CRPR Kant
CRPR Kant
KANT
1 Il problema della morale
Nella Critica della ragion pratica Kant si occupa di fondare la possibilità di una morale sulla
sola ragione
La prima edizione della Critica della ragion pratica uscì nel 1788; sullo stesso argomento, alcuni
anni dopo, nel 1797, Immanuel Kant pubblicò La metafisica dei costumi. La Critica della ragion
pratica è un testo assai più corto della Critica della ragion pura, eppure era probabilmente l’opera a
cui Kant teneva di più; in ogni caso, quella che scrisse con maggiore passione. La speculazione
teoretica acquista infatti senso soltanto alla luce di quella pratica:
“Ogni interesse, in ultima analisi, è pratico, e anche quello della ragione speculativa è perfetto
solo condizionatamente e nell’uso pratico” (Critica della ragion pratica)
Ma che cosa intende esattamente Kant per “pratica”? L’aggettivo deriva da pràxis, e nel linguaggio
kantiano significa “azione morale”. “Pratica” significa dunque tutto ciò che compiamo in quanto
siamo esseri liberi. Da qui l’importanza dell’argomento: non vediamo forse - osserva Kant - delle
persone prive di qualsiasi interesse per le questioni teoretiche disquisire con sottigliezza di quelle
pratiche?
La vita morale è possibile in quanto nell’uomo vi è un insanabile contrasto tra sensibilità e ragione:
• se l’uomo fosse soltanto sensibilità la sua azione sarebbe guidata dall’istinto, e non si potrebbe
parlare di morale, così come non si parla di morale per le bestie;
• allo stesso modo, se l’uomo fosse solo ragione, tutte le sue azioni sarebbero razionali, sarebbe cioè
un essere perfetto dotato di una volontà santa, come Dio, e anche in questo caso non si potrebbe
parlare di morale.
L’uomo invece può liberamente seguire i propri impulsi sensibili o gli ordini della ragione, ed è da
questo scontro tra sensibilità e ragione che scaturisce la vita morale. Come la Critica della ragion
pura, anche la Critica della ragion pratica è divisa in due parti, una dottrina degli elementi, articolata
a sua volta in analitica e dialettica, e una dottrina del metodo.
Estendendo alla ragion pratica la rivoluzione copernicana intrapresa nella prima Critica,
Kant va alla ricerca di giudizi sintetici a priori in grado di costituire una morale autonoma
Fin dai tempi antichi, la filosofia ha sempre cercato di individuare le motivazioni più profonde della
nostra vita morale: le risposte sono state le più varie, tutte però eteronome, cioè fondate non su
motivazioni morali, ma su motivazioni esterne alla morale. Per esempio, mi devo comportare bene,
non perché ritengo che sia giusto così (motivazione morale), ma perché sarò felice, proverò piacere,
vivrò in serenità o perché così vuole Dio (motivazioni esterne alla morale). Da qui il carattere
ingannevole delle morali eteronome. Come in ambito gnoseologico, anche in ambito morale occorre
dunque secondo Kant compiere un radicale cambiamento di prospettiva rispetto ai convincimenti
tradizionali, tanto che secondo la critica si tratta di una “rivoluzione copernicana morale”, mentre
Kant parla di “paradosso della ragion pratica”. Tradizionalmente, la morale ruotava attorno al bene,
e di conseguenza l’uomo doveva cercare di realizzare quanto di volta in volta veniva indicato come
tale: il piacere, la serenità, la felicità, il volere di Dio. Ma la morale secondo Kant non consiste
nell’agire per un bene eteronomo: la sua è infatti un’etica dell’intenzione, nel senso che si fonda
non solo sul contenuto dell’azione, ma sull’intenzione, cioè sul criterio che ispira l’azione. Nella
visione kantiana l’uomo è dunque posto al centro della vita morale. Non è infatti il concetto di bene
a fondare la morale, ma è la morale che elabora il concetto di bene. La legge morale non è inoltre
qualche cosa che si apprende con delle buone letture o dei saggi consigli: è qualche cosa che si
trova dentro di me. Che una legge morale dentro di me esista è certo, e lo dimostra il semplice buon
senso: se non esistesse, infatti, l’uomo agirebbe sempre e soltanto d’istinto, e non vivrebbe invece
quel travaglio interiore, fatto di dubbi e di ripensamenti, che fa parte della sua natura. In ambito
morale ogni appello all’esperienza è quindi del tutto vano, perché se nella conoscenza della natura
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l’esperienza è la nostra unica guida, per quanto riguarda la conoscenza pratica niente è più sbagliato
di voler trarre la legge di ciò che si deve fare da ciò che si fa. Al contrario, la morale definisce
proprio l’ambito del dover-essere indipendentemente da ciò che si è.
La prospettiva morale di Kant si discosta dunque tanto dal razionalismo quanto dall’empirismo:
• il razionalismo pur fondando la morale sulla ragione faceva dipendere la morale dalla metafisica,
per esempio collocando in Dio la verità oggettiva dell’agire morale;
• l’empirismo, fondando la morale sull’esperienza umana, la faceva dipendere dall’utile o dal
sentimento, dandole così una valenza soggettiva. In breve, per Kant non è possibile una sintesi tra i
due sistemi morali. Occorre invece affrontare la questione morale con lo stesso metodo usato nella
Critica della ragion pura: come esistono infatti strutture trascendentali (lo spazio, il tempo e le
categorie) che ci permettono la formulazione di giudizi sintetici a priori teoretici in grado di
spiegare la conoscenza, occorre individuare anche per quanto riguarda la vita morale dei giudizi
sintetici a priori pratici che ci permettano di realizzarla.
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comando che avvertiamo come assoluto, e in quanto tale morale. È quanto afferma la prima e
fondamentale formulazione dell’imperativo categorico chiamata dell’universalità:
Agisci come se la massima della tua azione dovesse, per tua volontà, divenire una legge
universale.
Il soggetto morale è chiamato, dunque, a sottoporre la massima che guida la sua azione a un test di
universalità, grazie al quale diventa possibile comprendere se la massima in questione sia morale o
no. Per esempio, assumere come legge universale che ogni uomo menta non può essere accettabile:
mentire, infatti, significa ingannare ed evidentemente tale comportamento non può essere approvato
da chi lo subisce. Non ha, dunque, i caratteri dell’universalità e pertanto va rifiutato. Il mondo
morale in cui le azioni sono sottoposte a norme etiche universalmente valide può essere considerato
l’analogo del mondo naturale, in cui l’esistenza delle cose è determinata da leggi universali. Il
mondo della natura costituisce dunque il modello del mondo morale. Ora, ogni qualvolta
trasgrediamo un dovere, non vogliamo realmente che la nostra massima diventi una legge
universale; pretendiamo invece che il contrario della nostra massima venga inteso come legge
universale. Chi, per esempio, mente pensando di potersi così procacciare un vantaggio, sa allo
stesso tempo che lo può fare perché presumibilmente non lo faranno tutti gli altri. Così pensando,
riconosce dunque che la sua azione può avere senso solo come eccezione: in breve, è proprio perché
ha coscienza dell’universalità della morale che ne approfitta mentendo.
La seconda formulazione dell’imperativo categorico sottolinea l’eguale dignità di ogni essere
umano
Secondo Kant, un essere umano non può mai essere ridotto a semplice mezzo di cui mi servo per
raggiungere i miei fini, giacché io posso raggiungere un fine soltanto nella misura in cui accetto di
sottopormi alla medesima legge universale cui pretendo si sottopongano gli altri per raggiungere i
loro. Da qui la seconda celebre formula dell’imperativo categorico chiamata dell’umanità:
Agisci in modo da trattare l’umanità tanto nella tua persona, quanto nella persona di ogni altro
uomo, sempre come fine e mai come mezzo.
Ciò che può essere usato come mezzo in vista di qualcos’altro sono le cose, che hanno un prezzo;
ciò che invece non può essere considerato semplicemente come mezzo, ma sempre come fine sono
le persone. Ogni essere razionale è infatti sottoposto alla medesima legge universale cui sono
sottoposti tutti gli altri nel perseguire i loro fini, e non può mai essere considerato legittimamente
come un mezzo. L’aspetto su cui insiste questa formulazione è, dunque, quello della uguale dignità
di ogni persona: la vita morale infatti istituisce un regno dei fini, ovvero una comunità ideale di
persone libere che, vivendo moralmente, si rispettano a vicenda riconoscendosi pari dignità.
La terza formulazione dell’imperativo categorico mette in evidenza l’autonomia della ragione
legislatrice
La terza formulazione dell’imperativo categorico chiamata dell’autonomia recita: Agisci in modo
tale che la tua volontà possa istituire una legislazione universale. Detto altrimenti: “Sii legge a te
stesso”; “Sii autonomo”. Questa formula dell’imperativo categorico sottolinea dunque l’autonomia
della ragione, cioè la sua capacità di dare da sola la legge a se stessa. Si tratta cioè di una legge non
dettata dal contenuto materiale (un certo scopo che si vuole ottenere), ma valida soltanto in forza
della sua forma universale.
Pertanto la morale kantiana si presenta come morale dell’autonomia, contrapposta alle morali
eteronome che non possono mai essere considerate morali:
• l’eteronomia si ha infatti quando la volontà agisce per un fine particolare, non universale;
• mentre l’autonomia si ha quando la volontà è sottoposta unicamente al comando della ragione che
ha la forma di una legge universale.
Kant organizza in una tavola riassuntiva le varie morali eteronome, classificate sulla base dei
diversi moventi possibili, che possono essere soggettivi o oggettivi e in entrambi i casi esterni o
interni. Al di là delle differenze, il limite che accomuna tutte le morali eteronome è che individuano
in qualcosa di diverso dal puro comando della ragione il motivo determinante della volontà, facendo
così venire meno l’universalità della legge morale.
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4 Il carattere noumenico della vita morale
L’etica kantiana è deontologica perché rifiuta ogni fondamento sentimentale e si basa
unicamente sul dovere
Dal formalismo deriva anche il rigorismo della morale kantiana: la legge morale non può infatti
fondarsi sul sentimento per quanto nobile possa essere. Anche per esempio un sentimento come
quello di compassione, comunemente avvertito come positivo, può condurre al semplice
compiacimento per la propria bontà, inquinando la purezza dell’azione morale. I sentimenti, infatti,
sono emozioni e come tali hanno un carattere irrazionale che contrasta con la razionalità
dell’imperativo categorico. L’unico sentimento accettabile per Kant è quello del rispetto: si tratta
però di un sentimento sui generis che non scaturisce da un’emozione, ma dalla stessa legge morale,
e ha quindi carattere razionale. Inoltre, se la volontà agisce in modo coerente con la legge morale
ma solo in vista di qualche altro scopo, l’azione non sarà morale ma solo legale:
• la morale concerne infatti l’intenzione invisibile (come il pagare le tasse per senso del dovere);
• la legalità concerne invece l’azione visibile (come il pagare le tasse per paura di una multa).
Il puro rispetto dell’intenzione interiore che si esprime nell’imperativo categorico deve dunque
rappresentare l’unico movente dell’azione morale. Non è infatti sufficiente che l’azione sia
conforme al dovere, ma deve essere anche compiuta per dovere: in breve, l’agire morale consiste
nel puro “dovere-per-il dovere”. Oltre che come morale dell’intenzione, la morale kantiana si
configura quindi anche come morale deontologica, cioè del dovere. Il fondamento della moralità
risiede, infatti, in quel comando interiore che avverto come dovere, valido per tutti gli uomini e in
ogni tempo come per Dio, anzi anche se Dio e gli uomini non esistessero.
Il principio del dovere per il dovere viene chiamato in causa nelle decisioni morali che
innalzano l’uomo alla dimensione noumenica della libertà
Ma in quali circostanze siamo chiamati ad applicare il principio del “dovere-per-il dovere”?
Evidentemente nelle grandi scelte della vita: per esempio un soldato a cui venisse ordinato di
sterminare dei bambini semplicemente perché giocano in un parco pubblico che cosa dovrebbe
fare? È chiaro che dovrebbe agire assicurandosi che la massima del suo agire possa valere come
legge universale. Ma in un negozio, dovendo scegliere quali scarpe comprare non c’è bisogno di
scomodare la legislazione universale: si tratta infatti di una scelta empirica, e quindi non sottoposta
ai principi morali. Il mondo morale di Kant non è dunque il mondo delle piccole cose di tutti i
giorni, ma quello delle decisioni cruciali della vita che ci proiettano in una dimensione senza spazio
e senza tempo: il “dovere-per-il dovere” innalza infatti l’uomo al di sopra del meccanicistico mondo
fenomenico, per introdurlo nel libero mondo noumenico, in un «ordine di cose che solo l’intelletto
può pensare». La scoperta del carattere noumenico della vita morale fa prorompere Kant in un vero
e proprio “inno al dovere”:
La differenza fra moralità e legalità
Kant distingue tra moralità e legalità, a cui corrispondono i due diversi ambiti della morale e del
diritto. La differenza non risiede tanto nel contenuto dell’azione, che può anche essere identico,
quanto nella natura dell’obbligazione.
VEDI SCHEMA A PARTE
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Con la teorizzazione dei postulati dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, viene così
capovolta la tradizionale convinzione secondo cui sarebbe la religione a fondare la vita morale: al
contrario per Kant è la vita morale a essere il fondamento della religione.
La ragion pratica apre una finestra sul mondo noumenico inaccessibile alla ragion pura:
tuttavia, le verità della ragion pratica non sono oggetto di conoscenza empirica, ma
espressione di esigenze morali
È facile individuare nei tre postulati della ragion pratica le tre idee della ragion pura: ciò che infatti
per la ragion pura era trascendente, e quindi irraggiungibile, per la ragion pratica è invece
immanente, e quindi raggiungibile. La vita morale ci porta infatti nel cuore stesso del mondo
noumenico. Da qui il “primato della ragion pratica”, il suo essere cioè in grado di ammettere
proposizioni inammissibili per la ragion pura, come l’esistenza della libertà, dell’anima e di Dio.
Ciò però non significa che noi sappiamo che cosa siano la libertà, l’anima e Dio: postuliamo solo
che esistano. La ragion pratica ci conduce infatti laddove la ragion pura non è in grado di arrivare,
ma ciò non vuol dire che in questo modo si produca un’estensione della nostra conoscenza. In
nessun caso, infatti, i postulati possono trasformarsi in conoscenze. Sono infatti semplicemente
espressione di esigenze morali o, detto altrimenti, di verità della vita pratica: trasformarli in verità
teoretiche è illegittimo.
L’essere umano appare in bilico tra due mondi, quello fenomenico della natura e quello
noumenico della morale
L’appassionata riflessione di Kant sulla ragion pratica termina con la frase che abbiamo utilizzato
come incipit del primo capitolo a lui dedicato:
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e reverenza sempre nuova e crescente, quanto più
spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale
in me.
Da un lato lo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla l’importanza di me stesso in
quanto creatura animale appartenente al mondo sensibile e sottoposta alle sue leggi; dall’altro la
legge morale che vive in me mi eleva infinitamente, perché tale legge ha un valore del tutto
indipendente dall’intera natura e dalla mia costituzione animale. Una volta, però, che si è
guadagnata con tutto il rigore la netta distinzione tra questi due mondi, essi possono nuovamente
essere posti nel loro rapporto reciproco per cogliere l’unità della ragione, teoretica e pratica insieme.
E proprio al problema della possibilità di una conciliazione tra il mondo fenomenico della natura e
il mondo noumenico della libertà è dedicata la terza delle Critiche kantiane, la Critica del giudizio.
LESSICO
Eteronomo L’aggettivo “eteronomo” deriva dall’unione di due parole greche: héteros, “diverso”, e
nómos, “legge”. Le morali eteronome sono quelle che trovano fondamento su un principio esterno
ad esse. L’obiettivo di Kant è individuare un principio autonomo, che contenga in sé la
regola dell’agire.
L’autonomia, in quanto capacità di costituire da sé la propria legge, rappresentata per Kant uno dei
requisiti fondamentali della morale.
Etica dell’intenzione Come quella kantiana, le etiche fondate sull’intenzione si distinguono dalle
etiche fondate sul movente perché pongono l’attenzione sul fine che ispira l’azione piuttosto che
sull’effetto che consegue. Sono etiche fondate sul movente quelle eudemonistiche (che mirano
alla felicità) o utilitaristiche (indirizzate all’utile), mentre quella cristiana è un’etica dell’intenzione:
secondo Abelardo, infatti, «Dio tiene conto non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si
fanno».
Materia/Forma La distinzione tra materia e forma è il punto di partenza della filosofia kantiana.
Per materia Kant intende l’oggetto o il contenuto empirico di un concetto, mentre la forma è
l’ordine che presiede un complesso di relazioni generalizzabili: la forma rappresenta perciò
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l’elemento universale. Così la forma di un principio morale non risiede nel suo contenuto specifico
(“non uccidere”), bensì nella sua validità universale.
Regno dei fini Per “regno” Kant intende «il legame sistematico tra gli esseri dotati di ragione
tramite delle leggi obiettive comuni». Gli esseri dotati di ragione, da un lato sono in grado di porsi
dei fini, dall’altro rappresentano essi stessi dei fini in sé. Il regno dei fini è dunque un sistema
che unifica sotto forma di legge i fini che si pongono gli esseri ragionevoli e dotati di dignità.
È nel regno dei fini che si realizza la libertà, in contrapposizione al rigido determinismo delle leggi
causali che vige nel regno della natura. Il regno dei fini è dunque una comunità ideale composta da
persone ragionevoli che liberamente scelgono di obbedire alle leggi morali. Il regno dei fini non
è quindi un’utopia, ma un ideale pratico a cui gli uomini devono conformarsi nell’esercizio della
propria libertà. Chi agisce moralmente lo fa in modo tale che il principio della propria azione
sarebbe riconosciuto e condiviso dalla comunità degli esseri razionali: in questo senso il regno dei
fini rappresenta una sorta di parametro ideale.
Dignità La dignità è il valore intrinseco e assoluto di un essere dotato di ragione. Mentre le cose
hanno un valore relativo, per esempio in relazione al denaro, non è possibile stabilire nessun tipo di
equivalenza per gli esseri ragionevoli.
Questi ultimi, infatti, diversamente dalle cose che obbediscono alle leggi causali, non obbediscono
ad altra legge che non sia quella istituita da loro stessi: ed è precisamente in questa libertà
legislativa che risiede la dignità dell’uomo. In breve, ogni uomo è un fine in se stesso proprio
perché è in grado di porsi dei fini.
Rigorismo Kant definisce rigoristi coloro che non ammettono «alcuna neutralità morale né negli
atti, né nei caratteri umani». Egli stesso adotta questo punto di vista propugnando una morale
fondata sull’ideale del “dovere per il dovere” escludendo qualsiasi riferimento a motivazioni esterne
(eudemonistiche o utilitaristiche) e al sentimento (come ad esempio la teoria dei sentimenti morali
di Hutcheson).
Deontologia Il termine deriva dal greco deon che significa il dovere, l’obbligo.
La deontologia è pertanto la dottrina che ha per oggetto il dovere. Quella kantiana è un tipico
esempio di etica deontologica in quanto prescrive il dovere per il dovere e non in vista del
raggiungimento di un particolare scopo.
Santità Nella Critica della ragion pratica Kant definisce la santità come «la conformità completa
della volontà alla legge morale», ma poiché la volontà è sempre soggetta a bisogni e moventi
sensibili, la santità è «una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale del mondo
sensibile in nessun momento della sua esistenza». La santità è perciò un ideale regolativo a cui deve
tendere il perfezionamento morale. Mentre la volontà santa di Dio è perfettamente adeguata alla
legge morale, la volontà buona dell’uomo deve compiere uno sforzo per conformarsi alla
prescrizione del dovere per il dovere, perciò è l’unica cosa autenticamente buona e la condizione del
bene supremo (ovvero la virtù) e di ogni sommo bene (il bene morale assoluto, che unisce virtù e
felicità).