominio dei mercati provoca la distruzione di ricchezze o il loro
accaparramento, non dev'essere tollerato. Ma bisogna stare attenti a non cadere
nell'eccesso opposto, la competizione anarchica. "Senza dubbio, la libera concorrenza
se è contenuta in ben determinati limiti, è cosa equa ed utile - scrive il Papa - ma
ciononostante non potrebbe servire come norma regolatrice per la vita economica. Il
che è dimostrato anche troppo dall'esperienza, quando furono applicate nella pratica
le norme dello spirito individualistico" (8).
Ciò che importa all'uomo, nel campo della sua attività economica, come in ogni altro
campo, non è la libertà, ma l'ordine.
c) II problema dello Stato. - Quest'ordine, può oggi garantirlo lo Stato? Certamente
no, data l'involuzione che l'affligge. Bisogna dunque restaurare lo Stato, ridargli il
senso dei propri doveri e delle proprie funzioni.
Il primo dovere dello Stato è di preoccuparsi, a titolo del tutto particolare, delle
provvidenze per i lavoratori e soprattutto di non arrivare ad una dominazione
totalitaria. "Perciò è necessario che la pubblica autorità rimetta ad associazioni minori
ed inferiori, il disbrigo degli affari e delle cure di minore importanza dalle quali essa
del resto sarebbe più che mai distratta; ed allora essa potrà seguire con più libertà, più
forza ed efficacia, le parti che a lei sola spettano, perché essa solo può compierle; si
tratta di dirigere cioè, di vigilare, di incitare, di reprimere a seconda dei casi e delle
necessità" (9).
d) II problema dell'impresa. - L'impresa resta ancora l'unità di produzione,
quantunque il capitalismo contemporaneo l'abbia notevolmente accresciuta. In essa
presero vita i conflitti economici e sociali che generalizzandosi portarono al massimo
il disordine della società. Alcune pretese dei lavoratori sono d'altronde ingiustificate
come quelle dei rappresentanti del capitale: non è vero che tutto il prodotto, tutto il
profitto d'estinzione, di ricostituzione dei capitali appartenga di diritto ai lavoratori; e
d'altra parte non è giusto che il capitale s'arroghi guadagni eccessivi e reclami per sé
la totalità dei profitti, lasciando a malapena ai salariati di che mantenersi in vita.
"Essendo dunque l'ordinamento economico moderno fondato particolarmente sul
capitale e sul lavoro, devono essere conosciuti e praticati i precetti della retta ragione,
ossia della filosofia sociale cristiana, concernenti i due elementi menzionati e le loro
relazioni. Così, per evitare l'estremo dell'individualismo da una parte, come del
socialismo dall'altra, si dovrà aver riguardo del pari alla doppia natura, individuale e
sociale, propria tanto del capitale o della proprietà, quanto del lavoro. Le relazioni
quindi tra l'uno e l'altro devono essere regolate secondo le leggi di una esattissima
giustizia commutativa appoggiata alla carità cristiana" (10).
e) Il problema, dei salari. - Nella precedente enciclica, Casti Connubii, del 31
dicembre 1930, Pio XI aveva già precisato che il padre di famiglia deve "guadagnare
quello che, considerata la sua condizione di vita e d'abitazione, è necessario al suo
mantenimento e a quello della moglie e dei figli".
Il salario non deve essere più un prezzo di mercato: il prezzo delle forze del lavoro
deve essere un compenso stabilito in funzione dei bisogni dell'operaio e della
famiglia, delle condizioni dell'impresa e delle esigenze del bene comune. Il Papa
parla così dei sistemi degli assegni familiari, della partecipazione dei salariati ai
profitti dell'impresa e di un sindacato o di un istituto nazionale che si preoccupi dei
pericoli sociali (in particolare quello della disoccupazione) che minacciano i
lavoratori.
f) II problema dei rapporti internazionali. - II nazionalismo autarchico degli Stati
alla vigilia della seconda guerra mondiale, ostacola gli scambi commerciali e
proibisce il libero accesso ai luoghi di produzione delle materie prime. Lo scontro
delle supremazie aggrava il disordine e minaccia di suscitare un conflitto generale. È
urgente quindi istituire convenzioni internazionali.
Così il Papa raccomanda che, anzi "conviene che le varie nazioni unendo propositi e
forze insieme, giacché nel campo economico stanno in mutua dipendenza e debbono
aiutarsi a vicenda, si sforzino di promuovere con sagge convenzioni ed istituzioni una
felice cooperazione di economia internazionale" (11).
La razionalizzazione cristiana.
Se il Papa si pronuncia con una tale autorità sui problemi economici e se, nello stesso
proemio dell'enciclica rivendica decisamente il diritto e il dovere di farlo (12), non
dimentica però il suo magistero spirituale.
Primo fra tutti egli si è accorto che il disordine contemporaneo è prima di tutto un
disordine intellettuale e morale. Il fallimento del razionalismo meccanicistico lascia
un vuoto che bisogna colmare con il richiamo ai principi base del cattolicesimo. Pio
XI vi si adopera; non basta constatare che le condanne pontificie sono state
sanzionate dai fatti e che ormai è passato il tempo dello scientismo orgoglioso.
Bisogna rianimare le forze religiose, bisogna promuovere una vera e propria
"razionalizzazione cristiana".
“A una strage così dolorosa di anime, che durando farà cadere a vuoto ogni sforzo di
rigenerazione della società, non si può rimediare altrimenti se non col ritorno
manifesto e sincero degli uomini alla dottrina evangelica, ai precetti cioè di Colui che
solo ha parole di vita eterna, e quindi parole tali che "passando ciclo e terra esse non
passeranno mai".
Così quanti sono veramente sperimentati nelle cose sociali, invocano con ardore
quella che chiamano perfetta razionalizzazione della vita economica. Ma un tale
ordinamento, che noi pure ardentemente desideriamo e con fervido studio
promuoviamo, riuscirà monco affatto ed imperfetto, se tutte le forme dell'attività
umana amichevolmente non si accordino ad imitare ed a raggiungere, per quanto è
dato all'uomo, la meravigliosa unità del disegno divino” (13).
II - COMUNISMO TOTALITARIO ED ECONOMIA ORIENTATA
Le tre esperienze sovietiche.
La Rivoluzione dell'Ottobre 1917 in Russia fu dapprima una imponente rivoluzione
agraria, che permise ai contadini di predare il bestiame e di spartirsi le terre dei
proprietari fondiari della Chiesa e della Corona. Lenin si limitò a sanzionare il fatto
compiuto che era stato reclamato e favorito dai suoi occasionali sostenitori, i
socialisti rivoluzionari e gli anarchici. Ma subito dopo l'attentato contro di lui di
Fanny Kaplan e la rottura con gli anarchici (makynovisti), Lenin e il partito
bolscevico, ormai soli arbitri della situazione, per consolidare la rivoluzione
instaureranno il "comunismo di guerra". Lo scopo è raggiungere il più presto
possibile (e con questo favorire la "dittatura del proletariato" esercitata dal partito a
nome degli operai e dei contadini) la società senza stato e senza classi che i socialisti
di tutte le tendenze hanno sempre sognato. Gli operai assumono la direzione e
partecipano agli utili delle fabbriche; le condizioni di lavoro sono livellate e il
Presidente del Consiglio dei Commissari del popolo riceve la stessa paga dell'ultimo
manovale; i contadini devono consegnare alla collettività tutti i raccolti, ad eccezione
di ciò che è loro strettamente necessario per vivere e per la semina. Viene introdotto il
razionamento delle derrate alimentari, la moneta perde ogni potere d'acquisto ed è
sostituita con un sistema di buoni di lavoro e di miniati di fornitura: è proibito il
commercio privato.
Il comunismo di guerra completa la catastrofe; infatti la Russia era impegnata allora a
respingere gli attacchi dell'intesa ed a reprimere i tentativi controrivoluzionarì di
Komilov, Denikin, Yundenicht, Koitchoc e Wrangel; le circostanze quindi non erano
adatte ad una esperienza così audace. Ed ecco i risultati: dal 1918 al 1921, senza
contare le vittime dirette della guerra civile, circa 7 milioni di persone morirono di
fame e di epidemia; la produzione industriale cadde a meno del 10% dell'anteguerra;
il traffico ferroviario rappresentò solo il 12%, rispetto a quello del 1913; le grandi
città non ebbero più né pane, né carbone, né legna; nel 1921 presi dalla disperazione,
gli operai di Pietrogrado, la "Comune del Nord", appoggiati dai marinai di Cronstadt
si ribellarono: erano proprio gli operai e i marinai che avevano portato al successo la
Rivoluzione d'Ottobre. Per soffocare la rivolta, Trotzky dovette ricorrere ai cannoni e
la battaglia durò più di dieci giorni.
Allora Lenin - per consiglio di Krasnin, commissario del commercio e dell'industria
dopo essere stato uno dei più grandi tecnici della Russia zarista, - decise a "una vera e
propria ritirata verso il capitalismo". Egli comprese che non si poteva far direttamente
passare la Russia da un regime economico di tipo prettamente feudale a quello del
comunismo integrale; bisognava procedere gradatamente e per prima cosa
organizzare nelle città istituzioni e sistemi già provati altrove e che permettevano di
uscire dal caos; bisognava raggiungere e sorpassare i paesi capitalisti tecnicamente
più progrediti" (Lenin). Era opportuno dunque tentare una nuova esperienza: quella
dell'introduzione volontaria e sistematica del capitalismo di concorrenza. La Russia si
preparava ad introdurre scientificamente quello che in Inghilterra, in Francia e nella
maggior parte delle nazioni occidentali, si era sviluppato empiricamente per tentativi
ed a prezzo di contrasti, di crisi e di innumerevoli difficoltà. L'esperimento sarà d'ora
in poi controllato dalla più sicura delle guide, la rigida dittatura del partito comunista.
Dal 1921 al 1927 la nuova politica economica seguirà il suo corso; il godimento delle
loro terre è garantito ai contadini che possono disporre dei raccolti dietro
conferimento di un'impresa in natura; è autorizzato il commercio privato; le officine
sono dirette da competenti spesso coadiuvati da tecnici stranieri; è rimesso in vigore
il diritto all'eredità; viene messa in circolazione una moneta placcata d'oro. Si
riaprono borse e mercati e se ne creano di nuovi; prezzo, salario, interesse, rendita,
fondiaria, profitto, insomma tutte le categorie economiche del capitalismo sorgono e
sono determinate dalle libere oscillazioni della domanda e dell'offerta. Si forma una
nuova borghesia quella dei Nepmen, (uomini d'affari) e dei Kulaks (ricchi contadini),
che può tanto meglio godere i suoi guadagni in quanto è stato abolito il razionamento.
Per permettere gli investimenti di capitali, viene favorito il risparmio privato, e
siccome esso si rivela insufficiente, si ricorre a capitali stranieri attratti con la
promessa di particolari concessioni e garanzie. Per assicurare il pareggio del bilancio
nazionale, si riorganizza il settore delle imprese nazionalizzate, i cui deficit erano
sopportati dallo Stato, e lo si adatta alle regole della contabilità industriale e dei
profitti capitalisti.
L'U.R.S.S. può chiamarsi ancora repubblica sovietica sebbene il sistema dei Soviet
(consiglio di operai e di contadini) sia ormai completamente scomparso; in realtà essa
è una potenza capitalista e non si sbagliano le nazioni straniere che dal 1921 al 1927
la riconoscono tale de iure; solo gli Stati Uniti si astengono da relazioni diplomatiche
con essa.
L'esperimento sovietico d'altronde riuscì in pieno: nel 1927 la Russia sorpassò i livelli
della produzione industriale ed agricola del 1913; costituì un'industria pesante con
rendimenti paragonabili a quelli della Germania e dell'Inghilterra, riprese le
esportazioni con l'estero e sui mercati mondiali si cominciò a risentire la sua
concorrenza.
Allora - Lenin era morto nel 1924 e Trotzky era stato condannato alla deportazione
nel gennaio del 1928 - Stalin che aveva assoluta autorità sul partito comunista, decise
di impegnare l'U.R.S.S. in un terzo esperimento. Egli pensò che il capitalismo
liberale avesse ormai esaurito i suoi benefici effetti e che bisognava, come era
accaduto in Occidente sostituirlo con il capitalismo di gruppo, col capitalismo
monopolizzatore; bisognava cioè spingere fino al parossismo la concentrazione,
accrescere lo sfruttamento delle più importanti sorgenti di materie prime, sviluppare,
con una fitta rete di rapporti di dipendenza finanziaria, tutte le istituzioni economiche,
mettere in atto una politica coloniale con l'occupazione e lo sfruttamento dei territori
satelliti. Ma nell'U.R.S.S. non dovrà accadere che i trusts o le unioni attuino il
malthusianesimo economico o entrino in conflitto con lo stato. Lo sviluppo intensivo
dei mezzi di produzione che i trusts dovranno adottare, verrà fatto in funzione di un
piano quinquennale stabilito dai poteri pubblici.
S'iniziò l'era dei piatriletka (piani). Essa assisterà al trionfo dell'industrializzazione e
della produzione su larga scala, all'instaurazione della potenza mondiale dell'U.R.S.S.
che al termine dell'esperimento potrà affermare di essere finalmente una società
comunista dato che, "l'imperialismo è, secondo l'espressione stessa di Lenin, lo stato
più alto del capitalismo" (14).
Lo studioso di statistiche e l'economista non possono non esprimere la loro
ammirazione davanti all'opera compiuta, seguendo piani quinquennali che si sono
succeduti dal 1928 al 1955, anche negli anni della seconda guerra mondiale: la
maggior parte delle cifre fissate sono raggiunte e spesso superate; sono stati costituiti
giganteschi complessi industriali (Urali-Kouznetsk; Siberia orientale; Karaganda); si
è effettuata la valorizzazione fino al circolo polare, di regioni desolate, si sono
sviluppate le reti di comunicazione per acqua, terra e aria; immensi territori sono stati
irrigati, ecc.
Ma il sociologo e il moralista non possono non inorridire davanti ai metodi adoperati
dai dirigenti sovietici: l'irreggimentazione forzata dei contadini nelle fattorie dello
Stato (sovkoz) e nelle imprese collettive (kolkoz), il massacro e la deportazione di
quelli che hanno resistito alla collettivizzazione dei villaggi; l'asservimento di tutti gli
operai schiavi del libretto del lavoro e del passaporto interno, sottoposti ad una
disciplina di lavoro spossante (stakanovismo, salario secondo il rendimento); il
trasferimento di intere popolazioni, talvolta a migliaia di chilometri dai loro paesi
d'origine; l'uso sempre più generalizzato d'una mano d'opera concentrata (20 milioni
di forzati nel 1952); la sottomissione completa di tutte le volontà, di tutte le iniziative
al totalitarismo dello Stato.
Il mondo sovietico, che nel 1955 si estende dall'Elba al Mar del Giappone e che tiene
in schiavitù più dei due quinti della popolazione della terra è un mondo infernale,
posto "dietro le spalle di Dio" come dicono i contadini ungheresi.
L'Enciclica "Divini Redemptoris" sul comunismo ateo.
Un tempo quest'inferno sembrava limitato dietro il "cordone sanitario" caro a Stephen
Pichon, ministro francese degli esteri nel 1919. Nel 1937, esso raggiunse, con le sue
fiamme, la Spagna. Nel luglio 1936, molti buoni osservatori avevano legittimamente
potuto assimilare l'insurrezione di cui il generale Franco avrebbe preso presto la
direzione, ad un pronunciamento di tipo spagnolo; qualche mese dopo fu giocoforza
arrendersi all'evidenza: la guerra che si combatteva al di là dei Pirenei, non era una
lotta civile ma il prodromo di un conflitto fra l'imperialismo sovietico e le forze
cristiane. Franco era il capo d'una crociata e combatteva per la riconquista di una terra
appartenuta alla Cristianità.
Gli orrori del comunismo in Ispagna fornirono al Papa Pio XI l'occasione di
intervenire: "tale spaventevole distruzione - scriveva il Papa - viene eseguita con un
odio, una barbarie e una efferatezza che non si sarebbe creduta possibile nel nostro
secolo. Non vi può essere uomo privato, che pensi saggiamente ne' uomo di Stato,
consapevole della sua responsabilità, che non rabbrividisca al pensiero che quanto
oggi accade in Spagna non abbia forse a ripetersi domani in altre nazioni civili " (15).
La Divini Redemptoris, apparve il 19 marzo 1937.
Non era certo la prima volta che la Santa Sede aveva levato la sua voce contro il
comunismo. Già il 9 novembre 1846 con l'Enciclica Qui pluribus, Pio IX aveva
emesso una condanna solenne confermata dal Sillabus, contro questa dottrina
"esecrabile" che una volta ammessa, avrebbe significato la fine completa di tutti i
diritti, istituzioni, proprietà e della società stessa. Il 28 dicembre 1878, nella sua
enciclica Quod Apostolici muneris, Leone XIII aveva definito il comunismo una
"peste distruggitrice, la quale, intaccando il midollo della società umana la
condurrebbe alla rovina". Tuttavia a quell'epoca si trattava di una dottrina accettata
soltanto da ristretti gruppi d'intellettuali e di militanti. Adesso invece la dottrina
ispirava un sistema di governo totalitario che governava su un sesto del mondo.
Pio XI distingue i popoli dell'U.R.S.S. dai loro governanti. Egli sa che nell'U.R.S.S.
numerosi sono "quelli che gemono sotto il duro giogo loro imposto con la forza da
uomini in massima parte estranei ai veri interessi del paese" e che gli altri "furono
ingannati da fallaci esperienze".
D'altronde quando alla fine del comunismo di guerra la Russia era in preda alla
carestia, il Vaticano non aveva forse preso l'iniziativa per organizzare missioni di
soccorso?
Quello che Pio IX condanna è "il sistema e i suoi autori e fautori i quali hanno
considerato la Russia come terreno più adatto per introdurre in pratica un sistema già
elaborato da decenni e di là continuano a propagarlo in tutto il mondo".
E bisogna ancora distinguere nel sistema, gli elementi puramente tecnici dai principi
e dai risultati. Gli elementi tecnici della N.E.P. e della pianificazione non sono in sé
condannabili: solo la loro attuazione è riprovevole. La Chiesa non ha nulla da
obiettare né all'introduzione dei meccanismi economici che altrove dimostrano la loro
efficacia, né alla creazione dell'industria pesante, né allo sviluppo delle fattorie statali
e delle cooperative agricole. Essa non si erge contro il comunismo in nome di
interessi economici, come fa il capitalismo occidentale, ma per un motivo
infinitamente più elevato, quello della concezione stessa dell'uomo e per difendere
l'individuo, la famiglia, la società (16).
Il comunismo è condannato dal punto di vista religioso, filosofico e sociale. Infatti,
osserva Pio XI "il comunismo d'oggi, in modo più accentuato che altri simili
movimenti del passato, nasconde in sé un'idea di falsa redenzione. Uno pseudo-ideale
di giustizia, di uguaglianza e di fraternità nel lavoro pervade tutta la sua dottrina e
tutta la sua attività d'un certo falso misticismo, che alle folle adescate da fallaci
promesse comunica uno slancio e un entusiasmo contagioso, specialmente in un
tempo come il nostro in cui da una distribuzione difettosa delle cose di questo mondo
risulta una miseria non consueta". Questo comunismo ha per fondamento dottrinale il
materialismo dialettico e storico di cui, prima Marx e poi Lenin, sono stati i più fedeli
interpreti. Secondo essi "la società umana - scrive il Papa - non è altro che
un'apparenza e una forma della materia che si evolve nel detto modo, e per
ineluttabile necessità tende, in un perpetuo conflitto delle forze, verso la sintesi
finale: una società senza classi. In tale dottrina, com'è evidente, non vi è più posto per
l'idea di Dio, non esiste differenza fra spirito e materia né tra anima e corpo; non si dà
sopravvivenza dell'anima, dopo morte, e quindi nessuna speranza in un'altra vita.
Insistendo sull'aspetto dialettico del loro materialismo, i comunisti pretendono che il
conflitto che porta il mondo verso la sintesi finale, può essere accelerato dagli
uomini. Quindi si sforzano per rendere più acuti gli antagonismi che sorgono fra le
diverse classi della società e la lotta di classe con i suoi odi e le sue distruzioni,
prende l'aspetto di una crociata per il progresso dell'umanità" (17).
Cosa diverrebbe la società umana fondata su tali principi?
"Essa sarebbe, risponde Pio XI, una collettività senz'altra gerarchia che quella del
sistema economico. Essa avrebbe come unica missione la produzione di beni per
mezzo del lavoro collettivo e per fine il godimento dei beni della terra in un paradiso
in cui ciascuno "darebbe secondo le sue forze e riceverebbe secondo i suoi bisogni".
Alla collettività il comunismo riconosce il diritto, o piuttosto l'arbitrio illimitato, di
aggiogare gli individui al lavoro collettivo, senza riguardo al loro benessere
personale, anche contro la loro volontà e persino con la violenza. In essa tanto la
morale quanto l'ordine giuridico non sarebbero se non un'emanazione del sistema
economico del tempo, di origine quindi terrestre, mutevole e caduca. In breve
pretende di introdurre una nuova epoca una nuova civiltà, frutto soltanto di una cieca
evoluzione: un'umanità senza Dio!" (18).
Nell'U.R.S.S. sotto la maschera di una sedicente dittatura del proletariato, il partito
comunista decide con pieni poteri della libertà, del destino, della vita stessa delle
popolazioni. È ormai ammesso che il programma politico del partito debba sostituire
la legge divina ed il partito è deliberatamente responsabile della "spoliazione dei
diritti e dell'asservimento dell'uomo, della negazione dell'origine prima e trascendente
dello Stato o del suo potere, dell'orribile abuso dell'autorità pubblica al servizio del
terrorismo collettivista". Il partito ha concepito lo stato sovietico come fine di ogni
persona e di ogni istituzione, e ne ha fatto uno stato totalitario cui ogni cosa deve
rimettersi e che deve tutto assorbire.
La condanna del Papa nei riguardi della pianificazione sovietica non è la condanna di
un sistema economico. Pio XI lascia agli economisti il compito di criticare il sistema
per il fatto che non è elastico, preciso, efficace, come quello dei liberi mercati, perché
adegua solo imperfettamente la produzione al consumo, perché non tiene conto dello
spreco di capitali e di lavoro, o perché non riesce a dare razionali criteri per la
determinazione dei costi e dei prezzi. La critica del Papa investe questioni di ordine
superiore: la soppressione delle libertà economiche, causata dalla sostituzione della
pianificazione al capitale di concorrenza, provoca la rovina di altri valori,
infinitamente più preziosi. "II comunismo spoglia l'uomo della sua libertà, principio
spirituale della sua condotta morale, toglie ogni dignità alla persona umana e ogni
ritegno morale contro l'assalto degli stimoli ciechi.
All'uomo individuo non è riconosciuto, di fronte alla collettività, alcun diritto
naturale della personalità umana, essendo essa, nel comunismo, semplice ruolo e
ingranaggio del sistema". (19)
"I travestimenti del comunismo ".
L'argomento principale del materialismo dialettico è che esso soltanto ha un
significato storico, in altre parole che il suo successo è inevitabile, che ogni resistenza
è inutile e che bisogna conseguentemente collaborare con lui.
Tale argomentazione ha convinto perfino certi ambienti cattolici. Alcuni cattolici,
sacerdoti o laici, spinti gli uni dal loro zelo apostolico, gli altri da orgoglio e da
timore, hanno dato ai comunisti, sul piano politico, un appoggio diretto e spesso
decisivo; ne hanno firmato i manifesti, volgarizzato le tesi, rinforzato la propaganda
presso la classe operaia.
Ad essi, fin d'allora, si rivolgeva Pio XI quando raccomandava ai fedeli di diffidare
dei travestimenti del comunismo. Il passo dell'enciclica in cui il Papa fa tali
raccomandazioni merita d'essere riportato per intero: "II comunismo ateo nel
principio si mostrò qual era in tutta la sua perversità, ma ben presto si accorse che in
tale modo allontanava da sé i popoli, e perciò ha cambiato tattica e procura di attirare
le folle con vari inganni nascondendo i propri disegni dietro idee che in sé sono
buone e attraenti. Così, vedendo il comune desiderio di pace, i capi del comunismo
fingono di essere i più zelanti fautori e propagatori del movimento per la pace
mondiale; ma nello stesso tempo essi eccitano a una lotta di classe che fa scorrere
fiumi di sangue, e sentendo di non avere interna garanzia di pace, ricorrono ad
armamenti illimitati. Così, sotto vari nomi che neppure alludono al comunismo,
fondano associazioni e periodici che servono poi unicamente a far penetrare le loro
idee in ambienti a loro non facilmente accessibili; anzi procurano con perfidia
d'infiltrarsi in associazioni cattoliche e religiose. Così, altrove senza punto recedere
dai loro perversi principi, invitano i cattolici a collaborare seco sul campo così detto
umanitario e caritativo, proponendo talvolta anche cose del tutto conformi allo spirito
cristiano e alla dottrina della Chiesa".
Ed il Papa conclude: "II comunismo è intrinsecamente perverso e non si può
ammettere in nessun campo la collaborazione con lui da parte di chiunque voglia
salvare la civilizzazione cristiana" (20).
La Chiesa e l'economia orientata.
II 2 marzo 1939, alla fine di un conclave durato un giorno, il principale collaboratore
di Pio XI, il cardinale Eugenio Pacelli, era eletto Papa col nome di Pio XII.
Esattamente sei mesi dopo, iniziava la seconda guerra mondiale, che doveva
concludersi con la sconfitta della Germania e del Giappone, con l'estensione del
regime sovietico ad ovest fino all'Elba e alle Alpi Nordiche e ad est fino in Cina e con
la divisione del mondo in due blocchi contrari con a capo rispettivamente l'U.R.S.S. e
gli Stati Uniti. Nei riguardi di questi blocchi Pio XII nel suo radiomessaggio al
mondo del 24 dicembre 1951, si mostra ugualmente riservato.
"...II mondo che ama chiamarsi con enfasi "il mondo libero"- egli dichiara - s'illude e
non si conosce bene: nella vera libertà non risiede la sua forza... Nell'altro mondo,
quello collettivista, la società non è che una enorme macchina, il cui ordine non è che
apparente, perché non è più l'ordine della vita, dello spirito, della libertà, della pace"
(21).
Il Papa si rivolge direttamente ai popoli invece che ai governanti di questi due mondi
antagonisti. Per far questo sceglie ogni occasione e usa tutti i mezzi; durante il
conflitto moltiplica i radiomessaggi, specialmente in occasione della solennità del
Natale; a pace avvenuta, quando può ricevere quelli - credenti o non credenti - che da
ogni parte del mondo vengono a chiedere i suoi consigli ed i suoi suggerimenti,
approfitta di ogni circostanza per indicare le condizioni necessarie alla pace interna di
ogni nazione e ad un vero ordine internazionale.
Le esigenze di guerra hanno dovunque contribuito a condurre al suo logico termine il
processo della concentrazione industriale, commerciale e finanziaria. I grandi
complessi hanno assorbito i più piccoli. Le combinazioni di monopolio, le unioni, i
trusts hanno rinforzato la loro potenza ed esteso il loro campo d'azione. L'U.R.S.S. è
senza dubbio il paese in cui la concentrazione è stata più esaltata ed in cui il
gigantismo industriale agricolo e commerciale è stato maggiormente favorito. Il
settore delle combinazioni monopolistiche vi ha già preso un'importanza tale che
alcuni osservatori mettono in dubbio l'esistenza di un solo settore libero; e se, nei
limiti fissati dai piani, si può ancora parlare di competizione fra combinazione e
trusts, essa si presenta come una forma di concorrenza monopolistica.
Il sistema dei trusts è forse vantaggioso dal punto di vista economico: da una parte
infatti, con la razionalizzazione della produzione, della vendita e del profitto che tale
sistema causa, esso apporta un contributo decisivo al progresso della tecnica: d'altra
parte consolida quella leva essenziale del comando economico che è il monopolismo.
Ma dal punto di vista sociale, il complesso dei trusts presenta indubbi pericoli: gli
errori e i soprusi dei capi d'industria impegnati nelle feroci competizioni del sistema
liberale, sono suscettibili di essere ripetuti, aggravati, dai trusts lasciati liberi nella
loro attività. Essi possono procedere così all'annullamento di chi dà loro ombra,
provocare rotture dell'equilibrio economico che generano i fallimenti e la
disoccupazione.
I trusts subordinati ai piani, divenuti anzi, i mezzi per eseguire le norme fissate dai
piani, appaiono come strumenti di schiavitù, come mostri di uno Stato Totalitario che
sacrifica per i propri fini sia i consumatori che i lavoratori delle industrie
nazionalizzate.
Il capitalismo di gruppo, che si tratti di gruppi d'interessi privati o di gruppi formati e
diretti dallo Stato, non risolve e non può risolvere i problemi attualmente sul tappeto
e primo di tutti la lotta fra le classi.
La lotta di classe - dice Pio XII - deve scomparire, non con la dittatura palese o
nascosta di una classe sulle altre, ma stabilendo regole di giustizia che permettano
una migliore ripartizione dei profitti. L'economia deve essere messa al servizio
dell'uomo, dell'uomo in relazione con altri uomini. Bisogna produrre per l'uomo.
Bisogna che l'Economia sia orientata in funzione del bene comune.
"È nobile prerogativa e missione dello Stato il controllare, aiutare e ordinare le
attività private e individuali della vita nazionale per farle convergere armonicamente
al bene comune, il quale non può essere determinato da concessioni arbitrarie, né
ricevere la sua norma primariamente dalla prosperità materiale della società, ma
piuttosto dallo sviluppo armonico e dalla perfezione naturale dell'uomo, a cui la
società è destinata quale mezzo dal Creatore" (22).
Ma lo Stato per essere in grado di orientare validamente l'economia deve essere
ricondotto "al servizio della società, al pieno rispetto della persona umana e della sua
operosità per il conseguimento dei suoi scopi eterni"; bisogna quindi dissipare al più
presto "gli errori, che tendono a deviare dal sentiero morale lo Stato e il suo potere e a
scioglierli dal vincolo eminentemente etico, che li lega alla vita individuale e sociale
e a far loro rinnegare o ignorare praticamente l'essenziale dipendenza, che li unisce
alla volontà del Creatore" (23).
Lo Stato, così ricomposto, messi da parte interessi di privati e qualsiasi forma di
totalitarismo, compone i suoi programmi, assume la "direzione strategica della vita
economica" (R. Mosse); Pio XII ha precisato i sistemi per giungere a questo, in una
allocuzione ai membri del Congresso Internazionale di Scienze Amministrative, il 5
agosto 1950:
"L'epoca presente assiste ad una lussureggiante fioritura di "piani e di unificazioni".
Ben volentieri riconosciamo che, nei giusti limiti, essi possono essere auspicabili e
anche richiesti dalle circostanze e, ancora una volta, è bene ricordare che ciò che Noi
respingiamo è soltanto l'eccesso di manomissione da parte dello Stato. Chi non vede,
in tali condizioni, il danno che potrebbe scaturire qualora fosse l'ultima parola negli
affari dello Stato lasciata ai puri tecnici dell'organizzazione? No, l'ultima parola
appartiene a coloro che vedono nello Stato una entità vivente, una emanazione
normale della natura umana, a coloro che amministrano, in nome dello Stato, non già
immediatamente l'uomo, ma gli affari del paese, di modo che gli individui non
vengano mai, nella loro vita privata, né nella loro vita sociale, a trovarsi soffocati
sotto il peso dell'amministrazione dello Stato. L'ultima parola spetta a coloro per i
quali il diritto naturale è ben altra cosa che una norma puramente negativa, che un
confine chiuso alle invasioni della legislazione positiva, che un semplice adattamento
tecnico alle circostanze contingenti ma rispettano in esso l'anima di questa
legislazione positiva, anima che conferisce ad esso, forma, senso, vita " (24).
Principi fondamentali d'una economia al servizio dell'uomo.
La Chiesa s'oppone alla concezione individualista, liberale meccanicistica del
capitalismo che mira solo al benessere materiale, che disconosce i principi essenziali
di ogni morale economica e il carattere sociale del lavoro e della proprietà. Essa si
oppone alla concezione totalitaria, faraonica del capitalismo che conferisce tutti i
poteri, le iniziative, i diritti allo Stato, ai suoi trusts, alle sue combinazioni; non
approva né l'ordine economico del XIX secolo né quello del XX secolo. La sua
dottrina si mantiene ad eguale distanza dagli errori e dalle esagerazioni, cerca sempre
l'equilibrio della giustizia e della verità.
La Chiesa non rigetta nessuna tecnica del capitalismo: per essa la tecnica è uno
strumento ed un mezzo di cui riconosce la forza, l'adattabilità e la precisione; sa
inoltre che abbandonando il capitalismo nel suo disordine, nei suoi errori, e nelle sue
ingiustizie senza intervenire, si rischierebbe la rivolta di milioni di uomini condannati
alla fame ed alle malattie, provocando guerre e rivoluzioni. Nessuno può negare che
le diverse forme del capitalismo abbiano magnificamente risolto il problema della
produzione di massa, ma avendo come soli obiettivi la produzione ed il rendimento si
è dimenticato che i prodotti sono fatti per l'uomo e non l'uomo per essi.
Mancano al capitalismo contemporaneo una filosofia ed una morale adatte ai bisogni
presenti e ciononostante sottomesse a leggi trascendentali: "il processo al capitalismo
- scriveva Lucien Romier - è anche il processo agli educatori di tutto il mondo " (25).
Questa è anche l'opinione di Pio XII che vuol dare una nuova intelligenza ed una
nuova dottrina al sistema economico.
Ecco i principi essenziali di questa dottrina economica, fissati dal Papa:
"1. - Chi dice vita economica dice vita sociale. Lo scopo, a cui essa tende per la sua
stessa natura e a cui gli individui sono ugualmente obbligati di servire nelle diverse
forme della loro attività è di mettere, in una maniera stabile alla portata di tutti i
membri della società, le condizioni materiali richieste per l'incremento della loro vita
culturale e spirituale...
2. - La vita economica, vita sociale, è vita di uomini, e quindi non può concepirsi
senza libertà. Ma questa libertà non può essere ne l'affascinante ma ingannevole
formula di cento anni or sono, cioè di una libertà puramente negativa, dalla volontà
regolatrice dello Stato; e nemmeno la pseudo-libertà dei giorni nostri, di sottomettersi
al comando di gigantesche organizzazioni. La genuina e sana libertà non può essere
che la libertà di uomini, i quali, sentendosi solidamente legati allo scopo oggettivo
dell'economia sociale, sono in diritto di esigere che l'ordinamento sociale
dell'economia, lungi dal portare il minimo attentato contro la loro libertà nella scelta
dei mezzi a quello scopo, la garantisca e la protegga. Ciò vale al medesimo titolo, sia
che si tratti di lavoro indipendente o dipendente, perché, riguardo al fine
dell'economia sociale, ogni membro produttore è soggetto, non oggetto, della vita
economica.
3. - L'economia nazionale, in quanto economia d'un popolo incorporato nell'unità
dello Stato è essa stessa una unità naturale, che richiede lo sviluppo, il più possibile
armonico di tutti i suoi mezzi di produzione nell'intero territorio abitato dal popolo
stesso. Per conseguenza i rapporti economici internazionali hanno una funzione bensì
positiva e necessaria ma soltanto sussidiaria... (26). Sarebbe forse conveniente di
esaminare, se una unione regionale di più economie nazionali renderebbe possibile
sviluppare più efficacemente di prima le forze particolari di produzione.
4. - Ma soprattutto è necessario che la vittoria sul funesto principio della utilità come
base e regola del diritto; la vittoria su quei germi di conflitto che consistono in
discrepanze troppo stridenti, e talvolta fissate con la coazione, nel campo
dell'economia mondiale; la vittoria sullo spirito di freddo egoismo, apportino quella
sincera solidarietà giuridica ed economica che è la collaborazione fraterna, secondo i
precetti della legge divina, fra i popoli, fatti sicuri della loro autonomia e della loro
indipendenza. La fede in Cristo e la osservanza dei suoi comandamenti d'amore
potranno solo condurre a così benefica e salutare vittoria" (27).
L'umanità è giunta ad una svolta decisiva della sua storia; le carte geografiche non
riportano più le zone bianche che rappresentavano le regioni sconosciute; le distanze
tra nazioni ed individui sono state annullate dagli aerei che ci permettono di fare il
giro del mondo in poche ore, o addirittura, con la radio, in poche frazioni di secondo;
nessuno può isolarsi volontariamente, oggi che la sorte dei robinson, ammesso che ne
esistano ancora, su qualche isola deserta, dipenderebbe da una decisione di
Washington o di Mosca; ed infine la popolazione mondiale aumenta a ritmo
vertiginoso.
Siamo di fronte ad una civiltà planetaria e ad una civiltà di massa che, a causa degli
elementi che la sostengono nelle sue strutture, si basa soprattutto sulle tecniche
scientifiche e sul fattore sociale che la rendono materialista e socialista. Ma le manca
quel supplemento d'anima di cui parlava Bergson e per questo è votata all'angoscia ed
alla disperazione.
Non è necessario tuttavia che sia il nulla ad attenderla al varco; non è escluso che,
rinvigoriti i resti dello spirito cristiano latenti in essa, non possa trasformarsi,
riconciliando scienza tecnica e fede nell'aspirazione al Divino.
Con energia e sollecitudine paterna Pio XII ci indirizza verso questa vittoria sul nulla.
La civiltà contemporanea, senza essere costretta a respingere nessuno degli
ammirabili acquisti della tecnica capitalista, sarà cristiana se i cristiani lo vogliono e
se essi si compenetrano, nella loro vita intima e nel comportamento economico e
sociale, degli insegnamenti della Chiesa.
Note
(1) Cf. C. J. GIGNOUX, La crisi dei capitalismo nel XX secolo, Parigi 1943.
BERTRAND DE JOUVENEL, L'Economia mondiale nel XX secolo, Parigi 1944.
(2) Cf. GEHRARD LEHMANN, Die deutsche Philosophie der Gegenwart - St Louis
DE BROGLIE, DANIEL ROPS, L'avvenire della scienza, Parigi 1941 - Louis DE
LAUNAY, La Chiesa e la Scienza, Parigi 1936.;
(3) HEN'RI GUITTON, op. cit. pag. 16.
(4) Pio XI, Enciclica Quadragesima Anno. 40-41.
(5) Pio XI, ibid., n. 5.
(6) Pio XI, ibid., n. 37.
(7) Pio XI, ibid., n. 36.
(8) Pio XI, ibid., n. 37.
(9) Pio XI, ibid., n. 35.
(10) Pio XI, ibicl., n. 43.
(11) Pio XI ibid., n. 37.
(12) Pio XI ha seguito LEONE XIII, che scriveva nella Rerum Novarum: "Con
sicurezza e nel nostro pieno diritto noi trattiamo questo argomento. La questione che
trattiamo è tale che se non si fa appello alla religione ed alla Chiesa è impossibile
trovare una soluzione efficace... Passarla sotto silenzio sarebbe negligere il nostro
dovere".
(13) Pio XI, Enciclica Quadragesima Anno, n. 56.
(14) Cf.i B. BRUTZKUS, Economie PIanning Souiet Russia, Londra 1933 e
U.R.S.S., terreno d'esperienze economiche, Parigi 1937.
(15) Pio XI, Enciclica Diuini Redemptoris, I937. n. 30.
(16) Cf DANIEL ROPS, Le sel de la terre, nell'opera 11 comunismo ed i cristiani,
Parigi 1937.
(17) Pio XI, Enciclica Divini Redemptoris, 1937, nn. 8-9.
(18) Pio XI, ibid. n. 12.
(19) Pio XI, ibid., n. 10. Cf, FRANCESCO VITO, Comunismo e cattolicesimo.
Milano 1945.
(20) Pio XI, ibid. n. 5.
(21) Pio XII, La Chiesa ed il problema della pace. Radiomessaggio al mondo intero,
34 dicembre 1931. Op. cit., Vol. XIII - pagg. 406-407.
(22) Pio XII, Enciclica Summi Pontificatus, 20 ott. 1939. Op. cit., Vol. 1 (1939) -
pagg 217-318.
(23) Pio XII, Radiomessaggio. Con sempre, 24 dicembre 1942. Op. cit. Voi. IV
(1942), pag. 325.
(24) Pio XII, Allocuzione ai Membri delI'VIII Congresso internazionale delle scienze
amministrative, 5 agosto 1950 - Op. cit., Vol. XII pagg. 163-164.
(25) LUCIEN ROMIER, Se il capitalismo scomparisse, Parigi 1933 Pag. 159.
(26) Commentando questa frase, Marcel Clement osserva giustamente: "Questa
concezione sta a mezza strada fra internazionalismo economico cui i fautori del libero
scambio sono rimasti troppo spesso attaccati e l'autarchia che un nazionalismo spinto
ha voluto opporgli". L'economia sociale di Pio XII, Parigi 1953 vol. II, pag. 139.
(27) Pio XII, Allocuzione ai membri del Congresso di politica degli scambi
internazionali, 7 marzo 1948. Op. cit., Vol. X - pagg. 64-65.