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UMILTA - Aperifede Summer Young 2024

Il documento esplora l'importanza dell'umiltà come virtù cristiana, evidenziando come essa derivi dalla consapevolezza della grandezza di Dio e dalla nostra dipendenza da Lui. Attraverso riferimenti biblici e la figura di Maria, si sottolinea che l'umiltà non è disistima di sé, ma riconoscimento dei doni divini e apertura alla grazia. Infine, viene discusso come l'umiltà si traduca in atti concreti e relazioni con gli altri, enfatizzando che è un atteggiamento interiore che deve manifestarsi attraverso comportamenti di servizio e obbedienza.

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UMILTA - Aperifede Summer Young 2024

Il documento esplora l'importanza dell'umiltà come virtù cristiana, evidenziando come essa derivi dalla consapevolezza della grandezza di Dio e dalla nostra dipendenza da Lui. Attraverso riferimenti biblici e la figura di Maria, si sottolinea che l'umiltà non è disistima di sé, ma riconoscimento dei doni divini e apertura alla grazia. Infine, viene discusso come l'umiltà si traduca in atti concreti e relazioni con gli altri, enfatizzando che è un atteggiamento interiore che deve manifestarsi attraverso comportamenti di servizio e obbedienza.

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Parrocchia San Martino a Paperino

Aperifede: Summer Young


L’INFINITO NELL’UMILTA’
L'umiltà, spesso, è la virtù meno conosciuta e meno apprezzata. Il suo opposto, che è l'orgoglio,
sembra il sovrano di questo mondo con un dominio quasi incontrastato. Contro di esso, però, sta la
parola del Signore, tagliente come una spada: " Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà
esaltato " (Lc 14,11). E un principio generale che presenta coordinate al rovescio. E già l'AT ne
aveva avuto l'intuizione: " Quanto più sei grande, tanto più umiliati " (Sir 3,18).Da tutta la Bibbia
viene una risposta convergente: si diventa umili, collocandosi davanti a Dio. L'umiltà. nasce dal
senso di Dio, e questo lo può avere solo chi si mette in rapporto personale con lui. Bisogna aprire
gli occhi sulla sua gloria. Allora accadono tre cose: Anzitutto si sperimenta il proprio nulla. Non si
tratta di negare il bene che c'è in noi. L'umiltà è verità, non ipocrisia. Il bene che è presente in noi
è necessario riferirlo al suo vero Autore: " Ogni dono viene dall'alto, discende dal Padre della
luce" (Gc 1,17). " E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l'avessi ricevuto? ", aggiunge
s. Paolo (1 Cor 4,7). Si scopre che Dio è la fonte unica del bene: e l'uomo è una mano vuota tesa
verso di lui per essere colmata. Da noi non abbiamo nulla. Perciò, l'orgoglio è una forma pratica di
ateismo. In secondo luogo, davanti al Santo ci si scopre " venduti al peccato ". E così che reagisce
Isaia al canto dei serafini, che proclamano il Dio tre volte Santo: " Guai a me, perché un uomo dalle
labbra impure io sono, e i miei occhi hanno visto il Dio vivente " (Is 6,5). Allo stesso modo
reagisce Pietro dinanzi alla potenza di Gesù, che si rivela nella pesca miracolosa: " Allontanati da
me, che sono un uomo peccatore " (Lc 5,8). La gloria di Dio non rivela solo il suo volto, ma anche
l'impurità dello sguardo umano che lo contempla. Nasce allora un atteggiamento di fiducia totale in
Dio, e in Dio solo, che diventa apertura alla grazia. A questo punto Dio mobilita per l'umile la sua
potenza, non per l'orgoglioso, perché questi attribuirebbe a sé le " meraviglie " che Dio opera in lui,
oscurando così la gloria del Signore.
L'umile magnifica Dio che opera nel suo cuore. L'incarnazione più luminosa di questo atteggiamento
è la Vergine Maria. Ella si sente la " povera serva ": è un vuoto che attende di essere colmato. E
allora Dio le è andato incontro e l'ha colmata della sua grazia. Con uno sguardo l'ha sollevata dal
suo nulla, e l'ha resa così grande che " tutte le generazioni la chiameranno beata ". Il Magnificat è
il poema dell'umiltà (Lc 1,46-55). A sua volta, Maria è la punta di diamante di una tradizione
biblica che attraversa tutta la Sacra Scrttura: quello degli " anawim ", " i poveri di JHWH ". Questi
non hanno nulla e lo sanno. Non hanno nessuno su cui contare e allora si aprono a Dio, e Dio li
colma dei suoi doni. "Sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui " (Sal 36,7).
Come in Cristo, l'umiltà. prima che una virtù, è un modo di essere e relazionarsi con l'Altro e con
gli altri. In Cristo questo è evidente. Troviamo nell'inno cristologico dei Filippesi (2,6-8) la
descrizione dell'umiltà abissale della Incarnazione: " Cristo pur essendo di natura divina... spogliò
se stesso assumendo la condizione di servo... si umiliò facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla
morte di croce ". A questa parabola discendente di umiliazione, che interessa Cristo nelle radici
stesse del suo essere, e tocca il fondo non potendo scendere più in basso, fa seguito la
esaltazione del Padre, che "gli dà il nome che è al di sopra di ogni altro nome ": un punto così alto
oltre il quale non si può salire.
E l'umiltà dell'essere. Non consiste nel « sentirsi piccoli » (non poteva farlo il « Signore »), ma nel
« farsi piccoli ». La storia della salvezza è la storia della umiliazione di Dio. Cristo è umiltà. Così il
discepolo: se l'umiltà è un modo di essere, si libera dall'autosufficienza, che fa dell'io un idolo.
Finché l'uomo si confronta solo con se stesso e con gli altri non comprende nulla della sua
situazione. Deve porsi davanti a Dio e alla sua Parola: è lo specchio in cui scopre il suo vero volto
interiore. Allora aderisce a Cristo e lo segue dove va: e diventa come lui " mite e umile di cuore "
(Mt 11,28-30).
Allora anche nei confronti degli altri attua l'esortazione dell'Imitazione di Cristo: "Ama nesciri et
pro nihilo reputari ", cioè sii contento quando gli altri ti ignorano e non ti apprezzano per nulla. Ci
si libera così dall'orgoglio che fa dell'io un idolo, come un gabbia che t’imprigiona.
Come si fa a diventare umili?
Di certo non nasciamo umili. Fin dall’inizio siamo minacciati da quella terza concupiscenza che
prende il nome di superbia della mente (1 Gv 2,16). Il demone dell’amor proprio, che è il contrario
dell’umiltà, non ci lascia fino a quando non abbiamo esalato l’ultimo respiro. Anzi, qualcuno ha detto
che se ne va solo dopo che siamo morti. Per diventare umili è necessario anzitutto aver chiaro che
cosa è umiltà rche cosa non è. Ebbene, partiamo dalla definizione secondo San Tommaso “l’umiltà è
quella virtù che propriamente riguarda la riverenza con la quale l’uomo si sottomette a Dio non solo
in se stesso, ma anche per quanto di divino c’è in ogni creatura” (S. Th., II-II, 161, 3, ad 1).
Come si vede, l’umiltà non è essenzialmente disistima di se stessi , o rassegnazione nei confronti
di insulti e maltrattamenti, sebbene questo il più delle volte vi sia compreso. Gesù ha detto:
“Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,28), avocando a sé l’insegnamento
dell’umiltà. Questa virtù si impara solo da Lui.
La grande portata dell’affermazione di Gesù viene evidenziata dal fatto che i filosofi pagani, a
cominciare da Aristotele, non consideravano l’umiltà come una virtù.
Per questo Sant’Agostino ama chiamare Cristo il “dottore dell’umiltà” (doctor humilitatis
Christus). Dice anche che è Cristo che l’ha portata nel mondo: “La via di quest’umiltà viene da
Cristo” (Enarratio in Psalmos 31, s.2, 18). E sottolinea che “Cristo non ha detto: imparate da me a
costruire il mondo o a risuscitare i morti; ma imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (De
sacra virginitate, 35,35). L’umiltà è la virtù che va posta come fondamento dell’edificio cristiano,
che consiste nella carità. Ma la carità e cioè l’amore per il Signore e l’amore soprannaturale per il
prossimo cresce di pari passo con l’esercizio dell’umiltà. Se si vuole una carità sempre più grande,
anche l’umiltà dev’essere sempre più profonda. Ma veniamo al dunque: come si impara l’umiltà?
Per san Benedetto s’impara stando alla presenza di Dio. È stando alla presenza del Signore che si
vede bene che tutto viene da Lui, che in noi non c’è alcun motivo per vantarsi e che nel nostro
prossimo il Signore ci parla e attraverso di lui ci educa. Questo richiamo a stare alla presenza del
Signore ci viene in maniera imperiosa da quelle parole che Dio ha detto ad Abramo e che valgono
per ognuno di noi: “Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro” (Gn 17,1).
Lo stare alla presenza di Dio sempre e davanti a tutti, anche davanti al più miserabile tra gli
uomini, è il segreto della buona riuscita nell’esercizio di ogni virtù. Non è tutto dell’umiltà, ma è la
porta dalla quale si entra e si inizia il cammino.
Se non c’è questo, è facile trovarsi dinanzi ad una falsa umiltà, che non santifica in nessun modo e
rinchiude in se stessi. Questo è il cosiddetto amor proprio, che ha un significato negativo ed è
sinonimo di vanagloria .Con questa parola si intende fare tutto per proprio vanto.
Il contrario di amor proprio e di vanagloria è la cosiddetta purezza di intenzione. Che significa: far
tutto in onore di Dio o per amore di Dio.
Mortificare l’amor proprio è pertanto l’equivalente di impegnarsi a mortificare la vana gloria e a
ricordare che il bene che facciamo è dono di Dio. Per questo San Paolo dice: “Perché, come sta
scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore”.“Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai
ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7).
Oggi si parla molto di autostima e giustamente c’è da notare come tutto questo non sia tanto
conciliabile con gli insegnamenti evangelici che spingono verso l’umiltà e a considerarci servi inutili.
Ma non è così. Nell’autostima è necessario distinguere ciò che vi è giusto e ciò che vi è sbagliato.
Se per autostima indichiamo la necessità di riconoscere i talenti che il Signore ci ha dato e che
siamo tenuti a trafficare, investire e valorizzare, rimaniamo perfettamente nella logica evangelica.
Sappiamo che Dio ci chiederà conto di quello che non abbiamo voluto fare.
La parabola dei talenti lo dimostra ampiamente (Mt 25,14-30).Essere umili non significa
misconoscere i doni o i talenti che Dio ci ha dato. Questa sarebbe falsa umiltà. San Paolo è
consapevole dei doni ricevuti. Dice ad esempio: “Tuttavia, in quello in cui qualcuno osa vantarsi,lo
dico da stolto. Oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di
Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di
più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo
di morte” (2 Cor 11, 21-23).
Tuttavia sa che tutto questo non viene da lui, ma da Dio.
E per questo dice: “Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne
vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7) e “Perciò chi si vanta, si vanti nel Signore” (2
Cor 10,17). Nella consapevolezza delle risorse che il Signore ci ha dato giova ricordare che il
cristiano non confida solo nelle capacità naturali (anch’esse dono di Dio) ma anche in quelle di
ordine soprannaturale per cui mai si abbatte e può dire con San Paolo: “Tutto io posso in colui che
mi dà la forza” (Fil 4,13).
Possiamo tranquillamente dire, che non c’è niente come nel Vangelo che possa ingrandire
l’autentica autostima. La competizione nel commercio, nei concorsi, nelle gare non è contraria
all’umiltà cristiana. Sarebbe contraria solo se volesse godere dell’umiliazione del prossimo.
Ma se si tratta di mettere a servizio del prossimo le migliori qualità perché non lo si dovrebbe
fare? Perché anche in una partita di calcio non si dovrebbero fruttificare le proprie capacità a
gloria di Dio e godimento degli spettatori?
Sarebbe una mancanza di carità il non farlo. Tutto questo non contrasta con il ritenersi servi inutili
perché tutto quello che abbiamo non l’abbiamo da noi stessi, ma da Dio.
Non sarebbe stolto un raggio di luce se si pavoneggiasse per la propria bellezza dicendo: ho fatto
tutto da me stesso?
L’obiettivo di una competizione non è l’umiliazione o la sconfitta degli altri ma la vittoria di ciò che
è meglio e più bello. I vinti stessi lo riconoscono dicendo “onore al merito”. Lo dicono anche per
perfezionare se stessi.L’umiltà non contrasta con il compimento delle opere grandi.
Tutti i grandi Santi fondatori, soprattutto i Santi operatori nella carità, hanno fatto opere grandi e
che durano tuttora. Eppure sono stati umilissimi a somiglianza, dell’Onnipotente, di Colui che ha
creato il cielo e la terra e ha detto: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete
ristoro per le vostre anime” (Mt 11,29).
L'umiltà è solo un atteggiamento interiore? Lo è anzitutto, ma dal cuore umile devono sgorgare atti
concreti. E la linea in cui si pone s. Benedetto nella sua Regola (cap. VII) quando parla dei " gradi
dell'umiltà ". Sembra porsi questa domanda: da quali segni si riconosce l'umile? In quali gesti
incarna il suo atteggiamento interiore? Ed egli ne enumera tutta una lunga serie, che vede come
gradini di una scala. E il primo gradino è " l'ubbidienza senza indugio ", perché solo l'umile è capace
di rinunciare alla sua volontà, per aderire a quella del Cristo. D'altronde, pur dovendosi
concretizzare, l'umiltà non si identifica con nessuna delle sue manifestazioni. Le postula, ma
insieme le trascende perché conduce direttamente nel cuore di Dio che si è umiliato, cioè fatto
carne per permettere all'uomo di pervenire alla sua stessa intimità d'amore, cioè di ritrovarsi in un
Dio trinitario e riposare in lui.

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