Filosofia Del Diritto
Filosofia Del Diritto
Ogni filosofia è comunque su noi stessi, in quanto la filosofia è fatta attraverso gli
strumenti che la nostra ragione ci mette a disposizione. Cotta ha una prospettiva
antropocentrica, come l’uomo si rapporta con il diritto, quanto nell’esperienza
umana.
L’oggetto della filosofia del diritto è il diritto; come autonomia accademica la materia
è molto giovane.
“Lineamenti di filosofia del diritto” di Hegel porta per la prima volta questa
espressione di filosofia del diritto; quindi, un approccio relativamente filosofico al
diritto ha un origine relativamente recente, questo non vuol dire che però il diritto non
abbia accompagnato la filosofia sin dai presocratici. Hegel afferma: “la notte in cui
tutte le vacche sono nere” espressione celebre posta nella prefazione. “Fiat iustitia
pereat mundus”: sia fatta la giustizia perisca il mondo; in alcuni momenti bisogna
amare così tanto la giustizia che bisogna farne a meno per far andare avanti il mondo
(un’interpretazione).
Persino Eraclito nei suoi frammenti parla di elementi giuridici e non è l’unico dei pre
socratici che fa questi riferimenti.
Inoltre, anche il V libro di “Etica Nicomachea” di Aristotele è dedicato alla giustizia
(δικαιοσύνη).
Per primo Hegel ha voluto dare un nome a questa disciplina. In che modo si
differenzia rispetto alle altre discipline che studiano il diritto?
La filosofia del diritto individua un tipo di approccio al diritto che ne giustifica
l’esistenza.
Non è caratterizzata da un oggetto ma dall’approccio ad un determinato oggetto.
L’approccio della filosofia del diritto è l’approccio filosofico: il ruolo filosofico di
spiegare il diritto è quello orientato al senso, in quanto cerca di scavare sotto al
sostrato del diritto per ricercarne il senso, l’origine e la direzione.
Ha un senso tenere in piedi questo sistema? Gli anarchici direbbero no, qualcuno
direbbe si quasi “ob torto collo”, qual è la riposta? L’indagine sulle risposte a queste
domande è un’indagine filosofica.
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Questo fa la filosofia del diritto: pone domande e risposte sul senso dei vari diritti. La
filosofia del diritto fornisce un’orientamento di senso, non chiarisce un determinato
settore, ma propone un approccio personale alla materia del diritto, ovvero
filosofico, critico, orientato al senso del carattere giuridico.
Tuttavia, vi sono risposte che l’analisi giuridica non è neanche in grado di elaborare,
ovvero la consuetudine, che viene giustificata attraverso la formula latina: “opinio
iuris ac necessitatis”; convinzione che un dato comportamento sia giusto ed
obbligatorio. Si tratta perciò, del comportamento costante e uniforme da parte dei
cittadini quale frutto di un convincimento che tale comportamento sia giuridicamente
dovuto.
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ordine con grande lucidità adducendo la propria innocenza rispetto all’olocausto. Il
primo capitolo si intitola “la corte”, il secondo “l’imputato”, poi vi è “vincitori e
vinti”.
Nell’esercizio della forza fisica D’Agostino aiuta a distinguere tra mera forza e
violenza. La violenza è una forza esercitata fuori misura, oltre misura; infatti, quando
sta in certe misure è compatibile con la legalità. Se c’è proporzione tra difesa e offesa
allora la forza esercitata è legittima, e compatibile con l’ordinamento giuridico (la
vendetta non è mai contemplata all’interno dell’ordinamento giuridico). La legittima
difesa deve essere proporzionata all’offesa. Dunque, se intervengo in aiuto altrui
moralmente mi sostituisco allo Stato, poiché in questi casi difendo gli interessi altrui.
Quando la forza fisica è rispettosa dei limiti che la legge impone questa è
astrattamente compatibile. La forza di per sé non è incompatibile con il diritto.
Infatti si parla di atto avente forza di legge: ci sono provvedimenti che hanno forza di
legge.
Si parla ad esempio di esecuzione forzata, in cui si ricorre alla forza.
L’ordinamento giuridico ricorre alla forza per far valere le proprie posizioni.
Non a caso l’iconografia classica della dea della giustizia è caratterizzata dalla
benda, dalla bilancia e dalla spada: la benda è il simbolo della cecità, la bilancia è il
simbolo materiale dell’equilibrio, la spada è il simbolo della forza.
Quando la forza fisica è esercitata oltre i limiti stabiliti dalle regole o in assenza di
regole allora non si chiama più forza perché si tratta di una forza illegittima, ovvero di
violenza. Sul piano giuridico la violenza diventa l’antitesi del diritto, se c’è diritto non
c’è violenza, se non c’è diritto c’è violenza.
La forza è compatibile e strumento giuridico mentre la violenza è sregolata.
Questo capitolo un capitolo riflette, una volta chiarita la differenza tra forza e
violenza, sulla non violenza.
La prima forma di obiezione di coscienza è proprio il pacifismo (incompatibile con la
leva militare e il ricorso alle armi). La non violenza si è sviluppata soprattutto in
oriente, basti pensare a Mahatma Gandhi. D’Agostino presenta la non violenza di
Gandhi: si considera la resistenza passiva alla violenza anche a costo di subire danni,
o addirittura la morte pur di non far pagare con la stessa moneta la violenza subita.
René Girard è un intellettuale che ha dedicato i suoi studi di antropologia proprio al
tema della violenza presentando una lettura tutta sua. Il cuore della sua dottrina è il
capro espiatorio: tutte le comunità umane arrivano al punto di saturazione e hanno
bisogno di sfogarsi, attraverso la violenza. Egli ricostruisce la storia di tutte le civiltà e
fa ritentare in questa dottrina anche la morte di cristo.
Perciò, in una realtà in cui le comunità umane sono caratterizzate dalla presenza della
violenza è sorprendente la dottrina di Gandhi, che si oppone anche all’evidenza storica
con una strategia totalmente diversa: non si deve in alcun modo rispondere. Con modi
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completamente nuovi Gandhi si è trovato ad ottenere quello che sembrava
impossibile. Poi come sappiamo la storia dell’India ha avuto un epilogo totalmente
diverso rispetto a quello sperato da Gandhi.
D’Agostino in questo capitolo propone di considerare il diritto come la forma
occidentale della non violenza; la dottrina di Gandhi colloca la non violenza come
strategia. Egli ritiene caratteristico un progetto di non violenza legato al diritto; la
nostra non violenza può essere definita il diritto: la nostra capacità di sublimare il
conflitto che può andare verso la violenza e la lotta in un processo (la lite sottoposta al
giudice; ad esempio la litisconsorzio).
Lo stesso linguaggio del conflitto ritorna nella semiotica processuale.
La violenza è connaturata nella natura umana e Gandhi ha risposto con la dottrina
etico religiosa della non violenza; in Occidente dottrina molto più antica di quella
orientale è il diritto, e se questo non basta istituiamo anche il processo, ovvero la
sublimazione della lite in un procedimento, per cui il conflitto viene emesso nelle
mani di un terzo imparziale alle cui decisioni ci atterremo.
Giusnaturalismo e giuspositivismo
I giusnaturalisti sono dualisti, non monisti. Questa dimensione naturale del diritto
non è esclusiva, non assorbe tutti gli ambiti del diritto, non esaurisce l’esperienza della
giuridicità e ha la necessità di integrarsi con il giuspositivismo. L’esperienza giuridica
si distingue in diritto naturale e diritto positivo, che formalizza il diritto naturale,
che non è scritto (è opponibile in quanto scritto).
È vantaggioso avere regole scritte, pubbliche, conoscibili da tutti perché porta alla
consapevolezza delle regole legali che rende inescusabile la loro ignoranza.
Si fa riferimento ad esempio all’Art.5 del codice penale, con annessa dichiarazione
della corte costituzionale, che afferma che esistono delitti naturali di cui nessuno può
ignorare l’esistenza, come ad esempio l’omicidio, di cui si potrebbe ignorare l’articolo
del codice penale ma non la sua natura perseguibile, o come ad esempio il furto,
delitto minore rispetto all’omicidio ma altrettanto naturale in quanto io immagino che
non si tratti di una res nullius (soprattutto se si tratta di oggetti artificiali, prodotti da
qualcuno e quindi comprati da qualcuno).
L’Art.27 della costituzione afferma che la responsabilità penale è personale. La
volontarietà rende personale la condotta. Il nostro ordinamento rifiuta la responsabilità
oggettiva.
I giuspositivisti sono monisti, prevedono un’identificazione tra ius e lex.“Tutto il
diritto è legge. Tutta la legge è diritto”. Dunque, è la stessa dualità di livelli che rende
possibile l’obiezione di coscienza (D’Agostino, capitolo sull’obiezione di coscienza).
L’obiettore obietta la legge in nome del diritto; detto così il diritto è molto fragile dal
punto di vista teoretico.
Nelle correnti dottrinali se ne inseriscono altre. Il giusrealismo è una sottocategoria di
giuspositivismo però più sofisticata. Il giusrealismo che pur si muove in una cornice
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giuspositivista si distingue in uno scandinavo (Karl Olivecrona) e uno
nordamericano (Holmes).
Olivecrona sostiene che il diritto è l’insieme delle norme osservate dai consociati.
Holmes sostiene che il diritto non è ciò che fa la gente ma ciò che i giudici decidono;
qualunque regola se non precipita in giudizio non ha una presa giuridica sulla società.
(Mancano pezzi)
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Siamo all’interno della dialettica tra la visione positivista e quella giusnaturalista.
Cotta si orienta verso posizioni naturaliste criticando il positivismo, soprattutto
quello più rigoroso. Sono importanti i riferimenti a Kant ed Hegel. Se Cotta si muove
in un orizzonte naturalistico è interessante cosa intende per naturale: nella sua
matrice latina “natura” è un participio futuro neutro plurale da nascor (le cose che
stanno nascendo); non è l’indicatore di qualcosa di statico.
Una delle principali critiche è quella del fissismo: il diritto non è statico e quindi non
può esistere il diritto naturale. Si tratta di una critica che misconosce il significato di
natura, che non è qualcosa di statico ma deriva dal participio futuro e indica dunque
dinamicità; però non nega la presenza di principi fissi (Antigone).
Cotta non affronta il concetto di natura e naturale dal punto di vista etimologico
(pagina 29, prime sei righe cruciali): per lui riflettere sul diritto è riflettere su
questa divaricazione tra giuridicità e volontà umana.
Per Cotta naturale orienta verso una sorta di oggettività, di consistenza, di
insindacabilità; mentre artificiale tiene in conto l’arbitrio (un bivio in cui vi è una
scelta ragionevole). Questa scelta diventa ingiustificabile, arbitraria, non di facere
iustum perché la giustizia l’abbiamo abbandonata nel momento in cui abbiamo scelto
la via non ragionevole; si lascia alle spalle il giustificabile.
Kelsen che si muove in maniera opposta, in un suo passo dice che “il diritto può
avere qualsiasi contenuto” (1932: trova il sistema teorico di giustificazione delle
leggi razziali, nonostante fosse una vittima). Il diritto è un atto di posizione e
imposizione, e può essere arbitrario: l’arbitraria volontà di un despota può stabilire
qualsiasi regola ai consociati che devono obbedire (Creonte) a prescindere dal fatto
che sembrino ragionevoli o meno.
Per Aristotele tra giustizia e verità, tra ingiustizia e falsità, esiste un collegamento: il
vero è argomentabile razionalmente e quindi è convincente (giustifica in base alla
verità); quando seguo l’arbitrario sono sulla via dell’irragionevole, dell’indifendibile,
e quindi del falso (non ci sono argomenti, risposte, tranne la violenza).
Il diritto è un meccanismo di razionalizzazione delle controversie, di sostituzione della
violenza con il dialogo. Per Cotta diritto e potere non sono in continuità: il diritto
arbitrario non è giusto e non impone obbedienza.
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e morte di Edipo, ma la decisione su Antigone per emettere un verdetto diverso. In
entrambi i casi Creonte li caccia e quando si passa alle offese personali non si usa più
la ragione nel rapporto. La violenza è un’alternativa, eticamente e giuridicamente
inaccettabile, alla ragione. L’interruzione del dialogo è un’altra maniera di venir meno
alla ragionevolezza (quella di Creonte).
I cinque presupposti della retorica vengono chiesti all’esame.
Il quinto presupposto della retorica è l’etica. Vi è un parallelismo tra la dimensione
aletica (che tende alla verità) e giuridica.
La verità processuale è quella sfaccettatura della verità che si può arrivare a conoscere
attraverso il processo civile e penale.
Giuseppe Capograssi sosteneva che la verità processuale non è verità tout court ma è
pur sempre verità. La verità tout court nella sua pienezza forse la conosce dio.
Dunque, si tratta di una sfaccettatura della verità, quella processuale, per come si può
conoscere con il processo. Non significa che ci siano tante verità ma tante
sfaccettature (come se fosse un poliedro).
Ciascun avvocato ad esempio ha il vincolo di verità: se lo viola va incontro a
conseguenze disciplinari (dovere giuridico e tautologico).
Nel discorso di Cotta sull’ incompatibilità tra un esercizio arbitrario e uno ragionevole
c’entra questo crinale (evidente nella tragedia di Antigone e Creonte: nel conflitto tra i
decreti contingenti degli uomini e degli dei devono prevale quelli degli dei).
Un potere è esercitato in modo arbitrario quando non si ha un argomento di ragione
(abuso di potere) (es. G8: uccisione di un giovane da parte di un carabiniere ausiliare;
bisogna capire se l’uso della violenza è legittimo, alla fine venne giudicato tale).
Diversamente quando vi è la giustificazione di comportamenti criminali il
comportamento diventa ragionevole e non arbitrario.
Si tratta di casi in cui a fronte di manifestazioni di violenza la reazione di chi esercita
il potere può essere abusiva ed eccedere i limiti. Giustizia, legalità e razionalità si
richiamano tra di loro.
Guido Fassò ha scritto la prima enciclopedia della filosofia del diritto completa. “La
legge della ragione” di Guido Fassò: prospettiva sulla razionalità dell’esperienza
giuridica; è difficile trovare studiosi che sostengano la giustificazione di diritti
irrazionali.
Si tratta di un’obiezione importante a Kelsen che dice che il diritto fosse avere ogni
contenuto: egli si sofferma sull’aspetto teorico. Il vero problema diventa non la
giustizia ma la validità. Per Kelsen la giustizia è un ideale irrazionale (chiave
empirica), non sembra ricadere tra i fatti di cui uno scienziato si può avvalere (la
giustizia giuridica è razionale). Per Kelsen il diritto per essere razionale deve essere
caratterizzato da validità non da giustizia; per questo il diritto può avere qualsiasi
contenuto, anche irrazionale. La validità è data dal fatto che sia in vigore, sia posta da
un’autorità; si tratta di requisiti formali, quindi a livello contenutistico se rispetta
queste caratteristiche allora è valida.
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Il giusrealismo rientra nel giuspositivismo: nel giuspositivismo ci si attiene ai fatti
empirici (la norma scritta); nel giusrealismo le norme scritte sono tante e quindi sono
quelle che sono seguite e che hanno valore.
Una delle grandi critiche a Kelsen: quando si dice che una norma per essere valida
deve essere promulgata da un’autorità come il parlamento stiamo praticando un rinvio
alla costituzione, ma chi attribuisce autorità alla costituzione? La validità non è mai
definita in questo modo. In che senso è vincolante la norma che costituisce il
parlamento come autorità? Ci vuole un’ulteriore norma che dica che la costituzione ha
potere costituente, tuttavia andrà a sua volta fondata.
Kelsen immagina l’intero ordinamento giuridico come una struttura a gradi. Sopra la
costituzione a chiusura vi è la grund norm (dal tedesco), ovvero la norma
fondamentale. Kelsen alla fine della sua vita ha provato a chiarire cosa sia la norma
fondamentale. Nella prima parte la definisce come necessità logica: una norma prima
di qualunque contenuto ma che può essere solo pensata e che non è scritta perché
sennò rimanderebbe ad un’altra norma. Verso la fine della sua vita si rese conte che
questa necessità logica era un po’ astratta e non convincente per spiegare e riconobbe
che si tratta di una finzione: questo è un problema perché rende l’intera costruzione
improbabile per quanto stimolante sia il suo punto di vista. I seguaci di Kelsen hanno
cercato di dare definizioni diverse, come ad esempio che si tratti di un fatto storico da
cui deriva il nuovo ordine (la rivoluzione francese è la base della repubblica francese;
il referendum parlamentare è la base della repubblica italiana).
Hume è un filosofo del ‘700 che in un passo del trattato sulla natura umana ammette
che non c’è un passaggio dall’essere al dover essere, non c’è continuità. Dedurre
norme dai fatti richiede giustificazione che Hume non trova. La legge di Hume è
importante per l’esame. Dalla sua legge deriva la fallacia naturalistica: passare dalla
sfera giuridica a quella scientifica.
Il giusnaturalismo scommette tutto sulla giustizia. Il giuspositivista sostituisce l’ideale
di giustizia che per i giusnaturalisti va assegnato al diritto con la validità.
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approva la norma vanno le persone che vado io. Una soluzione razionalmente tentata
al paradosso è proprio il dire che non si tratti di due soggetti estranei: c’è una
circolarità e identificazione tra autorità e popolazione; allora per Kant a quel punto
sono davvero libero.
Si tratta secondo Sartea di una tesi astratta perché spesso ci sono norme che
contraddicono il nostro pensiero.
L’altro modo di sciogliere il paradosso è quello di ricorrere alla forza: tu obbedisci
perché se non lo fai ti posso costringere a farlo, e se continui devi pagare una
sanzione. Questo può diventare un abuso di potere. Tuttavia, la naturalità è evidenza
del contenuto ragionevole di una norma; se è di senso comune allora la ragionevolezza
della norma è evidente.
La forma del diritto non basta perché se fosse solo forma questo paradosso non si
potrebbe sciogliere in maniera convincente. Il discorso giuridico trapassa gli ambiti
legali ed entra anche in quelli morali. La convergenza sul contenuto implica che
siamo sostanzialmente d’accordo; da qui nasce l’obbedienza alle regole in quanto la
mia autonomia aderisce a quella del legislatore. Questo all’estremo porta ad un
problema: aderire solo alle norme con cui sono d’accordo. La ragionevolezza è il
punto discriminante non la piacevolezza.
Cotta fa appello ad una sorta di universalità della ragione e che quindi sui contenuti
ci si possa trovare in maniera universalistica (sfumatura kantiana).
Il diritto
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3. La pretesa di correttezza: si tratta di un omaggio all’ancoraggio sostanziale (non
c’è nessun ordinamento giuridico che nel suo complesso e nelle singole norme
non avanzi una pretesa di correttezza).
“Remota iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?”: messa da parte la giustizia
(rimossa la pretesa di giustizia), che cosa sono i regni se non grandi bande di ladri?
(“De civitate dei”, Sant’Agostino). Una magistratura corrotta in modo generalizzato è
ancora una magistratura? La pretesa di correttezza o la giustizia fa parte del
concetto di diritto valido oppure no? Per quanto efficace sia il potere esercitato
dittatorialmente, dittatura rimane; non basta l’aspetto quantitativo per definire un
regno.
La semantica della giustizia si collega alla semantica dell’appropriatezza, della
commisurazione (Art.133 codice penale).
Vi sono inoltre due tesi riguardo la nascita dei totalitarismi: la prima vera anche
storicamente che pone il giuspositivismo come causa, la seconda vera in teoria che
pone il giusnaturalismo come causa in quanto può succede che si arrivi anche così
(astratta).
La tesi di Anna Arendt è che il totalitarismo è un fenomeno totalmente nuovo.
Le due tesi presenti affermano che sia il giuspositivismo sia il giusnaturalismo
possono prestare il fianco ai totalitarismi: nel giuspositivismo innerviamo di
significato morale l’ordinamento giuridico (“diritto e morale” di D’Agostino); mentre
il giusnaturalismo tiene ben separate le due parti (la morale).
Dall’epoca del tardo impero fino a tutto il rinascimento l’Europa è caratterizzata da
una certa uniformità culturale e spirituale. Che cosa ha garantito una sostanziale
uniformità in Europa? Il cristianesimo, la religione.
L’inizio della fine di questo periodo infatti è il 1517.
Nel 1517 avviene l’affissione sulla chiesa che amministrava delle tesi di Lutero, che
sono eretiche dal punto di vista cattolico e che aprono alla scisma di Occidente.
Lo scisma d’Oriente è la rottura tra Costantinopoli e Roma: già avvenuta precedente.
Da questo punto, con lo scisma di Occidente non si può più parlare di unione religiosa
e morale (crisi di uniformità) e non si possono invocare valori comuni alla base di un
ordinamento giuridico. Tutti erano più o meno credenti e piano piano si afferma una
sincronia (il Leviatano di Hobbes del 1651: “auctoritas non veritas facit legem”).
Dunque, il giusnaturalismo perde terreno a favore del giuspositivismo man mano che
avanza questa crisi di uniformità in contesto europeo.
Anche il giusnaturalismo può diventare vettore di totalitarismo tutte le volte in cui un
gruppo che domina (dal punto di vista economico, politico, sociale o fisico) riesce ad
impossessarsi del potere (nazionalsocialismo) e pretende di innervare l’ordinamento
giuridico di valori ideologicamente orientati (come ad esempio la superiorità della
razza ariana). In questo senso anche il giusnaturalismo non ci garantisce contro i
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totalitarismi perché il rischio che invece che una morale naturale e una riflessione
sulla natura umana con significati giuridici si verifichi l’imposizione di un’ideologia è
possibile.
L’ideologia
“Il sorgere del diritto nella coscienza”: capitolo III, cruciale, del libro di Cotta
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L’ontologia è l’analisi filosofica che studia e riflette sull’essere (dell’uomo e del
diritto; aspetto metafisico) (logos o sistema di logoi che analizza l’ontos). Si tratta
della capacità di andare oltre l’apparenza delle cose e comprenderne l’essenza.
La fenomenologia è l’analisi filosofica che studia e riflettere sul fenomeno. Il
fondatore della fenomenologia è Husserl, matematico austriaco, studioso di scienze
esatte, della psicologia; egli fonda questa disciplina con un famoso motto, ovvero
“torniamo alle cose stesse”. Egli suggerisce metodologicamente di tornare alle cose
stesse che ci parlano tramite i fenomeni.
Cotta quindi individua un metodo che da una parte vede una sensibilità marcata
classica verso l’essenza e dall’altra una moderna sensibilità verso il fenomeno, il
ritorno alle cose.
Cotta conclude che l’essere umano trae esistenze esistenziali, dei bisogni; lo spirito
unito al corpo gli fa vedere come prioritari:
• il bisogno di sicurezza che ha a che fare con la precarietà delle cose;
• il bisogno di cooperazione (di relazionarsi);
• il bisogno di durata.
Egli riflettendo sulle caratteristiche dell’uomo arriva al fenomeno giuridico.
Se guardo come si manifesta anche nella storia, noto che: il bisogno di sicurezza è da
sempre soddisfatto sul versante giuridico dalle norme, dal diritto penale; il bisogno di
cooperazione è soddisfatto da provvedimenti che ratificano legami che altrimenti
sarebbero precari e occasionali, come il diritto di famiglia (il diritto dà struttura e
stabilità); il bisogno di durata è soddisfatto dal diritto successorio che fa sopravvivere
la persona attraverso ad esempio il testamento.
Dalle istanze ontologiche e fenomenologiche dell’essere umano si giunge a quelle del
diritto. Ciò che resta è la portata originale per il dibattito giusfilosofico di unire il
pensiero classico metafisico e il pensiero moderno.
Cotta osserva che nella vita degli individui il movimento viene definito
genericamente come azione, movimento intenzionale o intenzionato. L’azione
normalmente viene stimolata da un bisogno; in principio è il bisogno. Questo ha un
radicamento ontologico molto profondo. Cotta elabora e fornisce una serie di
espressioni sulla categoria umana dell’indigenza (la mancanza di qualcosa): tutti gli
uomini sono indigenti perché l’uomo è costantemente consapevole di essere
incompiuto, contingente.
Dunque, accanto alle caratteristiche positive dell’uomo c’è questa negativa
dell’indigenza che viene fuori nella riflessione filosofica; queste mancanze sono il
motivo del nostro metterci in azione, del movimento. Infatti, se non fosse così
riposeremmo nella nostra compiutezza. L’indigenza è la spiegazione della nostra
stessa vita in quanto ci mette un movimento.
Ciascuna di queste azioni ha di mira un obiettivo, un bene perseguito come scopo
dell’azione che mira a colmare un’indigenza.
Dall’azione percepisco un livello importantissimo, ovvero che ci sono altri soggetti
che muovono verso gli stessi oggetti per soddisfare bisogni analoghi; si tratta di
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soggetti pari a noi (a livello fenomenologico mostrano una somiglianza testimoniata
dalle azioni), e questa parità giunge poi all’uguaglianza (per Aristotele la giustizia è il
rispetto dell’uguaglianza).
Il soggetto umano sente che il bene di cui ha bisogno per colmare l’indigenza è un suo
diritto (non deciso dall’uomo stesso), inteso in senso soggettivo. Appena mi accorgo
che l’avanzare di pretese è condiviso da altri soggetti constato che la loro
rivendicazione che colmerà la loro lacuna è altrettanto legittima.
Stanti così le cose siamo in grado, in quanto soggetti caratterizzati da parità, di
cogliere la possibilità di esistenza di una regola comune e l’obbligo di aderire ad essa.
Dunque, ridimensiono il mio diritto soggettivo all’interno delle forme del diritto
oggettivo e comprendo le ragioni della regola comune da tutti accettata ed obbedita.
Il mondo
Si tratta di una parola polisemica: aspetto astrofisico, aspetto filosofico. Dal punto di
vista filosofico penso al mio mondo, come realtà domestica che io abito: ha una
flessione affettuosa (questione ecologica) ed affettiva in quanto si fa riferimento alla
casa anche se quando si pensa ad essa si pensa ad una sfera chiusa ed intima. Il mondo
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è l’esterno per eccellenza che però mi appartiene e a cui appartengo, con cui ci sono
relazioni importanti e a cui dobbiamo tutto; infatti si avvicina alla concezione di
mondo umano.
Il mondo in Kant è inteso come totalità delle cose esistenti, che hanno un’attitudine ad
essere riconosciute dall’uomo. Nella “critica della ragion pratica” vi sono le idee a
priori che guidano la moralità: la libertà individuale, il mondo e dio; tre categorie non
dimostrabili razionalmente. Questa libertà, queste decisioni hanno un contesto che è
quello della totalità delle cose esistenti. Questo concetto di mondo è importante perché
Cotta ci fa molto riferimento.
In particolare a partire dal concetto novecentesco di mondo.
Nella fenomenologia di Husserl e anche nella declinazione esistenzialista che prende
corpo con Heidegger (allievo di Husserl), in cui la parola mondo (“welt”) viene fuori
spesso. In particolare Heidegger in uno scritto sulla metafisica spiega che la
differenza tra gli animali e gli uomini è data dal rapporto con il mondo (citato da
Cotta), in quanto gli animali sono poveri di mondo (paragonato agli uomini) e gli
uomini (animali umani) sono ricchi di mondo (hanno un mondo, come dice Kant).
Gli uomini sono in grado di adattarsi attraverso la ragione che porta alla tecnica la
quale a sua volta deriva dal mondo (da qui l’uomo è ricco di mondo; l’animale non è
consapevole di questo rapporto con il mondo attraverso la tecnica) (noi in quanto
consapevoli di questa relazione con il mondo siamo in grado di metterlo in crisi:
inquinamento; si tratta dell’ambivalenza umana, costruttiva e distruttiva):
l’adattamento non è dal punto di vista dell’organismo ma della tecnica (l’organismo è
ciò che condividiamo con gli animali). L’uomo sa intrattenere un rapporto con il
mondo diverso a seconda delle condizioni. La storia dell’uomo dunque non è altro che
la risposta (non sempre migliore) dell’uomo alle sfide attraverso l’adattamento e
quindi la tecnica (pezzi di realtà che sappiamo manipolare). Anche se in natura l’uomo
è dotato di meno possibilità e caratteristiche fisiche forti (inferiore in termini di
potenza) in confronto agli animali, ha la ragione (la capacità di manipolare la realtà
attraverso la tecnica) che lo distingue dagli stessi.
Infatti, nel mito di Prometeo l’uomo viene dotato del fuoco della ragione
(simbolicamente) che lo distingue proprio dagli animali, che sono passivi nei riguardi
del mondo e sono costretti ad adattarsi per non morire. Dal punto di vista operativo il
fuoco serve per lavorare i materiali, quindi da qui l’interpretazione simbolica della
ragione come tecnica (manipolazione materiale).
Questa idea di mondo di Heidegger serve a distinguere l’uomo dall’animale.
Invece, il secondo livello riguarda il mondo come fatto di relazioni; il nostro essere
nel mondo, osserva Cotta evocando Heidegger, come totalità del mondo umano è al
tempo stesso irreversibilmente e costantemente un “esserci con” (“Mit- dasein”)
gli altri, pari a noi. La parità degli altri si scopre lungo il percorso a partire dall’azione.
Nella mia pretesa di appropriarmi dei bisogni che soddisfano la mia indigenza, in
questo movimento dell’azione scopro che ci sono altri movimenti sollecitati da
bisogni identici e sostenuti dalla stessa pretesa e dallo stesso atteggiamento
rivendicativo in quanto io ho diritto a quel bene tanto quanto gli altri (diritto
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soggettivo): si tratta secondo Cotta di una via di accertamento della parità ontologica;
più che dimostrazione filosofica è un percorso esperienziale.
Il nostro essere con gli altri è certificato dalla nostra stessa struttura, persino biologica
in quanto non ci siamo dati la vita da soli: dipendiamo da una coppia di sesso diverso
la cui unione è stata necessaria per la vita, e la cui unione genetica portiamo in ogni
cellula del nostro corpo; deriva dallo stare con dei due soggetti (una coppia).
Secondo Cotta per questo tendiamo a relazionarci con gli altri (non solo nella sfera
affettiva e sessuale), a partire dal fatto che nel momento in cui agiamo tendiamo a
relazionarci con altri soggetti che agiscono a loro volta spinti dagli stessi bisogni: il
diritto si focalizza perciò sulle relazioni intersoggettive. Il sorgere del diritto nella
coscienza secondo Cotta dipende dalla constatazione della pluralità di individui
ontologicamente pari e dalla progressiva verifica che essi hanno gli stessi obiettivi, le
stesse pretese e che, essendo dotati di intelletto che li rende in grado di elaborare in
termini di pretesa lo stesso diritto soggettivo verso un bene, sono in grado di
comprendere e accettare una regola comune; l’intero percorso riflette l’itinerario dal
diritto soggettivo (pretesa) al diritto oggettivo (coordinamento, tessuto in cui
organizziamo l’esistenza). Questo è un tentativo di reperire un fondamento non
ideologico, ma ontofenomenologico al diritto naturale, alla naturale giuridicità degli
essere umani; non sta facendo riferimento ad una dottrina religiosa, ad una
determinata morale (non si parla di giustizia o di dio). Cotta cerca di fare un’ipotesi di
astrazione genealogica del diritto oggettivo. Non è una proposta ideologica,
condizionata da un’appartenenza morale, e quindi va presa sul serio.
Si tratta di un primo elemento importante sulla relazione per la vita dell’individuo
dalla genetica.
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con le cose in quanto, quando non tratto l’altro come una cosa e non lo reifico,
posso soddisfare ancora di più i bisogni profondi dell’uomo che non ho altro modo
di soddisfare se non trattando l’uomo come alter ego (amicizia, amore). È
paradossale perché la ricerca di compiutezza può sembrare egoistica, eppure è solo
rinunciando all’egoismo, trattando l’altro per se stesso e non per me stesso, che io
compio anche me stesso.
• La particolarità: riguarda il rapporto con gli altri poiché mi accorgo che nella
mia persona non si esaurisce la personalità umana, mi accorgo della presenza di
altre persone. Sono un caso particolare dell’umanità; ne faccio parte ma non in via
esclusiva. Questo ridimensiona moltissimo le mie pretese e ha a che fare con la
finitezza. Sono finito sia perché sono incompiuto sia perché sono particolare. Il
mondo che mi circonda è estremamente affollato e io sono un caso particolare. Se
io scomparissi per alcuni sarebbe una tragedia ma per la maggior parte delle
persone non cambierebbe nulla (indifferenza per l’umanità, il mondo continua il
suo corso). Però, vale anche il contrario, nel senso di chi salva l’uomo salva
l’umanità stessa (Schindler’s list) (quell’individuo è l’umanità stessa).
• La contingenza: riguarda il rapporto con il tempo poiché il mondo vive nel
tempo. Kant nella “ragion pura” pone lo spazio e il tempo come categorie a priori
della conoscenza. Per Cotta il nostro essere posti nel tempo ci cataloga come
contingenti. Infatti, in una certa epoca del tempo degli uomini quell’uomo non
esisteva, poi in una certa epoca quell’uomo non esisterà più (sarà destinato a finire:
cessazione irreversibile delle attività cerebrali) (siamo soggetti al tempo).
Questo apre due linee del ragionamento di Cotta.
La prima è quella del paradosso, ovvero la sintesi, in quanto nonostante la finitezza
dell’uomo egli ha sempre avuto in sé il concetto di infinito (riesce a pensarlo nella
matematica, nella religione, nella filosofia). L’afflato religioso dell’uomo testimonia la
capacità di elaborare categorie che vanno oltre la finitezza, la contingenza. Si può
sciogliere il paradosso immaginando di definire l’uomo come sintesi tra finito e
infinito. Si tratta di un tema carico alla filosofia sin dai tempi dei classici greci.
La seconda, più importante per lo studio del diritto è quella delle esigenze esistenziali.
L’esistenza di queste caratteristiche legate alla finitezza attiva le cosiddette da Cotta
esigenze esistenziali: c’è una corrispondenza tra queste tre manifestazioni della
finitezza e le tre esigenze esistenziali, che hanno direttamente a che fare con
l’esperienza giuridica. L’esigenza centrale a cui il diritto cerca di dare risposta è quella
di liberare la relazionalità (importante per l’uomo) dalla sua contraddittoria possibilità
negativa in quanto le relazioni tra gli uomini possono essere costruttive ma anche
distruttive. Si può ottenere la liberazione della relazione dal rischio di essere
distruttiva attraverso lo strumento del diritto (ma non è l’unico), per quanto riguarda la
dimensione esteriore delle relazioni; in quanto possiamo assicurarci la sicurezza, la
cooperazione (esempio: il diritto penale fa sì che le relazioni con gli altri non siano
pericolose; il diritto civile rafforza lo spirito cooperativo e dà rigore alla positività
delle relazioni nell’ambito dell’impresa, della famiglia, delle associazioni) e persino la
durata (esempio: il diritto successorio garantisce continuità tra i patrimoni e regola la
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volontà dei morti) (capacità di sfidare il tempo: sopravvivenza data dal ricordo).
Dunque, si manifesta una risposta efficace a queste esigenze esistenziali.
Le forme coesistenziali
Spesso chiesto all’esame in quanto importante sia dal punto di vista teorico sia
pratico.
L’uomo si trova calato a prescindere dalle sue scelte in un mondo da cui può saltare
fuori sia metaforicamente, attraverso il rifiuto delle relazioni, sia fisicamente,
attraverso la morte. Il suicidio è una tematica meditata come un tema di
psicopatologia, che tenta di alleviare il peso di una decisione distruttiva. Dostoevskij
in “demoni” ipotizza una libertà assoluta e quindi l’assenza di condizionamenti e
situazioni esterne che possono portare l’uomo al suicidio (nichilismo). Infatti,
Aristotele nell’Etica nicomachea spiega che il suicidio è ingiusto e lo considera
inaccettabile in quanto non si tratta di ingiustizia nei confronti di se stessi ma nei
confronti degli altri, della polis: noi come animali politici apparteniamo alla polis che
si è presa cura della nostra vita (in maniera metaforica) e se esercitiamo così la nostra
libertà danneggiamo non solo noi stessi ma anche la polis, chi ci circonda ed è legato a
noi, ma non necessariamente dipendente da noi.
Il monaco dedica tutto se stesso a dio; la sua unica relazione intrapresa è proprio
quella con dio. Per questo motivo non si tratta di un’uscita dal mondo perché non
sacrifica la dimensione relazionale.
Cosa succede ad un uomo che fa una scelta radicalmente anti relazionale? In “into the
wild” si presenta la scelta come provocatoria, positiva. La tesi antropologia è quella di
Sergio Cotta: più cerchiamo di uscire dall’acqua in cui l’umanità nuota più ne
sentiamo il bisogno e più ne siamo immersi. “La felicità è vera solo quando è
condivisa”: esiste solo in quanto condivisa, nelle relazioni autenticamente vissute; a
questa finalizzazione nessuno di noi si può sottrarre. Si tratta dell’anelito verso la
pienezza, la felicità, che porta il movimento, il quale dunque nasce proprio da una
mancanza. Anche i tentativi metaforici di fuoriuscire dal mondo sono fallaci e
fuorvianti, non sono legittimi dal punto di vista antropologico.
La condizione relazionale è connaturata e fondamentale per capire l’individuo e per
capire in che senso la giuridicità è caratteristica essenziale delle categorie umane.
Cotta dunque a partire da qui definisce le forme coesistenziali.
Pindaro in una famosa ode usa il moto “diventa ciò che sei”: rivolgendosi al
mecenate dei giochi lo esorta con quest’espressione filosoficamente densa; può
sembrare contraddittorio però ci rendiamo conto che diventare qualche cosa che non
siamo è impossibile (ad esempio il bambino imparerà il linguaggio se io parlo con lui
perché è predisposto all’apprendimento nella fase dell’infanzia; se io credo che possa
diventare uomo lo diventa poiché già lo è dal punto di vista metafisico). Descrive
anche il senso delle regole: se una norma morale o giuridica mi obbligasse a fare
qualcosa che non posso fare o mi vietasse di fare qualcosa che non posso fare potrei
sottrarmi alla stessa (si entrerebbe nel piano dell’assurdo) (ad esempio volare). Si può
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proibire o comandare azione che l’essere umano è capace di compiere. La dimensione
normativa si lega alla libertà dell’uomo e alla sua effettiva possibilità di azione.
Siamo tutti coinvolti in questo imperativo secondo Cotta. Questo costante agire degli
uomini, mossi dall’imperativo verso gli obiettivi, avviene nella coesistenza. Cotta
individua sei forme coesistenziali in relazione a ciascuna delle quali rimarca quattro
elementi strutturali:
1. L’ambito di estensione;
2. Il principio costitutivo;
3. La direzione del moto integrativo: importante poiché interviene come
spartiacque tra le forme coesistenziali (sono i modi di vita, le esperienze positive
di questa coesistenzialità). Aiuta a comprendere forme integrative escludenti
(principio costitutivo e regolativo di ciascuna forma): l’amicizia (reciprocità), la
politica (i confini sono porosi), la famiglia (dualità coniugale nel piano
orizzontale e genitorialità nel piano verticale); le forme integrative includenti: il
gioco (attività umana ancestrale; simulazione della vita che implica pluralità) (il
gioco esiste per il sistema di regole, e per l’accettazione delle stesse; il principio
regolativo va oltre le semplici regole, nel comportamento), il diritto (se si
identifica il diritto con l’ordinamento, e l’ordinamento con lo Stato, subordiniamo
il giuridico al politico e non cogliamo l’aspetto inclusivo; si va oltre i limiti
nazionali e i vincoli politici pur rimanendo nel diritto) (il diritto è integrativo in
quanto disciplina i legami ma è includente in quanto ha una vocazione aperta) (per
Kant il diritto gode di un’apertura all’universale; proprio l’universale conferma la
giuridicità di una norma), la carità (termine della tradizione cristiana che viene
evocato anche da altre tradizioni culturali religiose);
4. Il principio regolativo.
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In questo modo di guardare al diritto, egli è giusnaturalistico perché confida
nell’esistenza di una natura umana, caratterizzata da indigenza, relazionalità che sono
permanenti. L’essenza è il modo di essere specifico di un certo ente, rimanda ad una
specie e non ad un individuo (siamo esseri umani). Tutte le cose che sono, sono enti.
Però in realtà, scavando in profondità, c’è anche un modo di essere individuale perché
ognuno di noi è un essere umano proprio. L’essenza che è un’astrazione, non è una
generalizzazione puramente teorica, ma serve per comprendere la realtà. L’essere
senzienti ci differenzia da altri enti, come quelli animali.
Questa maniera di declinare il ragionamento sull’origine ontofenomenologica del
diritto per Cotta è il suo modo di essere giusnaturalista. Lo caratterizza come
pensatore relativamente autonomo nel panorama del pensiero filosofico in quanto
propone questa nuova prospettiva, di diritto naturale ma che rimescola le carte del
giusnaturalismo classico (Aristotele, Tommaso D’Aquino) con l’apporto di correnti
filosofiche contemporanee come la fenomenologia novecentesca che innoveranno e
arricchiscono il discorso sul diritto naturale.
Del diritto naturale Cotta propone correttamente anche le critiche al diritto naturale,
ovvero alla sua dottrina giusnaturalistica.
La terza critica è il ponte ideale verso il libro di D’Agostino: critica derivante dalla
legge di Hume.
Il diritto naturale è una dottrina antichissima e quindi ha avuto molte varianti e molte
critiche; mentre, il positivismo giuridico è una prospettiva piuttosto moderna. Il diritto
naturale (φύσις) è legato alla natura dell’uomo.
Si tratta di tre grandi critiche che nella storia si sono levate contro la dottrina del
diritto naturale, ovvero l’idea che il diritto non sia soltanto una legge, la
manifestazione esterna, positiva, empirica delle norme, ma abbia un sostrato più
profondo dotato di una relativa permanenza e stabilità in quanto legato alla natura
dell’uomo.
1. La critica storicistica: si può collegare alla corrente storicistica che nel 700/800 si
diffonde nella cultura occidentale a partire da Giambattista Vico (grande filosofo
italiano che in realtà era molto più giusnaturalista di tanti altri). Si tratta di una
modalità di pensare basata sulla priorità della storia (unica cosa certa); infatti,
questa afferma che l’uomo non ha una natura ma ha una storia, per cui parlare di
natura umana è un’astrazione metafisica e va rigettata per cui quello che è
innegabile ed empirico è proprio la storia in cui l’individuo, ma anche l’umanità,
si colloca. Dunque, parlare di diritto naturale alludendo a una natura umana da cui
deriverebbe il diritto è arbitrario e illegittimo perché di una natura umana non
potremmo neanche parlare in quanto da questa non deriverebbe alcun diritto.
Questa è la prima tesi critica nei confronti del diritto naturale. Non ha senso
parlare di diritto naturale perché non ha senso parlare di natura umana. Siamo
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calati nella storia che conferma continui mutamenti e quindi la supposta natura
umana in che cosa si manifesterebbe se abbiamo solo manifestazioni specifiche,
empiriche e storiche. Sullo sfondo dello storicismo c’è un atteggiamento
sostanzialmente relativistico: non vi è nulla di stabile, di legato ad una natura
poiché la storia ci attesta continui mutamenti. Si tratta di un’affermazione
superficiale in quanto possono cambiare molte cose ma non c’è mai stata
un’epoca storica in cui ci si potesse uccidere liberamente, rimandando alla
permanenza di un livello normativo sia morale che giuridico piuttosto stringente:
non c’è nessuna cultura che contempli e annoveri l’omicidio dell’innocente (forse
nel caso delle culture con sacrifici umani, però in realtà era ad esempio la donna
vergine che costretta dalle convenzioni decideva di sacrificarsi). Quindi un nucleo
in questi mutamenti storici si potrebbe avere. Anche l’incesto (Edipo) (rapporto
sessuale tra consanguinei) non è tollerato da nessuna cultura; poi in tutte le culture
avvengono omicidi ma non significa che in quella civiltà non siano vietati
(permanenze che la storia ci attesta). Cotta invece non risponde in questo modo al
dibattito tra diritto naturale e critici. Egli infatti ritiene interessante questo
argomento ma richiede una meditazione più approfondita: che significa che
l’uomo ha una storia? Gli altri esseri viventi non hanno una storia? Per quanto ci
risulta solo l’uomo ha una storia raccontata e tramandata. Egli prende atto che
l’uomo abbia una storia ma solo la storia degli uomini è meritevole di essere
raccontata, e il fatto che sia così rimanda inesorabilmente proprio alla natura.
Il motivo per cui solo un uomo ha la storia è perché l’uomo è per natura dotato di
storia. Perciò, la critica storicistica invece che negare l’esistenza di una natura
umana la rafforza. Invece di invocare l’esistenza di regole universali nel tempo e
nello spazio come controparte di Cotta (lo farà D’Agostino contro il relativismo
culturale, affratellato allo storicismo), egli utilizza un altro argomento ontologico:
come mai solo l’uomo ha una storia? Egli ha una storia in virtù della propria
natura e proprio su quella natura costruisco l’idea di diritto naturale. Nel
contraddittorio dello storicista vince la ragione del diritto naturale.
2. La critica giuspositivistica: secondo questa il diritto naturale non esiste e tutto
quello che è diritto, giuridico, è positivizzato (“tutta la legge è diritto, tutto il
diritto è legge”: il doppio dogma che riduce la giuridicità alla legalità). Cotta è
convinto di questo, accogliendo in pieno il fatto. La positivizzazione del diritto,
l’esigenza che sia certo, spinge verso l’esaltazione del diritto positivo. La
positivizzazione della norma giuridica è una sua caratteristica essenziale. Anche in
questo dibattito Cotta non discute su questo aspetto la critica e prende sul serio
l’obiezione ma sposta la discussione su un altro livello: siamo sicuri che il diritto
naturale non sia positivizzato e negli ordinamenti giuridici non abbia nessuna
manifestazione? Per distinguere tra principi e norme arricchisce il dibattito
filosofico di questa possibilità che mette d’accordo giuspositivisti e giusnaturalisti
in quanto i primi piantano la loro bandiera sulle norme ma i giusnaturalisti hanno
la propria salvaguardia grazie ai principi che sono integralmente positivizzati nella
costituzione (non dà solo le norme positive di organizzazione) (tesi di Alexi
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costituzionalista); legittima sul piano del diritto positivo i principi e aggiunge alle
regole i principi. Le regole sono quelle disciplinate dal diritto positivo mentre i
principi contenuti nei testi costituzionali del diritto positivo sono aperti alle
circostanze, all’evoluzione, ai tempi, alle interpretazioni, e quindi aprono ad un
influsso del diritto naturale. Se non fossero principi e quindi suscettibili a
interpretazioni diverse evolutive, al tempo, sarebbe incomprensibile qualunque
modificazione in giurisprudenza (l’aborto in America nel 2022 viene negato). Fa
capire che i principi a cui la giurisprudenza costituzionale si ispira non coincidono
con le regole scritte poiché suscettibili a interpretazioni diverse. Cotta comprende
che si può correttamente parlare di diritto naturale vigente poiché il diritto
naturale non è astrazione dei filosofi ma è talmente presente nella vita che si può
parlare correttamente di diritto naturale vigente. I principi, clausole di apertura
dell’ordinamento all’influsso di criteri extra positivi, incidono sull’applicazione
delle regole. Anche l’opposizione giuspositivista inizialmente anche accolta da
Cotta viene a cadere perché nella vita del diritto pulsa un diritto naturale vigente.
3. La critica logicistica (la legge di Hume e la “fallacia naturalistica”): Hume è un
filosofo empirista scozzese del ‘700 distinto per l’antropologia filosofica e la
filosofia morale. Nel saggio “il trattato sulla natura umana” vi è un passaggio
famoso in cui egli introduce questa riflessione, divenuta poi nella vulgata
filosofica successiva legge di Hume. Egli afferma di aver letto tanti libri di
filosofia e di aver notato che gli autori iniziano utilizzando come espressione
verbale la copula “è” (modo di descrivere la realtà), però ad un certo punto gli
stessi autori smettono di usarla per usare “dover essere”. L’impercettibile
passaggio dall’essere al dover essere nel linguaggio è secondo lui importante in
quanto se ci si facesse più caso (si deve trattare di un passaggio fondato e
argomentato altrimenti risulterebbe indebito) verrebbero meno interi sistemi
filosofici. La riflessione viene lasciata lì, ma la fine fa capire che Hume era
convinto che la sua legge era fortemente corrosiva nei confronti di intere
tradizioni filosofiche perché se noi accettiamo che sul piano logico non è possibile
derivare il dover essere dall’essere, allora questo non è logicamente corretto. Se io
non posso ricavare il dover essere, ovvero le regole, le norme, doveri e diritti,
dall’essere, non si potrebbe parlare di diritto (mondo del dover essere) naturale
(mondo dell’essere). L’espressione diritto naturale è insieme mondo del dover
essere e mondo dell’essere. Dunque, l’accettazione della legge di Hume fa cascare
il sistema filosofico del giusnaturalismo. Il primo a parlare di “fallacia
naturalistica” (errore di ricavare il diritto dalla natura), derivata dalla legge di
Hume, all’inizio del XX secolo è Moore: ricavare il diritto dalla natura umana è
insostenibile per ragioni logiche. Dunque, D’Agostino non si poteva non dedicare
alla critica della legge di Hume. Come spiega D’Agostino, presa nel suo livello
minimale la legge di Hume è ineccepibile poiché non tutto ciò che è per il
semplice fatto di essere deve essere. Il salto dal descrittivo al prescrittivo non è
automatico poiché il normativo si appiattirebbe sul reale: non c’è più possibilità di
distinguere l’essere dal dover essere. È corretto negare che essere e dover essere
21
coincidano o che il dover essere si ricavi immediatamente e direttamente
dall’essere. Dunque, anche D’Agostino accoglie le buone ragioni della critica.
Grazie a questa discrasia tra essere e dover essere l’uomo elabora il giudizio
morale e il giudizio giuridico, può staccarsi dal reale e guardare in termini critici.
In partenza presuppone che essere e dover essere non coincidano (piano logico,
giuridico); però, al di là di questo valore minimale, questa legge può essere
criticata perché se è vero che essere e dover essere non coincidono (distinzione
giudizio morale e giuridico), si deve considerare che ci siano delle chiamate a
doveri comportamentali specifici che in qualche modo sono intrinseci
all’essere. Per spiegare questo concetto si avvale di Husserl, che sviluppa un
approfondimento logico della legge di Hume e la critica: si trova dentro l’essere le
radici del dover essere; fa l’esempio del guerriero che deve essere valoroso.
Attraverso una riflessione su questa espressione è possibile superare la legge di
Hume e replicare alle pretese della legge di negare qualunque derivabilità del
dover essere dall’essere, in quanto questa legge non è onnicomprensiva e non
comprende tutto l’ambito del normativo (vale per negare l’appiattimento essere e
dover essere, ma non vale per negare il fondamento del diritto naturale). Perché il
soldato deve essere coraggioso? In una prospettiva coerente con la legge di Hume
si dovrebbe dire che il soldato ha l’ordine di essere coraggioso, deve obbedire agli
ordini (dovere) fino al sacrificio della vita. Coloro che sostengono di salvare la
legge di Hume con questa frase affermano che il dovere che il soldato ha di essere
coraggioso deriva da un comando (esplicito o implicito) e non dall’essere del
soldato. Questa salvezza di Hume davanti all’affermazione del guerriero viene
adottata da Kelsen: non c’è dubbio che il soldato debba essere valoroso non per
natura, perché non c’è imperativo senza imperatore; l’imperativo (la norma
giuridica) richiede qualcuno che l’ha adottata (autorità che stabilisce i comandi). Il
positivismo infatti rispetta la legge di Hume perché tira fuori la natura umana
dall’evento giuridico e affida tutto alla volontà di un imperatore. Per Husserl però
questa spiegazione estrinseca del comando (deve ammettere che il comando
potrebbe avere natura opposta) non è soddisfacente perché immaginiamo per
assurdo che il guerriero abbia ricevuto il comando opposto, allora si andrebbe
incontro alla rovina dei soldati, dell’esercito, dell’idea stessa di esercito, del
regno; dunque, logicamente una situazione del genere non ha tenuta, non dal
punto di vista assiologico dei valori, ma della realtà, non è sostenibile. Se è una
contraddizione logica l’imperatore non può dare qualsiasi ordine, ma solo questo,
significa che quindi dipende dalla natura della relazione comandante-soldato. Ad
un soldato si può dare solo l’ordine di essere coraggioso perché in realtà ciò che
quel soldato è in quanto tale condiziona il contenuto del comando e quindi
influisce sulla norma che lo riguarda; l’essere, la natura di guerriero, influisce sul
dover essere. Ciò che deve essere, ovvero coraggioso, dipende proprio dal suo
essere, ovvero soldato. È intrinseco alla sua stessa essenza che sia valoroso.
Perciò, vi è una sopravvivenza dell’idea del diritto naturale in modo logico. È
logicamente insostenibile destinare al guerriero il comando di vigliaccheria perché
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si possono solo impartire comandi coerenti e relativi all’essere del guerriero
stesso. Lo stesso si potrebbe dire della maternità perché siamo abituati a pensare
che la madre deve accudire il figlio (è la fonte di nutrimento del bambino e lo
mette in vita). Il dovere è estrinseco o intrinseco alla natura della madre? C’è una
connessione intrinseca della maternità o estrinseca di convenzione applicata? Il
senso comune e anche il linguaggio comune danno una risposta netta: quando una
madre compie infanticidio o trascura il figlio volontariamente emerge che è una
madre snaturata, degenere, che è uscita dalla sua natura di madre facendo un gesto
che contrasta con i doveri intrinseci della madre. La prole dal punto di vista
giuridico e etico dipende dai genitori fini alla maggiore età (intrinseco alla natura
della relazione). Vincolare essere e dover essere a due sfere diverse come fa Hume
svuota il concetto. Dunque, si percepiscono logicamente nel momento della
decisione come intrinseche alla natura tutte le conseguenze normative che essa
implica (decisione di fare un figlio, decisione di fare il soldato).
Ius conditum (diritto stabilito, vigente) e ius condendum (implica un’azione da
compiere; si tratta del diritto da stabilire, che dovrebbe essere vigente ma che è
ideale). Il diritto è al tempo stesso reale e ideale (Alexi), conditum e condendum: tutte
queste cose scritte mirano ad una giustizia, il loro senso profondo è ideale di
miglioramento (non guardano al passato ma al futuro e al rendere il modo migliore).
Se le regole sono giuste e adeguate alla natura umana allora lo ius conditum porta a un
miglioramento del mondo, nel caso contrario lo ius condendum spinge
all’eliminazione dello ius conditum.
Si tratta di uno dei classici della filosofia del diritto; il tema di cui si occupa Alexi,
Radbruch e in generale la grande filosofia del diritto contemporanea è quella.
Radbruch cerca di equilibrare la specificità del giuridico e quella della morale.
La pretesa di correttezza su cui insiste Alexi è il fondamento umano del diritto che lo
giustifica e che costituisce il limite oltre il quale il diritto positivo ingiusto non può
andare.
La formula di cui Radbruch parla afferma che “per le proprie specificità il diritto va
obbedito anche se ingiusto”: si tratta della scia positivista della formula di Radbruch
(1946). Tuttavia, quando l’obbedienza al diritto ingiusto provoca conseguenze
insopportabili, allora la morale costituisce il limite del diritto. Il rapporto tra diritto e
morale è uno dei crucci più importanti.
D’Agostino in questo capitolo ha una certa schematicità e presenta la discussione in
termini trifasici.
Innanzitutto, si parla di un rapporto, ovvero di una relazione tra due entità mentali,
due istanze, due sistemi normativi, il diritto e la morale.
Intenderli come sistemi normativi fa riferimento a questa maniera di pensare di morale
e diritto da cui lui si allontana e anche Sartea poiché è povero pensare alla morale
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come sistema di norme in quanto non c’è solo la morale, c’è l’anelito verso la felicità,
la ricerca del bene in ognuno di noi.
Però, pensarli come sistemi di regole aiuta a capire perché entrano in rapporto, in
quanto non si rapporterebbero mai due elementi totalmente eterogenei, a comprendere
gli elementi comuni e affini tra le due dimensioni; propongono delle regole di
comportamento, investono e sono un appello alla nostra libertà. Esiste una regola in
quanto colui che ne è destinatario è in grado di accettarlo o rifiutarlo (la regola di non
volare o di non respirare è una non regola poiché non sono azioni che possiamo
controllare). Non avrebbe senso stabilire regole, obblighi e divieti di situazioni che
non sono sotto il controllo dell’uomo. Se ci sono regole morali, giuridiche, esistono
perché riguardano nella vita degli esseri liberi, azioni che dipendono da loro.
Sia le regole del diritto che quelle della morale coincidono da questo punto di vista:
diritto e morale sono affratellati dall’essere dei sistemi di regole destinati agli esseri
liberi umani. Fin qui si vede la sovrapponibilità dei due ordini normativi; motivo per
cui il passo successivo è quello di interrogarci sulle differenze.
Se nella cultura si sono differenziati questi due sistemi di regole in quanto nessuno
afferma che il diritto coincida con la morale e viceversa, si considera come parte
necessaria di una certa laicità, neutralità etica, autonomia del discorso giuridico. Ci
sono cose ripugnanti dal punto di vista morale ma che il diritto non può e non deve
necessariamente perseguire perché non hanno ricadute sociali e quindi rilevanza
giuridica. Tutto il regno delle intenzioni è largamente sottratto allo sguardo del diritto.
La sfera delle emozioni, dei motivi reconditi nel diritto penale ha quasi nulla rilievo;
al massimo ha rilievo in termini di aggravanti. Il reato non può sussistere quando è
soltanto immaginato nel mio mondo interiore. Forse sul piano morale ci potrà essere
un rimprovero, ma non su quello giuridico.
In “1984” si parla di psico polizia, tipica dei regimi totalitari che non si limitano
all’esteriorità dei comportamenti ma pretendono di entrare nell’anima, nella
conoscenza, nel mondo motivazionale delle intenzioni dei consociati.
In “Big Brother” si fa una vita relativamente confortevole ma senza libertà nemmeno
interiore, perché se dentro di me coltivo sentimenti di ira e odio nei confronti del
sistema allora la psico polizia è autorizzata a rintracciarmi e punirmi. L’amore vuol
dire rafforzamento e quindi si tratta di un sentimento temuto dal sistema totalitario.
La psico polizia è terrificante proprio perché si trattata di un diritto penale interiore,
delle intenzioni.
Il racconto di Philip Dick sul rapporto di minoranza mostra una riflessione sul sistema
penale; attraverso una serie di strani meccanismi improbabili la polizia ha la
possibilità di prevenire i comportamenti illegali intervenendo prima. La difesa di una
persona arrestata in questi casi in cui l’effettivo atto illegale si sta per compiere ma
non è stato ancora compiuto è proprio: “non ho fatto nulla”. Siamo abituati a ragionare
sul diritto penale del fatto e non delle intenzione per quanto progettate e non
eseguite: principio essenziale dello stato di diritto. Il racconto solleva proprio questa
problematica. Sarebbe più efficiente un sistema di polizia in grado di prevenire
l’azione e punire un colpevole dal punto di vista morale e non giuridico. Dall’altra
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parte c’è tutto il problema di principio, di analisi strutturale del diritto penale, che non
può essere delle semplici intenzioni. Tuttavia, ci sono ovviamente anche dei tentativi
di delitto che vengono puniti dal diritto penale. Ciò non significa che non vige più il
principio del diritto penale del fatto e che ritornino in auge i pensieri, la parte interna
della condotta. Il fatto che esista la possibilità di perseguire e punire gli atti tentati non
mette in discussione tutto il rapporto interiore della morale e il rapporto esteriore del
diritto. Infatti, il codice penale punisce il tentato omicidio in quanto esteriorizzazione
dell’intenzione finalizzata a quel delitto (diritto del fatto); non vale solo per il tentato
omicidio. Dunque, sono perseguiti e puniti gli atti preparatori alla natura del delitto,
che ovviamente necessitano un’analisi accurata.
Questo è il modo tecnico attuale operato soprattutto in epoca moderna per distinguere
diritto e morale: si cerca di adottare come criterio di distinzione proprio
l’interiorità e l’esteriorità. Si tratta di due ambiti dell’esperienza umana che hanno
molti aspetti in comune ma che sono distinguibili in base a molti criteri.
D’Agostino si chiede: come si è atteggiato il rapporto diritto-morale nella storia
della cultura e tradizione occidentale?
Egli nota che gli atteggiamenti dominanti per valutare il rapporto che si sono
manifestati nella storia sono tutti e tre astrattamente e logicamente possibili.
Il rapporto tra le due istanze può essere immaginato sul piano astratto in tre modi
possibili sia dal punto di vista logico che effettuale storico:
1. La morale prevale sul diritto.
2. La reciproca indifferenza: la separazione tra diritto e morale, ovvero un rapporto
non rapporto di estraneità anche se l’estraneità radicale non è possibile in quanto
si tratta di sistemi normativi.
3. Il diritto prevale sulla morale.
Secondo la lettura che ne fa D’Agostino queste tre modalità si sono tutte e tre
manifestate in questo ordine nell’esperienza giuridica occidentale.
Siamo partiti da una situazione in cui la morale prevaleva sul diritto, nel senso che le
pretese, le istanze, i valori morali dovevano necessariamente essere veicolati, tutelati,
promossi dal diritto: al punto che se la legge avesse contraddetto i principi morali si
trovava delegittimata, illecita. Si tratta del tema del diritto ingiusto: la legge ingiusta
non è nemmeno legge; se la legge non veicola contenuti morali perde la stessa
consistenza di legge, che comporta quindi la perdita dell’obbligatorietà. Questo è
l’atteggiamento dominante dell’epoca classica (diritto naturale). Secondo
Sant’Agostino “non est lex quae iusta non fuerit”: non c’è legge che non sia giusta;
un’eventuale legge non giusta, non in grado di veicolare la morale, è una non legge
vincolante per nessuno. Questa tradizione esordisce con la prima filosofia del diritto in
Grecia e si manifesta anche nella tradizione sofoclea del mito di Antigone, che difende
la priorità delle leggi degli dei, ovvero le leggi non scritte della morale, rispetto alle
leggi degli uomini (quando c’è un contrasto tra le due bisogna optare per la legge
morale): si tratta di un evidente traduzione letteraria del prevalere della morale sul
diritto. Questa prima fase si ha dagli albori della filosofia del diritto fino agli inizi
dell’epoca moderna.
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Successivamente si verifica la reciproca indifferenza che inizia ad essere teorizzata
all’alba dell’epoca moderna. Un campione è proprio Nicolò Machiavelli, uno dei
grandi padri della teoria politica moderna, nel saggio “Principe” indica al principe
come comportarsi per acquisire e mantenere il potere, incoraggiandolo a sbarazzarsi
dei vincoli morali: non perché Machiavelli fosse immorale o cinico ma perché egli è
tra i primi a fare proprio il modello di separazione di neutralizzazione morale del
diritto. La morale ha le sue esigenze ma anche la politica, e quelle dell’ultima sono
incompatibili con quelle della prima. Il principe deve rispettare i patti: “pacta sunt
servanda”. Come principe però se ad un certo punto un patto non va più bene perché
ha una strategia diversa egli può tranquillamente rifarlo perché c’è una ragion di Stato,
un’etica della politica che non è quella comune. Il principe in quanto principe è tenuto
ad adeguarsi alle regole della politica e non della morale (poi nella sfera personale può
essere diverso). Questo discorso è logicamente sostenibile solo se si premette
l’assoluta separazione tra politica e morale, separazione che si può anche verificare
nel rapporto tra diritto e morale (uno svuotamento morale del diritto). Machiavelli
parla dell’etica della politica, e quindi delle regole che deve seguire. La separazione
non implica l’assoluta assenza di vincoli etici al diritto, significa che il diritto come la
politica hanno un’etica proprio. Questo si ritroverà anche nel testo di Cotta che
quando parla del rapporto diritto-morale si pone in un ottica allineata verso la
modernità: egli è convinto che il diritto abbia una propria moralità che non coincide
con quella comune ma che è propria e specifica del diritto stesso, così come ogni
altra forma coesistenziale ha una propria morale (morale della politica, morale del
diritto, morale della famiglia), che ha degli elementi strutturali comuni tra le forme ma
non coincidenti in tutto e per tutto.
Un esempio è proprio quello della prostituzione, che costituisce uno scandalo della
riflessione giusfilosofica. Dal punto di vista di chi si prostituisce costituisce quasi
sempre un fallimento, dal punto di vista di chi usufruisce della prostituzione viene
considerata come una mossa meschina. Da entrambi i lati il rapporto non è di fioritura
umana ma di abbruttimento. Se è abbastanza univoco il parere della prostituzione dal
punto di vista filosofico, dal punto di vista giuridico si tollera la prostituzione (non si
persegue come reato; anzi c’è reato di sfruttamento). Sul piano storico si tratta di una
prova della differenza tra la morale e la moralità del diritto, disposto a tollerare
comportamenti moralmente riprovevoli ad altri scopi confacenti al diritto. Il diritto
persegue la pace sociale e familiare per cui tollerare la prostituzione viene considerato
funzionale a questo.
Un altro esempio è quello del “nemo tenetur se detegere”: nessuno è obbligato a
scoprirsi, ovvero l’imputato non può essere sottoposto ad interrogazione durante il
processo, o comunque non è tenuto a dire la verità se sottoposto a interrogatorio (si
può avvalere della facoltà di non rispondere) (i testimoni invece sono tenuti e
obbligati a dire la verità). Questa è una regola giuridica espressa in latino tanto è
classica e radicata nel processo, che però dal punto di vista della morale comune
sembra irragionevole. Anche qui il diritto vive di una moralità propria che non
coincide con quella comune del “non dire falsa testimonianza”.
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Il capitolo della “veridicità” può essere interessante poiché persino Tommaso
D’Aquino ammette un’eccezione sul principio del dovere morale di dire la verità,
quella dell’assassino (esempio: persecuzione degli ebrei).
La verità non coincide con la verità processuale, che però è una delle facce della
verità, conoscibile attraverso il processo.
Cotta e D’Agostino non soltanto aderiscono al modello classico della priorità della
morale sul diritto secondo uno schema rigorosamente giusnaturalistico, in realtà si
inseriscono, soprattutto e in maniera esplicita Cotta, nella prospettiva della modernità
poiché il diritto ha una moralità propria che non coincide in tutto e per tutto con la
moralità comune.
La fase di declino di questo secondo momento è il giuspositivismo, in cui Kelsen
definisce la giustizia, i valori morali del diritto come irrazionali, ogni interferenza
della morale nel diritto è un inquinamento che sottrae purezza alla scientificità. Questo
atteggiamento critico produce il rovesciamento del rapporto rispetto a quello iniziale
per cui il diritto condiziona la morale. Si tratta di una situazione in cui è dal diritto che
attendiamo indicazioni morali, e le uniche che hanno pretesa di universalità sono
quelle decorate giuridicamente. Egli pone l’esempio dei diritti umani, che sono
sicuramente diritti giuridici ma che hanno una base etico antropologica evidente (la
libertà, il lavoro). Nell’epoca in cui ci troviamo noi post moderni a ricevere
indicazioni morali purché veicolate dalle forme del diritto. Dunque, la morale
dipende dal diritto per la propria comunicazione ed imposizione universale. Questo
rapporto tra le due istanze rispetto al punto di partenza in cui era la morale a
condizionare il diritto si è completamente ribaltato. Adesso è il diritto che condiziona
la morale. Se uno parla di questioni morali a titolo personale o confessionale viene
ascoltato ma come rappresentante di una sensibilità propria. Se aspira a una pretesa
universale, che i contenuti morali abbiano una obbligatorietà generalizzata, deve
assumere il linguaggio del diritto (la progressiva globalizzazione del diritto). Questa
secondo D’Agostino è l’attuale situazione.
Durante la storia della cultura occidentale il rapporto diritto-morale è passato
attraverso le tre possibili pluralità logiche in cui si può sviluppare, e ciascuna di esse
corrisponde più o meno precisamente ad un’epoca storico culturale in cui la filosofia
del diritto ha pensato in un modo piuttosto che in un altro il suo stesso rapporto.
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come conseguenza due possibilità per cui o troviamo il modo di sciogliere il
paradosso o neghiamo l’universalità dei diritti umani.
Egli si propone l’obiettivo di sciogliere il paradosso; per arrivare a questa conclusione
utilizza una serie di argomenti. Innanzitutto, fa una distinzione di metodo presa in
prestito da Pareyson tra:
• Il pensiero espressivo: un pensiero che non fa che riprodurre ciò che c’è, una realtà
di fatto, senza sguardo critico rimanendo schiacciato in una realtà contingente da
cui non riesce a distaccarsi; non viene considerata una vera filosofia.
• Il pensiero rivelativo: considerato come la vera filosofia, il pensiero critico.
D’Agostino dunque ritiene fondamentale analizzare la realtà attraverso uno sguardo
critico ed analitico.
Dal punto di vista espressivo ad esempio il sacrificio umano nella civiltà azteca è
un’espressione della cultura azteca, oppure così è anche l’esposizione dei figli nella
cultura classica.
D’Agostino si chiede: questo pensiero rivelativo, questa critica delle culture, è
soltanto una comparazione tra culture? No, perché in tal caso non sarebbe vera
filosofia, anzi si tratta di un pensiero illegittimo, una pretesa arbitraria di giudizio di
altre culture.
(Registrazione 9/11)
Il mero progresso economico non definisce la superiorità di una cultura su un’altra.
Charles Taylor: se una cultura è stata in grado di esprimere ciò che c’è di bello
dell’essere umano per un tempo duraturo allora si tratta di una cultura rispettabile e
meritevole di rispetto.
Dunque, D’Agostino ritiene che esista il modo di giudicare le culture, non dal punto di
vista della comparazione delle culture, ma dal punto di vista dei valori universali.
Si pensi ad esempio all’incesto (il divieto) e al culto dei morti, questi sono principi
etico giuridico presenti in tutte le civiltà e culture per cui è falso affermare l’assenza di
principi universali.
Anche la pedofilia può essere esclusa dai comportamenti universali umani rilevanti.
C’è una verità dell’uomo sottostante alle diverse manifestazioni culturali che poi
siamo chiamati ad evocare e interpellare per dare un giudizio che sia universale (a
favore o contro).
L’eccedenza è quello che c’è nell'uomo, che la cultura non è in grado di spiegare in
maniera esauriente: l’uomo è sempre più di quanto viene descritto.
L’intero capitolo è costruito per dimostrare l’ universalismo dei diritti fondato non su
una cultura specifica ma sull’antropologia filosofica.
Questo è direttamente collegato al tema dei diritti umani che hanno un limite di
effettività, ma anche un limite politico per cui i diritti umani se hanno una qualche
effettività la hanno in subordine alla trasformazione in diritti fondamentali nella
costituzione (le dichiarazioni dei diritti umani non sono effettivi), e un limite
giuridico perché se vengono considerati come diritti assoluti come si rendono
compatibili tra di loro se ci saranno continuamente contrasti.
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Il capitolo sui diritti umani afferma che bisogna fare attenzione a non idealizzarli
troppo perché hanno dei limiti di cui bisogna farsi carico per pensarli in maniera
filosofica adeguata.
L’ultimo capitolo afferma che così come ci sono i diritti è ipotizzabile che vi siano
pure i doveri universali dell’uomo. Il capitolo inizia proprio dallo scritto di Mazzini
che si intitola “dei doveri dell’uomo”. Il dovere universale è quello di morire: la morte
mentre negli altri esseri viventi è un semplice accadimento (decesso), per gli esseri
umani è qualcosa di più profondo, è un “significato” (evocativa di significati). Questo
trasforma la morte da mero essere a dover essere; nella morte troviamo un’allusione al
senso profondo dell’essenza umana. Usata riflessione porta a cogliere l’universalità
del dovere di essere, confermato proprio dal dovere di morire (“diventa ciò che sei”).
Il dovere di morire si traduce in un dovere di essere nella coesistenza.
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