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CRPR Kant

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SCHEMI COMPLETI_CRITICA RAGION PRATICA_I.

KANT
1 Il problema della morale
Nella Critica della ragion pratica Kant si occupa di fondare la possibilità di una morale sulla
sola ragione
La prima edizione della Critica della ragion pratica uscì nel 1788; sullo stesso argomento, alcuni
anni dopo, nel 1797, Immanuel Kant pubblicò La metafisica dei costumi. La Critica della ragion
pratica è un testo assai più corto della Critica della ragion pura, eppure era probabilmente l’opera a
cui Kant teneva di più; in ogni caso, quella che scrisse con maggiore passione. La speculazione
teoretica acquista infatti senso soltanto alla luce di quella pratica:
“Ogni interesse, in ultima analisi, è pratico, e anche quello della ragione speculativa è perfetto
solo condizionatamente e nell’uso pratico” (Critica della ragion pratica)
Ma che cosa intende esattamente Kant per “pratica”? L’aggettivo deriva da pràxis, e nel linguaggio
kantiano significa “azione morale”. “Pratica” significa dunque tutto ciò che compiamo in quanto
siamo esseri liberi. Da qui l’importanza dell’argomento: non vediamo forse - osserva Kant - delle
persone prive di qualsiasi interesse per le questioni teoretiche disquisire con sottigliezza di quelle
pratiche?
La vita morale è possibile in quanto nell’uomo vi è un insanabile contrasto tra sensibilità e ragione:
• se l’uomo fosse soltanto sensibilità la sua azione sarebbe guidata dall’istinto, e non si potrebbe
parlare di morale, così come non si parla di morale per le bestie;
• allo stesso modo, se l’uomo fosse solo ragione, tutte le sue azioni sarebbero razionali, sarebbe cioè
un essere perfetto dotato di una volontà santa, come Dio, e anche in questo caso non si potrebbe
parlare di morale.
L’uomo invece può liberamente seguire i propri impulsi sensibili o gli ordini della ragione, ed è da
questo scontro tra sensibilità e ragione che scaturisce la vita morale. Come la Critica della ragion
pura, anche la Critica della ragion pratica è divisa in due parti, una dottrina degli elementi, articolata
a sua volta in analitica e dialettica, e una dottrina del metodo.
Estendendo alla ragion pratica la rivoluzione copernicana intrapresa nella prima Critica,
Kant va alla ricerca di giudizi sintetici a priori in grado di costituire una morale autonoma
Fin dai tempi antichi, la filosofia ha sempre cercato di individuare le motivazioni più profonde della
nostra vita morale: le risposte sono state le più varie, tutte però eteronome, cioè fondate non su
motivazioni morali, ma su motivazioni esterne alla morale. Per esempio, mi devo comportare bene,
non perché ritengo che sia giusto così (motivazione morale), ma perché sarò felice, proverò piacere,
vivrò in serenità o perché così vuole Dio (motivazioni esterne alla morale). Da qui il carattere
ingannevole delle morali eteronome. Come in ambito gnoseologico, anche in ambito morale occorre
dunque secondo Kant compiere un radicale cambiamento di prospettiva rispetto ai convincimenti
tradizionali, tanto che secondo la critica si tratta di una “rivoluzione copernicana morale”, mentre
Kant parla di “paradosso della ragion pratica”. Tradizionalmente, la morale ruotava attorno al bene,
e di conseguenza l’uomo doveva cercare di realizzare quanto di volta in volta veniva indicato come
tale: il piacere, la serenità, la felicità, il volere di Dio. Ma la morale secondo Kant non consiste
nell’agire per un bene eteronomo: la sua è infatti un’etica dell’intenzione, nel senso che si fonda
non solo sul contenuto dell’azione, ma sull’intenzione, cioè sul criterio che ispira l’azione. Nella
visione kantiana l’uomo è dunque posto al centro della vita morale. Non è infatti il concetto di bene
a fondare la morale, ma è la morale che elabora il concetto di bene. La legge morale non è inoltre
qualche cosa che si apprende con delle buone letture o dei saggi consigli: è qualche cosa che si
trova dentro di me. Che una legge morale dentro di me esista è certo, e lo dimostra il semplice buon
senso: se non esistesse, infatti, l’uomo agirebbe sempre e soltanto d’istinto, e non vivrebbe invece
quel travaglio interiore, fatto di dubbi e di ripensamenti, che fa parte della sua natura. In ambito
morale ogni appello all’esperienza è quindi del tutto vano, perché se nella conoscenza della natura
1
l’esperienza è la nostra unica guida, per quanto riguarda la conoscenza pratica niente è più sbagliato
di voler trarre la legge di ciò che si deve fare da ciò che si fa. Al contrario, la morale definisce
proprio l’ambito del dover-essere indipendentemente da ciò che si è.
La prospettiva morale di Kant si discosta dunque tanto dal razionalismo quanto dall’empirismo:
• il razionalismo pur fondando la morale sulla ragione faceva dipendere la morale dalla metafisica,
per esempio collocando in Dio la verità oggettiva dell’agire morale;
• l’empirismo, fondando la morale sull’esperienza umana, la faceva dipendere dall’utile o dal
sentimento, dandole così una valenza soggettiva. In breve, per Kant non è possibile una sintesi tra i
due sistemi morali. Occorre invece affrontare la questione morale con lo stesso metodo usato nella
Critica della ragion pura: come esistono infatti strutture trascendentali (lo spazio, il tempo e le
categorie) che ci permettono la formulazione di giudizi sintetici a priori teoretici in grado di
spiegare la conoscenza, occorre individuare anche per quanto riguarda la vita morale dei giudizi
sintetici a priori pratici che ci permettano di realizzarla.

2 I caratteri della legge morale


I principi pratici che ispirano l’azione morale si dividono in massime, che hanno valore
soggettivo, e imperativi, ovvero doveri dotati di validità universale
Kant chiama principi pratici le regole generali di vita, cioè quei criteri che ispirano ogni azione e
che la volontà buona, quella cioè che agisce solo per dovere, ritiene giusto applicare: per esempio,
“vivi secondo natura”. In quanto regole generali, i principi pratici possono essere di due tipi,
massime o imperativi. Le massime sono principi pratici soggettivi: si tratta cioè di regole che ogni
individuo elabora per sé. Per esempio, “Tratta gli altri come vorresti essere trattato” è una massima
in quanto può avere senso solo per il soggetto che la propone. Gli imperativi invece sono regole che
valgono per tutti: si tratta cioè di comandi o di doveri validi universalmente. A loro volta, gli
imperativi si dividono in ipotetici e categorici. Gli imperativi ipotetici sono quelli preceduti dal
“se”: sono cioè validi se si intende raggiungere un certo risultato (per esempio, “se voglio essere
promosso, allora devo studiare”). La regola prescritta dagli imperativi ipotetici ha valore oggettivo e
universale, ma si tratta di un’universalità condizionata, cioè subordinata alla condizione
rappresentata dal fine.
All’interno poi degli imperativi ipotetici, Kant distingue tra le regole dell’abilità e quelle di
prudenza:
• le regole di abilità prescrivono le tecniche per raggiungere un obiettivo soggettivo (per esempio,
come prepararsi per un colloquio di lavoro);
• i consigli della prudenza prescrivono invece i mezzi per conseguire il benessere o la felicità, fine
che si suppone desiderato da tutti (per esempio, le risposte alla “Posta del cuore” contenuta in tante
riviste). L’imperativo categorico, invece, è una norma che comanda (imperativo), nel senso che
ordina di fare una cosa e non un’altra, e la ordina come dovere assoluto (categorico). Rispetto a
quello ipotetico, nell’imperativo categorico il dovere precede quindi il “se”, e non lo segue.
L’imperativo categorico si manifesta dunque nella volontà pura (indipendente cioè da qualsiasi
tornaconto) di mettere in atto quanto ordinato dalla ragione; come tale la volontà buona è opposta
alla volontà particolare che è condizionata dagli interessi soggettivi. L’imperativo categorico
rappresenta pertanto un’azione percepita come moralmente necessaria in sé e per sé, senza relazione
con alcuno scopo che si voglia raggiungere. In sintesi, è un comando perentorio che dal profondo
della coscienza mi dice: “Tu devi, perché devi”. Ne consegue che ogni singolo uomo in ambito
morale sia contemporaneamente il legislatore, il giudice, l’imputato e il poliziotto. L’applicazione
di quanto mi dice la coscienza richiede il costante esercizio della volontà. Kant usa il termine
volontà in quattro diverse accezioni: la volontà particolare è quella soggetta a motivazioni
empiriche, mentre quella pura è mossa da principi a priori, ovvero da leggi razionali. Solo questo
secondo tipo di volontà è veramente libera in quanto, svincolata da ogni condizionamento empirico
e materiale, sceglie liberamente di obbedire a un comando che si è data razionalmente. La volontà
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pura coincide dunque con la volontà buona in quanto sceglie di agire in conformità al dovere
prescritto dalla legge morale.
L’imperativo categorico è un giudizio sintetico a priori pratico che costituisce la condizione
formale del contenuto morale di un’azione
La volontà buona dell’uomo non si adegua tuttavia in maniera spontanea alla legge morale, come
farebbe la volontà santa di Dio, ma deve compiere uno sforzo che avverte come dovere puro, cioè
come “dovere per il dovere”. Se invece la volontà morale fosse subordinata a una condizione
empirica (per esempio, il piacere) avrebbe un contenuto materiale, e di conseguenza non potrebbe
essere universalmente valida.
Tutti i principi materiali sono, in quanto tali, di una sola e identica specie e cadono sotto il principio
universale dell’amor di sé o della propria felicità. (Critica della ragion pratica)
La legge morale deve quindi necessariamente essere formale, cioè non prescrivere alcun contenuto.
Solo così può essere universale, valida per tutti e in ogni tempo. Infatti, se una regola pratica è
valida soltanto per me e non per altri o, viceversa, se io mi ritengo l’eccezione di una regola cui
pretendo che gli altri siano sottoposti, tale regola non ha ovviamente un carattere universale e non
può dunque avere valore morale. Affinché una regola pratica abbia valore universale deve poter
assumere la forma di una legge. Come una legge della natura stabilisce un accordo tra i fenomeni
(nelle stesse condizioni a una causa non può non seguire lo stesso effetto), così la legge morale deve
stabilire una concordia tra i diversi voleri individuali (nelle medesime situazioni tutti devono
seguire le medesime leggi). La possibilità che la massima assuma la forma di legge generale deve
dunque essere il solo motivo determinante per assumere una certa massima piuttosto che un’altra.
Da questo presupposto deriva il formalismo che è stato spesso imputato all’etica kantiana. La forma
non ha però qui semplicemente il significato di “assenza di contenuto” ma, conformemente allo
spirito generale della filosofia kantiana, di “condizione della possibilità di un contenuto”. Secondo
Kant infatti non deve essere il contenuto a indicarci la forma, cioè come dobbiamo agire, ma deve
essere la forma a indicarci che cosa dobbiamo fare, cioè il contenuto. In breve, la morale non
prescrive un contenuto (non dice cioè di fare o di non fare questo o quello: per esempio, rubare o
non rubare), ma è formale (dice cioè il criterio che deve ispirare quello che facciamo). L’imperativo
categorico ha dunque tutte le caratteristiche del giudizio sintetico a priori pratico. Infatti è:
• autonomo, in quanto espressione di una personale libera scelta;
• formale, non prescrive cioè un contenuto materiale ma ha la forma del dovere;
• necessario, nel senso che tutti lo avvertono;
• universale, cioè valido per tutti e in ogni tempo.
Kant elabora tre diverse formulazioni dell’imperativo categorico aventi un valore chiarificatore,
ognuna delle quali dà rilievo a un diverso aspetto della legge morale.
I principi pratici
Sono chiamati principi pratici le regole di vita che la volontà ritiene giusto applicare: per esempio,
“vivi secondo natura”.
Massime
Sono principi pratici soggettivi: si tratta cioè di regole che ogni individuo elabora per sé. Per
esempio, “vendicati di ogni offesa”.
VEDI SCHEMA A PARTE

3 Le tre formulazioni dell’imperativo categorico


La prima formulazione dell’imperativo categorico mette l’accento sull’universalità della legge
morale
Noi agiamo, ma non a caso. Ogni nostra azione, infatti, è sempre guidata da una massima, cioè da
un qualche principio o criterio. Se questa massima può essere utilizzata da tutti e in ogni tempo, nel
senso che può valere come principio di una legislazione universale, allora siamo in presenza di un

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comando che avvertiamo come assoluto, e in quanto tale morale. È quanto afferma la prima e
fondamentale formulazione dell’imperativo categorico chiamata dell’universalità:
Agisci come se la massima della tua azione dovesse, per tua volontà, divenire una legge
universale.
Il soggetto morale è chiamato, dunque, a sottoporre la massima che guida la sua azione a un test di
universalità, grazie al quale diventa possibile comprendere se la massima in questione sia morale o
no. Per esempio, assumere come legge universale che ogni uomo menta non può essere accettabile:
mentire, infatti, significa ingannare ed evidentemente tale comportamento non può essere approvato
da chi lo subisce. Non ha, dunque, i caratteri dell’universalità e pertanto va rifiutato. Il mondo
morale in cui le azioni sono sottoposte a norme etiche universalmente valide può essere considerato
l’analogo del mondo naturale, in cui l’esistenza delle cose è determinata da leggi universali. Il
mondo della natura costituisce dunque il modello del mondo morale. Ora, ogni qualvolta
trasgrediamo un dovere, non vogliamo realmente che la nostra massima diventi una legge
universale; pretendiamo invece che il contrario della nostra massima venga inteso come legge
universale. Chi, per esempio, mente pensando di potersi così procacciare un vantaggio, sa allo
stesso tempo che lo può fare perché presumibilmente non lo faranno tutti gli altri. Così pensando,
riconosce dunque che la sua azione può avere senso solo come eccezione: in breve, è proprio perché
ha coscienza dell’universalità della morale che ne approfitta mentendo.
La seconda formulazione dell’imperativo categorico sottolinea l’eguale dignità di ogni essere
umano
Secondo Kant, un essere umano non può mai essere ridotto a semplice mezzo di cui mi servo per
raggiungere i miei fini, giacché io posso raggiungere un fine soltanto nella misura in cui accetto di
sottopormi alla medesima legge universale cui pretendo si sottopongano gli altri per raggiungere i
loro. Da qui la seconda celebre formula dell’imperativo categorico chiamata dell’umanità:
Agisci in modo da trattare l’umanità tanto nella tua persona, quanto nella persona di ogni altro
uomo, sempre come fine e mai come mezzo.
Ciò che può essere usato come mezzo in vista di qualcos’altro sono le cose, che hanno un prezzo;
ciò che invece non può essere considerato semplicemente come mezzo, ma sempre come fine sono
le persone. Ogni essere razionale è infatti sottoposto alla medesima legge universale cui sono
sottoposti tutti gli altri nel perseguire i loro fini, e non può mai essere considerato legittimamente
come un mezzo. L’aspetto su cui insiste questa formulazione è, dunque, quello della uguale dignità
di ogni persona: la vita morale infatti istituisce un regno dei fini, ovvero una comunità ideale di
persone libere che, vivendo moralmente, si rispettano a vicenda riconoscendosi pari dignità.
La terza formulazione dell’imperativo categorico mette in evidenza l’autonomia della ragione
legislatrice
La terza formulazione dell’imperativo categorico chiamata dell’autonomia recita: Agisci in modo
tale che la tua volontà possa istituire una legislazione universale. Detto altrimenti: “Sii legge a te
stesso”; “Sii autonomo”. Questa formula dell’imperativo categorico sottolinea dunque l’autonomia
della ragione, cioè la sua capacità di dare da sola la legge a se stessa. Si tratta cioè di una legge non
dettata dal contenuto materiale (un certo scopo che si vuole ottenere), ma valida soltanto in forza
della sua forma universale.
Pertanto la morale kantiana si presenta come morale dell’autonomia, contrapposta alle morali
eteronome che non possono mai essere considerate morali:
• l’eteronomia si ha infatti quando la volontà agisce per un fine particolare, non universale;
• mentre l’autonomia si ha quando la volontà è sottoposta unicamente al comando della ragione che
ha la forma di una legge universale.
Kant organizza in una tavola riassuntiva le varie morali eteronome, classificate sulla base dei
diversi moventi possibili, che possono essere soggettivi o oggettivi e in entrambi i casi esterni o
interni. Al di là delle differenze, il limite che accomuna tutte le morali eteronome è che individuano
in qualcosa di diverso dal puro comando della ragione il motivo determinante della volontà, facendo
così venire meno l’universalità della legge morale.
4
4 Il carattere noumenico della vita morale
L’etica kantiana è deontologica perché rifiuta ogni fondamento sentimentale e si basa
unicamente sul dovere
Dal formalismo deriva anche il rigorismo della morale kantiana: la legge morale non può infatti
fondarsi sul sentimento per quanto nobile possa essere. Anche per esempio un sentimento come
quello di compassione, comunemente avvertito come positivo, può condurre al semplice
compiacimento per la propria bontà, inquinando la purezza dell’azione morale. I sentimenti, infatti,
sono emozioni e come tali hanno un carattere irrazionale che contrasta con la razionalità
dell’imperativo categorico. L’unico sentimento accettabile per Kant è quello del rispetto: si tratta
però di un sentimento sui generis che non scaturisce da un’emozione, ma dalla stessa legge morale,
e ha quindi carattere razionale. Inoltre, se la volontà agisce in modo coerente con la legge morale
ma solo in vista di qualche altro scopo, l’azione non sarà morale ma solo legale:
• la morale concerne infatti l’intenzione invisibile (come il pagare le tasse per senso del dovere);
• la legalità concerne invece l’azione visibile (come il pagare le tasse per paura di una multa).
Il puro rispetto dell’intenzione interiore che si esprime nell’imperativo categorico deve dunque
rappresentare l’unico movente dell’azione morale. Non è infatti sufficiente che l’azione sia
conforme al dovere, ma deve essere anche compiuta per dovere: in breve, l’agire morale consiste
nel puro “dovere-per-il dovere”. Oltre che come morale dell’intenzione, la morale kantiana si
configura quindi anche come morale deontologica, cioè del dovere. Il fondamento della moralità
risiede, infatti, in quel comando interiore che avverto come dovere, valido per tutti gli uomini e in
ogni tempo come per Dio, anzi anche se Dio e gli uomini non esistessero.
Il principio del dovere per il dovere viene chiamato in causa nelle decisioni morali che
innalzano l’uomo alla dimensione noumenica della libertà
Ma in quali circostanze siamo chiamati ad applicare il principio del “dovere-per-il dovere”?
Evidentemente nelle grandi scelte della vita: per esempio un soldato a cui venisse ordinato di
sterminare dei bambini semplicemente perché giocano in un parco pubblico che cosa dovrebbe
fare? È chiaro che dovrebbe agire assicurandosi che la massima del suo agire possa valere come
legge universale. Ma in un negozio, dovendo scegliere quali scarpe comprare non c’è bisogno di
scomodare la legislazione universale: si tratta infatti di una scelta empirica, e quindi non sottoposta
ai principi morali. Il mondo morale di Kant non è dunque il mondo delle piccole cose di tutti i
giorni, ma quello delle decisioni cruciali della vita che ci proiettano in una dimensione senza spazio
e senza tempo: il “dovere-per-il dovere” innalza infatti l’uomo al di sopra del meccanicistico mondo
fenomenico, per introdurlo nel libero mondo noumenico, in un «ordine di cose che solo l’intelletto
può pensare». La scoperta del carattere noumenico della vita morale fa prorompere Kant in un vero
e proprio “inno al dovere”:
La differenza fra moralità e legalità
Kant distingue tra moralità e legalità, a cui corrispondono i due diversi ambiti della morale e del
diritto. La differenza non risiede tanto nel contenuto dell’azione, che può anche essere identico,
quanto nella natura dell’obbligazione.
VEDI SCHEMA A PARTE

5 I postulati della ragion pratica


Il primo postulato della ragion pratica è la libertà: senza libertà, la ragion pratica non
potrebbe esistere e sarebbe sottoposta alle leggi deterministiche del mondo fenomenico
Il carattere noumenico della vita morale viene chiarito da Kant con la teoria dei postulati della
ragion pratica. In matematica per postulati s’intendono quei principi che, pur essendo razionalmente
indimostrabili, rendono possibili determinate conoscenze. Allo stesso modo, secondo Kant, la vita
morale postula, nel senso che implica, l’esistenza di verità che la ragione teoretica non riconosce, a
incominciare dall’esistenza della libertà. Poiché la libertà è la condizione stessa della vita morale, si
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tratta non solo del primo postulato della ragion pratica, ma anche di quello più importante. Il nesso
tra moralità e libertà è spiegato da Kant con la formula “devi, dunque puoi”. Nel momento, infatti,
in cui l’imperativo categorico mi dice “devi”, sottende che devo in quanto posso anche agire in un
modo diverso: un comando infatti ha senso solo se rivolto a qualcuno che può disobbedire. Il “devi”
dunque sottende la consapevolezza di una verità a cui la ragion pura non riusciva ad arrivare: io so
di essere libero! Mentre la ragion pura, nel momento in cui si interroga sull’esistenza o meno della
libertà nel mondo fenomenico, dà luogo alla terza antinomia dell’idea cosmologica, la ragion
pratica comprende che senza la libertà non esisterebbe, e poiché esiste, esiste anche la libertà.
Pertanto, mentre nel mondo fenomenico vige il più completo meccanicismo, in quello morale vige
evidentemente la libertà.
L’antinomia fondamentale della morale è quella tra virtù e felicità: la virtù è infatti il bene
supremo per la vita morale, ma di per sé non offre alcuna garanzia di felicità
La felicità non può mai essere intesa come il fine della vita morale: si tratta infatti di un concetto
eteronomo, caratterizzato da soggettività, e quindi non da autonomia, formalità e universalità: la
felicità, infatti, è una condizione che ognuno di noi immagina o avverte in modo diverso. Persino in
uno stesso soggetto la felicità può essere intesa in modo differente nel corso della vita. Tuttavia per
sua stessa natura l’uomo aspira alla felicità: il che è in aperto conflitto con la vita morale. Il vivere
secondo virtù, infatti, non genera di per sé la felicità. Poiché non ha nessun’altra condizione sopra
di sé, nella vita morale la virtù è il “bene supremo”. Questo bene supremo tuttavia non coincide con
il sommo bene, a cui tende in modo irresistibile la natura umana, e che consiste nell’unione di virtù
e felicità. Avvertiamo infatti come una profonda ingiustizia il fatto che il giusto sia sofferente e che
viceversa il malvagio sia felice. In altri termini, c’è nell’uomo l’esigenza che una vita virtuosa sia
premiata dalla felicità. Nella vita sensibile, invece, questo sommo bene, dato dall’unione di virtù e
felicità, non si realizza affatto, se non casualmente. Virtù e felicità costituiscono dunque l’antinomia
fondamentale della vita morale, in quanto se la virtù venisse esercitata allo scopo di raggiungere la
felicità non sarebbe più morale; nel contempo la virtù senza la felicità ci appare come un bene
incompleto. Come uscire da questa contraddizione insanabile? Secondo Kant, è possibile soltanto
postulando l’esistenza di un mondo dell’aldilà che realizzi ciò che nel mondo dell’aldiquà non è
possibile, e cioè la coincidenza di virtù e felicità. Questo mondo però dell’aldilà ha un senso solo se
postuliamo l’esistenza di un’anima immortale e di Dio.
Il secondo e il terzo postulato della ragion pratica affermano l’immortalità dell’anima e
l’esistenza di Dio: sono oggetto della fede morale razionale
La vita morale consiste nella tensione verso la «perfetta adeguatezza della volontà alla legge
morale». L’imperativo categorico infatti pretende la perfezione morale. Poiché tuttavia la santità
non è umanamente realizzabile, evidentemente l’uomo ritiene di avere a disposizione un tempo
infinito per realizzarla, un tempo cioè che va oltre la vita terrena. Ma questo è possibile soltanto se
si ammette l’immortalità dell’anima, cioè la sopravvivenza infinita dell’esistenza. L’immortalità
dell’anima è dunque il secondo postulato della ragion pratica. L’immortalità dell’anima soddisfa
però solo la prima condizione del sommo bene, la virtù raggiunta in grado sommo, cioè come
santità. Affinché invece si realizzi anche l’altra condizione del sommo bene, e cioè la felicità,
occorre postulare l’esistenza di Dio, che rappresenta il terzo postulato della ragion pratica: solo Dio
infatti, in quanto «volontà santa e onnipotente», può fare in modo che chi si comporta in modo
virtuoso abbia quella felicità che merita. I tre postulati della ragion pratica non stanno però tutti
sullo stesso piano: la libertà è infatti la condizione stessa della vita morale, mentre i due postulati
religiosi che derivano dalla riflessione sul sommo bene - Dio e l’immortalità dell’anima -
costituiscono l’oggetto di quella che Kant definisce una «fede morale razionale»:
• “fede” in quanto non si hanno prove oggettive di quello che si crede;
• “razionale” in quanto ciò in cui si crede risponde a un’esigenza della ragione stessa;
• “morale” in quanto questa esigenza nasce dalla vita morale.

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Con la teorizzazione dei postulati dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, viene così
capovolta la tradizionale convinzione secondo cui sarebbe la religione a fondare la vita morale: al
contrario per Kant è la vita morale a essere il fondamento della religione.
La ragion pratica apre una finestra sul mondo noumenico inaccessibile alla ragion pura:
tuttavia, le verità della ragion pratica non sono oggetto di conoscenza empirica, ma
espressione di esigenze morali
È facile individuare nei tre postulati della ragion pratica le tre idee della ragion pura: ciò che infatti
per la ragion pura era trascendente, e quindi irraggiungibile, per la ragion pratica è invece
immanente, e quindi raggiungibile. La vita morale ci porta infatti nel cuore stesso del mondo
noumenico. Da qui il “primato della ragion pratica”, il suo essere cioè in grado di ammettere
proposizioni inammissibili per la ragion pura, come l’esistenza della libertà, dell’anima e di Dio.
Ciò però non significa che noi sappiamo che cosa siano la libertà, l’anima e Dio: postuliamo solo
che esistano. La ragion pratica ci conduce infatti laddove la ragion pura non è in grado di arrivare,
ma ciò non vuol dire che in questo modo si produca un’estensione della nostra conoscenza. In
nessun caso, infatti, i postulati possono trasformarsi in conoscenze. Sono infatti semplicemente
espressione di esigenze morali o, detto altrimenti, di verità della vita pratica: trasformarli in verità
teoretiche è illegittimo.
L’essere umano appare in bilico tra due mondi, quello fenomenico della natura e quello
noumenico della morale
L’appassionata riflessione di Kant sulla ragion pratica termina con la frase che abbiamo utilizzato
come incipit del primo capitolo a lui dedicato:
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e reverenza sempre nuova e crescente, quanto più
spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale
in me.
Da un lato lo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla l’importanza di me stesso in
quanto creatura animale appartenente al mondo sensibile e sottoposta alle sue leggi; dall’altro la
legge morale che vive in me mi eleva infinitamente, perché tale legge ha un valore del tutto
indipendente dall’intera natura e dalla mia costituzione animale. Una volta, però, che si è
guadagnata con tutto il rigore la netta distinzione tra questi due mondi, essi possono nuovamente
essere posti nel loro rapporto reciproco per cogliere l’unità della ragione, teoretica e pratica insieme.
E proprio al problema della possibilità di una conciliazione tra il mondo fenomenico della natura e
il mondo noumenico della libertà è dedicata la terza delle Critiche kantiane, la Critica del giudizio.

LESSICO
Eteronomo L’aggettivo “eteronomo” deriva dall’unione di due parole greche: héteros, “diverso”, e
nómos, “legge”. Le morali eteronome sono quelle che trovano fondamento su un principio esterno
ad esse. L’obiettivo di Kant è individuare un principio autonomo, che contenga in sé la
regola dell’agire.
L’autonomia, in quanto capacità di costituire da sé la propria legge, rappresentata per Kant uno dei
requisiti fondamentali della morale.
Etica dell’intenzione Come quella kantiana, le etiche fondate sull’intenzione si distinguono dalle
etiche fondate sul movente perché pongono l’attenzione sul fine che ispira l’azione piuttosto che
sull’effetto che consegue. Sono etiche fondate sul movente quelle eudemonistiche (che mirano
alla felicità) o utilitaristiche (indirizzate all’utile), mentre quella cristiana è un’etica dell’intenzione:
secondo Abelardo, infatti, «Dio tiene conto non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si
fanno».
Materia/Forma La distinzione tra materia e forma è il punto di partenza della filosofia kantiana.
Per materia Kant intende l’oggetto o il contenuto empirico di un concetto, mentre la forma è
l’ordine che presiede un complesso di relazioni generalizzabili: la forma rappresenta perciò

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l’elemento universale. Così la forma di un principio morale non risiede nel suo contenuto specifico
(“non uccidere”), bensì nella sua validità universale.
Regno dei fini Per “regno” Kant intende «il legame sistematico tra gli esseri dotati di ragione
tramite delle leggi obiettive comuni». Gli esseri dotati di ragione, da un lato sono in grado di porsi
dei fini, dall’altro rappresentano essi stessi dei fini in sé. Il regno dei fini è dunque un sistema
che unifica sotto forma di legge i fini che si pongono gli esseri ragionevoli e dotati di dignità.
È nel regno dei fini che si realizza la libertà, in contrapposizione al rigido determinismo delle leggi
causali che vige nel regno della natura. Il regno dei fini è dunque una comunità ideale composta da
persone ragionevoli che liberamente scelgono di obbedire alle leggi morali. Il regno dei fini non
è quindi un’utopia, ma un ideale pratico a cui gli uomini devono conformarsi nell’esercizio della
propria libertà. Chi agisce moralmente lo fa in modo tale che il principio della propria azione
sarebbe riconosciuto e condiviso dalla comunità degli esseri razionali: in questo senso il regno dei
fini rappresenta una sorta di parametro ideale.
Dignità La dignità è il valore intrinseco e assoluto di un essere dotato di ragione. Mentre le cose
hanno un valore relativo, per esempio in relazione al denaro, non è possibile stabilire nessun tipo di
equivalenza per gli esseri ragionevoli.
Questi ultimi, infatti, diversamente dalle cose che obbediscono alle leggi causali, non obbediscono
ad altra legge che non sia quella istituita da loro stessi: ed è precisamente in questa libertà
legislativa che risiede la dignità dell’uomo. In breve, ogni uomo è un fine in se stesso proprio
perché è in grado di porsi dei fini.
Rigorismo Kant definisce rigoristi coloro che non ammettono «alcuna neutralità morale né negli
atti, né nei caratteri umani». Egli stesso adotta questo punto di vista propugnando una morale
fondata sull’ideale del “dovere per il dovere” escludendo qualsiasi riferimento a motivazioni esterne
(eudemonistiche o utilitaristiche) e al sentimento (come ad esempio la teoria dei sentimenti morali
di Hutcheson).
Deontologia Il termine deriva dal greco deon che significa il dovere, l’obbligo.
La deontologia è pertanto la dottrina che ha per oggetto il dovere. Quella kantiana è un tipico
esempio di etica deontologica in quanto prescrive il dovere per il dovere e non in vista del
raggiungimento di un particolare scopo.
Santità Nella Critica della ragion pratica Kant definisce la santità come «la conformità completa
della volontà alla legge morale», ma poiché la volontà è sempre soggetta a bisogni e moventi
sensibili, la santità è «una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale del mondo
sensibile in nessun momento della sua esistenza». La santità è perciò un ideale regolativo a cui deve
tendere il perfezionamento morale. Mentre la volontà santa di Dio è perfettamente adeguata alla
legge morale, la volontà buona dell’uomo deve compiere uno sforzo per conformarsi alla
prescrizione del dovere per il dovere, perciò è l’unica cosa autenticamente buona e la condizione del
bene supremo (ovvero la virtù) e di ogni sommo bene (il bene morale assoluto, che unisce virtù e
felicità).

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