Diritto internazionale. Prof A.
Pietrobon
N. Ronzitti “Introduzione al diritto internazionale”
Capitolo 1. Enti che partecipano alla vita di relazione internazionale.
I soggetti del diritto non sono, in un sistema giuridico, necessariamente identici per quanto
riguarda la loro natura o il contenuto dei loro diritti. Possono essere individuate quattro
categorie di soggetti, ciascuna delle quali si caratterizza per propri caratteri peculiari
1. Enti territoriali
Stati sovrani e indipendenti
Ruolo primario nella vita di relazione internazionale è assunto dagli enti dotati di potestà
territoriale, ed innanzi tutto dagli Stati: essi sono i principali soggetti del diritto internazionale.
La soggettività internazionale costituisce prerogativa degli Stati sovrani e indipendenti: non sono
quindi soggetti gli stati membri di uno stato federale, poiché mancano del requisito
necessario dell’indipendenza, costituendo parti di un più ampio ente, lo stato federale. La
capacità di stipulare trattati, eventualmente attribuita dalla Costituzione allo stato membro,
non è elemento da cui si possa desumere la personalità internazionale; si tratta soltanto di
capacità che spettano allo stato federale e che sono costituzionalmente decentrate (discorso
simile va fatto per le regioni italiane, che ai sensi dell’art 117 cost. hanno il diritto di stipulare
accordi con stati).
In linea di principio non costituisce elemento rilevante ai fini dell’acquisto della soggettività
internazionale la dimensione del territorio di uno Stato o della sua popolazione. Un problema
sorge tuttavia con riferimento ai c.d. Stati esigui. Tali stati, invero, dipendono in misura più o
meno larga da terzi per la condotta delle loro relazioni internazionali: si potrebbe
argomentare che questi, essendo sprovvisti del carattere dell’indipendenza, non siano
soggetti del diritto internazionale. Tuttavia è impossibile formulare conclusioni di carattere
generale ma occorre analizzare individualmente le situazioni concrete che si presentano nella
vita di relazione internazionale: se l’ingerenza è particolarmente incisiva bisogna dubitare della
soggettività internazionale dell’ente.
Occorre comunque ricordare che gli stati esigui sono membri delle NU (Liechtensein,
Monaco e San Marino), inoltre alcuni stati del pacifico hanno proclamato una ZEE dove
esercitano diritti sovrani.
Mancano del requisito dell’indipendenza ma sono da taluni considerati come soggetti del
diritto internazionale, gli Stati protetti. Si tratta di entità formatesi durante il periodo
coloniale. Lo stato protettore assumeva la rappresentanza internazionale dello stato protetto
e stipulava per suo conto i trattati internazionali. I rapporti tra stato protettore e stato
protetto erano disciplinati da un trattato internazionale concluso tra i due. Oggi un
tale trattato sarebbe da considerarsi invalido, poiché contrario ad una norma
imperativa del diritto internazionale (divieto di ristabilimento di una dominazione
coloniale e situazioni assimilabili). Il protettorato deve essere distinto dai territori sotto
mandato (esistenti al tempo della Società delle Nazioni) e da quelli sotto
amministrazione fiduciaria disciplinati dal Capitolo XII della Carta delle NU, che sono
entità prive di soggettività internazionale. Il protettorato deve pure essere distinto
dall’amministrazione internazionale di territori, quali il Kosovo, provincia jugoslava
amministrata dalle NU in virtù della ris.
1244 (1999) del Cds.
Non sono stati, mancando del requisito di indipendenza, i c.d. stati fantoccio,
creati dall’occupante durante la guerra, un atto proibito dal diritto
internazionale.
Da non annoverare tra i soggetti di diritto internazionale sono pure quelle entità, dotate
di autonomia all’interno di uno stato, che dovrebbero diventare il nucleo su cui costituire
un futuro stato. È questo il caso dell’Autorità Nazionale Palestinese, costituita all’interno
dei territori occupati da Israele in attuazione degli Accordi di Oslo-Washington (1993).
L’autorità nazionale palestinese manca del carattere dell’indipendenza, essendo soggetta
alla volontà di Israele, che controlla le frontiere terrestri, marittime e aree dei territori
governati dall’Autorità. I rapporti Israele-Autorità sono da inquadrarsi nel contesto del
diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.
Quello che viene in considerazione in diritto internazionale è lo Stato-organizzazione,
cioè quel complesso ristretto di organi che regge e dirige l’ente. La triade governo-
territorio- popolazione rappresenta lo Stato-comunità, ma territorio e popolazione non
sono elementi costituivi della personalità dello Stato. Essi ne sono tuttavia elementi
identificativi, e possono avere una loro rilevanza per determinare, in caso di
dissoluzione, se lo Stato si è estinto oppure se vi sia un’entità che continui la
personalità internazionale del soggetto precedente.
La nascita di uno Stato è una questione di fatto in diritto internazionale, come ha
osservato la Commissione Badinter nel suo parere n.1 sulla Jugoslavia. La
Cassazione italiana ha affermato che l’organizzazione di governo che eserciti
effettivamente ed indipendentemente il potere di governo su una comunità territoriale
diviene soggetto di diritto internazionale in modo automatico, senza che sia
necessario il riconoscimento di altri Stati. Così come la nascita, anche l’estinzione
dello Stato è un fenomeno reale.
Da considerarsi una mera fictio iuris è la Teoria degli “Stati risorti”, secondo cui la
personalità internazionale dello Stato non sarebbe venuta meno, nonostante
l’incorporazione da parte di un altro Stato (ad es le 3 repubbliche Baltiche). Questa
teoria, quando l’incorporazione sia frutto di un illecito uso della forza, può essere oggi
apprezzata alla luce del principio secondo cui esiste il dovere di non riconoscere le
conseguenze giuridiche derivanti dall’aggressione.
Anche una situazione di anarchia, che comporti una rottura costituzionale
dell’ordinamento interno, non estingue lo Stato nel senso del diritto internazionale. La
prassi attesta che i c.d. Failed States, continuano ad essere membri delle organizzazioni
internazionali, come dimostrano i casi di Somalia e Sierra Leone. Chi sono i leggitimi
rappresentanti?????????????
Insorti
Partecipano alla vita di relazione internazionale quali enti territoriali i movimenti
insurrezionali (o insorti o partito insurrezionale), che perseguono mediante la lotta
armata il rovesciamento del governo di uno Stato, oppure la secessione di una parte di
territorio dello stato medesimo, purchè abbiano acquisito un controllo abbastanza
stabile su una parte del territorio nazionale.
Il movimento insurrezionale può essere considerato un ente territoriale solo
quando eserciti effettivamente un controllo esclusivo su una porzione di
territorio e relativa popolazione, e non si tratti di semplici disordini interni.
La rilevanza internazionale degli insorti è legata al principio di effettività. Il movimento
insurrezionale si caratterizza per essere un ente temporaneo, in quanto suscettibile di
un’evoluzione (trasformazione in un nuovo stato) o di una involuzione (sconfitta del
movimento).
La capacità internazionale degli insorti è sostanzialmente limitata alle norme che
regolano la condotta delle ostilità con il governo legittimo ed a quelle che disciplinano
l’esercizio
del potere d’imperio del movimento insurrezionale sul territorio da esso controllato
(protezione degli stranieri, ecc). In relazione a tali materie, il movimento insurrezionale
gode altresì della capacità di concludere accordi con altri soggetti internazionali.
Per quanto concerne la disciplina della guerra civile, il governo legittimo può
lecitamente reprimere l’insurrezione, incontrando nella sua azione soltanto limiti di
natura umanitaria; i membri delle forze armate insurrezionali non sono legittimi
combattenti, e dunque, ove catturati, non hanno diritto allo status di prigioniero di
guerra, ma possono essere trattati come semplici criminali.
I terzi possono aiutare il governo costituito ma non gli insorti: qualora lo facessero,
commetterebbero un illecito internazionale.
A causa dell’insurrezione, i terzi possono avere subito dei danni dagli insorti. In
linea di principio, se l’insurrezione è sconfitta, il governo legittimo non è responsabile
per i danni provocati dagli insorti. Al contrario se l’insurrezione è vittoriosa il nuovo
governo è tenuto a riparare i danni causati dagli insorti.
2. Enti non territoriali che aspirano a divenire organizzazione di governo
di una comunità territoriale
Governi in esilio
L’istituto dei governi in esilio ha avuto particolare rilevanza nel periodo della IIWW.
Perché possa aversi un governo in esilio è ovviamente necessario che vi sia uno
stato ad ospitare tale ente ed a permettergli di esplicare funzioni modellate su quelle
di un’organizzazione statale.
È da ammettere una rilevanza sul piano internazionale dei Governi in esilio quando il
nuovo assetto della comunità territoriale da cui essi provengono e che aspirano a
governare di nuovo, sia da giudicare transitorio, cioè sprovvisto di stabilità. L’esempio
tipico è il caso di occupatio bellica.
Il governo in esilio opera come un “ente fiduciario” del popolo da esso
rappresentato, opinione che trova conferma alla luce del principio di
autodeterminazione dei popoli. La rilevanza internazionale di questi enti è ancor di
più sottolineata dalla norma cogente sul divieto di aggressione, che impedisce di
riconoscere qualsiasi effetto alle situazioni internazionali derivanti da tale illecito
internazionale. Ne è un esempio il caso dell’annessione del Kuwait da parte
dell’Iraq, dichiarata nulla e non avvenuta dalle NU (ris.662-1990 del Cds), ed alla
rilevanza internazionale assunta dal governo kuwaitiano in esilio in Arabia Saudita,
che ha continuato ad essere rappresentante in seno alle NU.
Comitati nazionali all’estero
Questi enti hanno assunto particolare rilevanza nel contesto della IWW.
Il comitato nazionale all’estero è un ente il quale assume la gestione degli interessi di
una comunità nazionale che aspira a governare in futuro, ma che è attualmente
soggetta ad un potere statale. L’esistenza di questi comitati presuppone che vi sia uno
Stato, in guerra con lo stato di cui il comitato è espressione, disposto ad ospitarli,
altrimenti lo Stato ospitante violerebbe la norma sul non intervento e allo stesso
tempo il comitato non avrebbe rilevanza internazionale. Tuttavia è anche richiesto che
al Comitato nazionale sia consentito l’esercizio di funzioni di governo sui connazionali
che si trovino all’estero, nonché che il Comitato si ponga come ente militare, cioè che
esso disponga di proprie forze armate. La figura del comitato nazionale ha oggi perso
di importanza e per certi aspetti pare assorbita da quella del movimento di liberazione
nazionale.
Movimenti di liberazione nazionale
Sono enti organizzati rappresentativi di popoli in lotta per l’autodeterminazione.
La rilevanza internazionale di questi movimenti, a differenza di quanto avviene per
gli insorti, non è legata alla circostanza di esercitare un potere di governo su un
territorio (e dunque al principio di effettività) ma trova il suo fondamento nel
principio giuridico dell’autodeterminazione dei popoli. In particolare il movimento di
liberazione nazionale è l’ente rappresentativo di un popolo, soggetto a dominio
coloniale o razzista o ad occupazione straniera.
La partecipazione di questi movimenti alla vita di r.i. si realizza in vari modi. Essi
prendono parte ai lavori di organizzazioni internazionali e partecipano a conferenze
internazionali (ad es l’OLP ha goduto dello status di osservatore in seno
all’Assemblea Generale dell’ONU ed è stata membro della lega araba). Una seconda
manifestazione importante della personalità internazionale di questi movimenti è data
dalla capacità di concludere accordi, soprattutto riguardo allo svolgimento delle ostilità
contro il governo costituito o alla costituzione del futuro stato (es: OLP stringe accordi
con paesi arabi per regolare la presenza sul territorio di tali stati delle forze armate
palestinesi, nonché accordi Oslo-Washington nel 1993).
Ovviamente il campo in cui maggiormente si manifesta la rilevanza internazionale dei
movimenti di liberazione nazionale è quello relativo alla lotta armata. La disciplina
delle guerre di liberazione nazionale si è profondamente distaccata da quella delle
guerre civili: si è affermata sul piano consuetudinario la regola per la quale il governo
costituito non può usare la forza per privare il popolo del diritto
all’autodeterminazione.
Il diritto consuetudinario vieta agli Stati terzi di intervenire, in un guerra di liberazione
nazionale, a favore del governo costituito; tale divieto copre sia l’intervento armato
diretto sia ogni altra forma di assistenza il cui scopo sia quello di agevolare l’azione
repressiva del governo costituito. Varie risoluzioni dell’Assemblea Generale
attribuiscono ai popoli privati con la forza del loro diritto all’autodeterminazione
(dominio coloniale, razzismo, occupazione) il diritto di ricevere assistenza dai terzi stati
nel corso di una guerra di liberazione nazionale.
[Link] non territoriali che non aspirano a divenire organizzazioni di governo
Santa Sede
Sin dalle origini della moderna comunità degli stati è riconosciuta la personalità di diritto
internazionale della Santa Sede, quale suprema autorità della Chiesa Cattolica.
Essa ha il potere di concludere accordi internazionali, partecipa ai lavori di
organizzazioni internazionali (status di osservatore presso le NU ecc) e prende parte
alle conferenze internazionali.
I rapporti tra Italia e Santa Sede sono disciplinati dai Patti Lateranensi (1929), i quali
constano di un trattato, una convenzione finanziaria e un Concordato (che è stato
sostituito con l’Accordo del 1984). In virtù dell’art.24 del Trattato lateranense, la Città
del Vaticano assume lo status di neutralità permanente.
La Santa sede, in quanto ente internazionale, è esente dalla giurisdizione italiana, nonché
dall’ingerenze dello stato italiano sui suoi organi centrali (art.11 del Trattato).
La Santa sede in quanto persona internazionale deve essere tenuta distinta dallo
stato della Città del Vaticano, che invece ha un dominio territoriale. Dei trattati che
presuppongono la sovranità su un territorio è parte lo stato Città del Vaticano e non la
Santa Sede: il collegamento tra le due entità è dato dal fatto che il Pontefice è
l’autorità centrale di entrambe.
Ordine di Malta
Dal 1798 è venuto meno ogni dominio territoriale dell’Ordine di Malta, poiché Malta
non venne retrocessa all’Ordine, ma fu ceduta dalla Francia alla Gran Bretagna con il
Trattato di Pace del 1814. ciononostante l’Ordine ha continuato a svolgere diverse
attività di rilievo internazionale, in special modo in ambito umanitario, nonché ad
intrattenere relazioni diplomatica con vari stati.
Nel 1994 l’Ordine è stato ammesso come osservatore presso l’Assemblea Generale delle
NU, oltre ad avere già rappresentanti accreditati in altre organizzazioni internazionali
(OMS…).
Un’autorevole parte della dottrina non considera l’ordine come un soggetto del diritto
internazionale e vi è chi lo assimila ad una ong. Il principale motivo di queste posizioni è
il difetto di indipendenza dell’Ordine dalla Santa Sede; secondo altra parte della dottrina
l’Ordine sarebbe persona solo nei confronti dei soggetti che lo riconoscono. Il
riconoscimento avrebbe cioè natura costitutiva.
Comitato internazionale della Croce Rossa
Il comitato si è costituito nella forma di associazione di diritto privato ai sensi del diritto
svizzero. Esso ha sede a Ginevra ed è composto da individui che sono nominati per
cooptazione. Il CICR esercita rilevanti funzioni e svolge attività di rilievo internazionale
durante i conflitti armati.
Al CICR è stato attribuito lo status di osservatore presso l’ONU.
[Link] non territoriali che hanno legami con gli Stati.
Organizzazioni internazionali
Con tale termine si identificano associazioni fra Stati provviste di un proprio apparato di
organi. Le organizzazioni internazionali non sono enti originari della comunità
internazionale, come gli Stati sovrani e indipendenti, ma sono enti derivati: esse
nascono infatti per volontà degli Stati, espressa nel c.d. trattato istitutivo. Esistono
tuttavia organizzazioni che non sono state fondate tramite un trattato (es: l’OSCE si
fonda sui documenti adottati dagli stati che parteciparono alla CSCE nel 1975 a
Helsinki).
Non sono invece organizzazioni internazionali gli enti costituiti in virtù del diritto
interno di uno stato, anche se annoverano tra i membri altri stati.
Le O.I. hanno, di regola, una struttura tripartita, composta da un’Assemblea, in cui
sono rappresentati tutti i membri, un Consiglio esecutivo e un Segretario Generale,
che agisce nell’interesse esclusivo dell’organizzazione. Gli Stati divengono membri
delle organizzazioni mediante una procedura di ammissione. Uno stato può essere
sospeso oppure espulso dall’organizzazione, perdendo così il suo status di
membro.
Riguardo alla personalità internazionale, assume un rilievo primario la capacità
riconosciuta alle o.i. di concludere accordi con Stati o altre organizzazioni: la materia
del diritto dei trattati fra stati e organizzazioni è regolata da un’apposita convenzione di
codificazione conclusa a Vienna nel 1986. le o.i. sono inoltre titolari del diritto alla
protezione dei propri funzionari da parte dello Stato sul cui territorio si trovano ad
operare. Tuttavia, nonostante la personalità internazionale delle o.i. sia ormai accettata, la
Corte internazionale di giustizia ha affermato che esse “sono soggetti di diritto
internazionale che non posseggono, a differenza degli stati, una competenza
generale”.
Cioè, le o.i. avrebbero una capacità internazionale limitata e sarebbero titolari di un
numero limitato di situazioni giuridiche soggettive. Non bisogna però confondere la
personalità internazionale con la capacità di diritto interno. Mentre la personalità
internazionale ha per oggetto titolarità di situazioni giuridiche soggettive derivanti da
norme internazionali, la personalità di diritto interno, implica che l’organizzazione, negli
ordinamenti degli stati parti del trattato istitutivo, gode della capacità giuridica
necessaria per lo svolgimento delle sue funzioni: a esempio può acquistare ed alienare
immobili o stare in giudizio.
Le o.i. a differenza degli stati non hanno un territorio; quindi non godono del diritto di
sovranità territoriale e non esercitano le relative competenze. Eccezionalmente esse
sono chiamate all’amministrazione di territori. Ad esempio le NU, tramite l’UNMIK
hanno assicurato l’amministrazione del Kosovo, o l’UE ha amministrato la città di
Mostar nel periodo 1994-96.
La dipendenza dell’o.i. dall’accordo istitutivo e in ultima analisi dagli Stati si riflette sul
problema della responsabilità internazionale.
L’ONU. L’Organizzazione delle Nazioni Unite si compone di vari organi principali,
elencati all’articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite. Vi sono: l’Assemblea Generale
(cap IV, art 9-22), composta dai rappresentanti di tutti gli stati membri; il Consiglio di
Sicurezza (cap V, art 23-32) composto da 15 membri, di cui 5 permanenti con diritto
di veto (Cina, Francia, UK, USA, Federazione Russa) e 10 eletti a rotazione
dall’Assemblea per un periodo di due anni e non immediatamente rieleggibili; il
Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC, cap X, art 61-72); il Consiglio di
amministrazione fiduciaria (le cui funzioni sono cessate con la fine della
decolonizzazione); la Corte Internazionale di Giustizia (cap XIV, art 92-96) composta
da 15 giudici che siedono a titolo individuale e durano in carica 9 anni; il Segretariato
(cap XV, art 97-101) con a capo il Segretario Generale.
La procedura di ammissione all’ONU è disciplinata dall’art 4 della Carta:
1. Possono diventare Membri delle Nazioni Unite tutti gli altri Stati amanti della pace che
accettino gli obblighi del presente Statuto e che, a giudizio dell’Organizzazione, siano capaci di
adempiere tali obblighi e disposti a farlo.
2. L’ammissione quale Membro delle Nazioni Unite di uno Stato che adempia a tali condizioni è
effettuata con decisione dell’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza.
L’eventuale sospensione o espulsione dall’organizzazione sono regolate dagli artt 5 e 6
della Carta, ma si tratta di misure che non sono mai state adottate.
“Articolo 5
Un Membro delle Nazioni Unite contro il quale sia stata intrapresa, da parte del Consiglio di
Sicurezza, un’azione preventiva o coercitiva può essere sospeso dall’esercizio dei diritti e dei
privilegi di Membro da parte dell’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza.
L’esercizio di questi diritti e privilegi può essere ripristinato dal Consiglio di Sicurezza.
Articolo 6
Un Membro delle Nazioni Unite che abbia persistentemente violato i princìpi enunciati nel
presente Statuto può essere espulso dall’Organizzazione da parte dell’Assemblea Generale su proposta del
Consiglio di Sicurezza.”
La procedura di voto in seno agli organi collegiali dell’organizzazione è disciplinata
dai relativi atti istitutivi o è frutto della prassi invalsa nell’organo. Si distingue tra
consensus (non presente nella Carta ma invalso nella prassi), unanimità,
maggioranza semplice e maggioranza qualificata. L’art 18 della Carta delle NU
stabilisce che le decisioni dell’AG su “questioni importanti”siano prese a maggioranza
di due terzi dei membri presenti e
votanti. Nel caso del Cds risultano necessari, ai fini dell’approvazione di una risoluzione,
i voti dei cinque membri permanenti (diritto di veto).
[Link] che partecipano occasionalmente alla vita di relazione internazionale
L’individuo
È difficile ammettere la personalità internazionale dell’individuo, dato che questo non
è partecipe di nessuna delle tre forme essenziali dell’ordinamento giuridico, ad
eccezione di una limitata capacità per quanto riguarda l’accertamento del diritto
relativamente ai trattati che proteggono i diritti umani, nonché una rilevanza nelle
normative relative ai crimini internazionali. Tuttavia non si tratta di norme che
assegnano diritti e doveri direttamente ai cittadini, quanto norme che obbligano gli
stati a dettare, all’interno dei propri ordinamenti nazionali delle direttive in tal senso.
L’unico elemento a favore della titolarità di doveri derivanti direttamente
dall’ordinamento internazionale è dato dal fatto che l’individuo è ritenuto responsabile
di un crimine internazionale anche se il fatto non sia considerato tale dalla legge
penale interna. Qualora ci sia discrasia tra l’ordinamento internazionale e quello
interno, nel senso che un fatto è considerato crimen iuris gentium dal primo ma non è
punito dal secondo, la norma di origine internazionale deve essere comunque
applicata all’interno dell’ordinamento nazionale. Tale costruzione è confermata dall’art
15 del Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966.
Quanto alle situazioni giuridiche di natura processuale, l’individuo può mettere in moto
il procedimento dinanzi al Comitato dei diritti dell’uomo per far valere una violazione
del Patto sopra citato; la procedura si conclude con una “constatazione”. Ben più
incisiva è la procedura per far valer una violazione della Convenzione europea del
1950 dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo: in questo caso la procedura
implica una partecipazione attiva dell’individuo, e si conclude con sentenza, cioè un
atto giuridicamente vincolante. (meccanismi simili valgono per la Corte interamericana
dei diritti dell’uomo).
Non rileva ai fini della personalità internazionale dell’individuo la titolarità di diritti e
obblighi nell’ambito degli ordinamenti derivati dal diritto internazionale (es: la CE).
Quanto detto a proposito dell’individuo vale anche per le persone giuridiche. I
trattati bilaterali in materia di investimento possono attribuire determinati diritti alle
imprese. Ma in realtà, i rapporti giuridici intercorrono tra Stato nazionale dell’impresa e
Stato ospitante. L’Impresa godrà diritti all’interno dello stato ospitante, in seguito
all’attuazione del trattato internazionale all’interno di quest’ultimo.
Capitolo 2. Il Riconoscimento
1. Il riconoscimento di nuovi Stati
la nascita di uno Stato sovrano e indipendente è un avvenimento che si realizza sul
piano storico, una situazione di fatto della quale il diritto internazionale prende
semplicemente atto (principio di effettività). Ogni volta che una nuova entità statale si
affaccia sulla scena internazionale invale fra i membri della comunità degli Stati
preesistenti la pratica di procedere al riconoscimento del nuovo stato. Con il
riconoscimento gli stati prendono atto della realtà del nuovo stato e manifestano la
volontà di entrare in relazione con esso.
Nella prassi il riconoscimento ha assunto forme diverse. Si parla di riconoscimento
de iure o pieno, nel caso in cui lo stato che vi procede ritiene che la situazione del
nuovo stato sia caratterizzata da completa stabilità e dunque si possa procedere
all’instaurazione di normali relazioni. Si ricorre invece ad una forma più blanda di
riconoscimento, il c.d. riconoscimento de facto, quando si ritiene che non sussistano
queste condizioni.
Sotto il profilo formale , l’atto di riconoscimento può avere i più svariati contenuti: dal
messaggio di congratulazioni al nuovo Capo di Stato alla nota formale, proveniente da
un capo di stato, da un ministro degli esteri o comunque da un organo che esprime la
volontà dello Stato nelle relazioni internazionali. Il riconoscimento può essere anche
tacito o implicito, cioè risultare da comportamenti concludenti dello stato preesistente
(stipula di trattati, ecc).
Il riconoscimento non ha valore costitutivo della personalità internazionale dello
stato: esso è un atto politico ed è pienamente discrezionale. Ciononostante il
riconoscimento rappresenta l’atto di fondazione della vita sociale del nuovo stato:
uno stato di nuova formazione che non fosse oggetto di riconoscimento verrebbe ad
essere titolare soltanto dei diritti e obblighi derivanti dalle norme di diritto
consuetudinario (es: norme sulla sovranità territoriale, divieto dell’uso della forza,
ecc).
Gli stati preesistenti non possono ignorare i diritti elementari che spettano ad uno
stato non riconosciuto. Inoltre il riconoscimento contribuisce a creare l’effettività della
situazione e a consolidare l’esistenza del nuovo stato. Di regola uno stato non
riconosciuto, o la cui esistenza è contestata da una componente importante della
comunità internazionale non può divenire membro delle NU.
La nuova entità da riconoscere deve essere effettivamente uno stato indipendente; il
riconoscimento non deve essere prematuro. Gli stati dovrebbero avere un dovere di
non riconoscere entità che sono sorte grazie all’aggressione e alla violazione del
divieto di uso della forza delle relazioni internazionali, come si può desumere dal
parere n. 10 della Commissione di Arbitrato sulla ex-Jugoslavia (1992). Un problema
in questo senso è sorto per il Kosovo, che si è proclamato indipendente nel 2008.
Le radici dell’indipendenza kosovara si fondano sull’intervento armato della NATO
nel 1999, la cui liceità non può essere fondata su un preteso diritto di intervento per
ragioni di umanità, senza l’autorizzazione del Cds dell’ONU. Dopo la fine della
IIWW, il Kosovo è l’unico esempio di Stato la cui nascita è dovuta ad un uso illecito
della forza, a parte lo stato turco di Cipro del nord, creatosi nel ’74 a seguito
dell’invasione turca dell’isola, per
cui il Cds ha stabilito un dovere di non riconoscimento (ris.541/1983). peraltro il Kosovo
è stato riconosciuto da un numero di Stati che rappresenta circa un quarto della
comunità internazionale e l’opposizione di almeno un membro permanente
(federazione russa) ne renderebbe impossibile l’ingresso alle NU.
2. Il riconoscimento di nuovi governi
il riconoscimento di un nuovo governo è effettuato nel caso di mutamento
rivoluzionario del governo al potere in uno stato preesistente. Il mutamento
rivoluzionario di regime, pur rompendo l’ordine costituzionale, non estingue lo stato
come soggetto di diritto internazionale.
Il riconoscimento di governi esprime la volontà dello Stato che vi procede di
mantenere con il nuovo governo le stesse relazioni internazionali che si avevano con
il governo precedente. Si tratta di un atto di natura politica e dunque discrezionale.
La carenza di effettività del nuovo governo può essere supplita dal sostegno dato
dalle NU alla nuova organizzazione di governo (es: ris 1386 del Cds 2001,
approvò l’autorità provvisoria afgana che succedette al governo dei talebani).
Il mancato riconoscimento non significa che viene interrotto ogni rapporto fra i due stati:
i trattati bilaterali rimangono in vigore e le relazioni diplomatiche normalmente
continuano benché ad un livello più basso del precedente. Il riconoscimento di governi
ha luogo nella prassi e può assumere rilevanza pratica notevole, anche quando ci siano
due organizzazioni di governo rivali che pretendono entrambe di essere riconosciute
come il governo legittimo di uno stato.
3. Il riconoscimento di insorti e di belligeranza in caso di guerra civile
Il riconoscimento di insorti (recognition of insurgency) esprime la volontà di stati
terzi rispetto al conflitto di non trattare gli insorti alla stregua di meri criminali. Tale
riconoscimento è effettuato da quegli stati terzi che desiderano mantenere le relazioni
con i movimenti insurrezionali, soprattutto allo scopo di garantire la sicurezza dei
propri cittadini stanziati nel territorio degli insorti. Si tratta di un atto di natura
politica e non giuridica, che non ha valore costitutivo della personalità
internazionale degli insorti.
Il riconoscimento di belligeranza (recognition of belligerency) è l’atto con cui una
guerra civile viene equiparata ad una guerra internazionale. Lo stato che vi procede è
tenuto ad applicare le regole dei conflitti armati internazionali: se il riconoscimento
viene effettuato dagli stati terzi questi saranno obbligati ad applicare il diritto di
neutralità; se è invece il governo legittimo ad effettuarlo (un’ipotesi di scuola) esso
dovrà applicare le regole del diritto umanitario relative ai conflitti armati internazionali.
A differenza del riconoscimento di insorti, il riconoscimento di belligeranza è un
atto giuridico, poiché comporta conseguenze giuridiche e cioè l’estensione ad un
conflitto armato interno delle regole dei conflitti armati internazionali.
4. Il riconoscimento di movimenti di liberazione nazionale
Questo è l’atto con cui si constata che il movimento è l’ente che rappresenta il popolo
in lotta per l’autodeterminazione. Vi possono però essere più movimenti che
rivendichino il ruolo di rappresentante di un popolo. Per individuare quale fra di essi
sia il legittimo rappresentante acquista una notevole importanza il riconoscimento
effettuato a tal fine dagli stati e da parte delle organizzazioni internazionali. Al
riguardo è in particolare da ricordare che l’Assemblea Generale delle NU ha attribuito
ad organizzazioni regionali quali l’Unione Africana e la Lega Araba, la competenza a
riconoscere i movimenti di liberazione nazionale legittimati a rappresentare i popoli
africani e il popolo palestinese in lotta per l’autodeterminazione.
5. Il riconoscimento di situazioni giuridiche
Il riconoscimento di situazioni giuridiche ha una sua importanza nelle annessioni
territoriali e nell’estensione della sovranità dello stato costiero sulle aree marine
adiacenti alle sue coste. Il riconoscimento finisce per rendere incontestabile una
determinata situazione giuridica e produce una specie di preclusione per lo stato che lo
opera: di regola questo non può successivamente contestare la situazione ed
affermare che essa non è conforme a diritto. Per questi motivi il riconoscimento di
situazioni giuridiche è un atto giuridico.
6. Il disconoscimento e le politiche di non riconoscimento
Il disconoscimento (de-recognition) può assumere due varianti: può consistere
nell’assenza di riconoscimento nei confronti di un ente che ha tutti i requisiti per essere
riconosciuto (USA nei confronti della Cina comunista) oppure concretizzarsi nel ritiro
del precedente riconoscimento (rapporti con Cina e Taiwan).
Le politiche di non riconoscimento sono seguite dagli Stati: volontariamente (con la
Dichiarazione di Bruxelles del 16 dicembre 1991, la CE e i suoi stati membri
stabilirono che non avrebbero mai riconosciuto entità che fossero il risultato di
aggressioni); in seguito a sollecitazione di un terzo (ne è un esempio la Dottrina
Hallstein adottata dalla Germania Federale per scoraggiare eventuali riconoscimenti
dello stato di Germania Est); oppure in attuazione di una risoluzione del Cds, che può
avere anche natura obbligatoria (la ris 541 del 1983, del Cds invitò a non riconoscere
la Repubblica Turca di Cipro del Nord; la ris 662 (1990) dichiarò nulla e non avvenuta
l’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq.
L’obbligo di non riconoscimento può derivare direttamente dall’ordinamento
internazionale senza che sia necessario imporlo mediante una risoluzione del Cds. La
Corte Internazionale di Giustizia, nel parere su un muro in Palestina, dopo aver
affermato la contrarietà al diritto internazionale della costruzione del muro da parte di
Israele, ha statuito che gli stati hanno l’obbligo di non riconoscere la situazione illegale
derivante dalla costruzione del muro nel territorio palestinese sotto occupazione.
Capitolo 3. Status soggettivi degli enti internazionali
1. La neutralità permanente
Neutralità permanente in tempo di pace e neutralità durante la guerra (neutralità
occasionale) sono nozioni distinte. Mentre lo stato vincolato ad una politica di neutralità
permanente assume degli obblighi in tempo di pace e, in tempo di guerra, ha il dovere
di restare neutrale, la neutralità in tempo di guerra è una condotta volontaria, nel senso
che lo Stato può decidere di restare neutrale oppure entrare in guerra a fianco dell’uno o
dell’altro belligerante. Qualora uno stato votato ad una politica di neutralità permanente
entri in guerra, commette un illecito internazionale.
Esistono tuttavia tratti comuni: in tempo di guerra, tanto lo Stato permanentemente
neutrale quanto il neutrale, hanno nei confronti dei belligeranti gli stessi diritti e doveri.
Va ricordato che mentre la neutralità, nelle sue due accezioni, è uno status soggettivo
che riguarda lo Stato, la neutralizzazione di territori concerne solo una parte di territorio
dello Stato, dove non possono essere condotte ostilità. Al contrario il territorio di uno
stato neutrale è inviolabile e il belligerante che vi commettesse atti di ostilità
commetterebbe un illecito internazionale.
Benché non esista un contenuto tipico della neutralità permanente in tempo di pace,
essa è caratterizzata da alcuni doveri strumentali allo scopo che la neutralità persegue.
Si tratta dell’obbligo di non far parte di alleanze militari di natura reciproca e del dovere
di non concedere basi militari. In caso di conflitto armato, lo stato neutralizzato non può
prendere parte al conflitto a fianco dell’uno o dell’altro partecipante e non può
concedere loro facilitazioni di transito; inoltre deve impedire che il suo territorio e le sue
acque territoriali siano usate dai belligeranti per scopi ostili. Ovviamente lo stato
neutralizzato, qualora sia soggetto di una attacco armato, può esercitare il diritto di
legittima difesa.
La fonte della neutralità permanente è normalmente un trattato internazionale
multilaterale (es: Atto finale del Congresso di Vienna, 1815, decreta la neutralità
svizzera, sancita ora anche a livello costituzionale, art 5 cost). Può essere tuttavia un
accordo bilaterale (neutralità della Città del Vaticano sancita dal Trattato del Laterano)
o addirittura un impegno unilaterale dello stato (la neutralità del Costa Rica, 1983, non
costituisce esecuzione di alcun trattato). Qualunque sia la fonte dell’obbligo, la
neutralità ha un contenuto erga omnes, nel senso che gli obblighi di non facere assunti
dal neutrale sono oggetto di un rapporto tra stato neutrale e stato parte del trattato di
neutralizzazione, ma il dovere viene assunto nei confronti di tutti gli stati, sebbene solo
gli stati parti del trattato di neutralizzazione abbiano il diritto di chiedere al neutrale
l’esecuzione del rapporto di neutralità.
Il riconoscimento della neutralità permanente da parte degli stati membri della comunità
internazionale contribuisce al consolidamento della proclamazione di neutralità. Tale
riconoscimento può provenire da singoli Stati ma anche da organizzazioni regionali o
universali.
La neutralità può essere anche garantita da terzi. In questo caso si ha una differenza
rispetto ai patti di sicurezza collettiva (di natura reciproca): la prima infatti è a senso
unico, obbligando il garante a in pervenire a favore del neutrale garantito ma non
viceversa.
La neutralità permanente non è incompatibile con la partecipazione ad
operazioni di mantenimento della pace.
2. Neutralità permanente e Nazioni Unite
La Carta contiene alcune disposizioni che parrebbero essere in contrasto con lo
status di neutralità permanente.
Si veda l’art 2.5: “I Membri devono dare alle Nazioni Unite ogni assistenza in qualsiasi azione che
queste intraprendono in conformità alle disposizioni del presente Statuto, e devono astenersi dal dare
assistenza a qualsiasi Stato contro cui le Nazioni Unite intraprendono un’azione preventiva o coercitiva.”
Gli stati sono inoltre vincolati ad eseguire le decisioni del Cds comportanti misure
coercitive non implicanti l’uso della forza armata, e a prestarsi mutua assistenza.
art 49
I Membri delle Nazioni Unite si associano per prestarsi mutua assistenza nell’eseguire le misure
deliberate dal Consiglio di Sicurezza.
Inoltre si ha l’articolo 43 (che peraltro ha trovato scarsa applicazione)
1. Al fine di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, tutti i Membri
delle Nazioni Unite si impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza, a sua
richiesta ed in conformità ad un accordo o ad accordi speciali, le forze armate, l’assistenza e le
facilitazioni, compreso il diritto di passaggio, necessarie per il mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale.
2. L’accordo o gli accordi su indicati determineranno il numero ed i tipi di forze armate, il loro
grado di preparazione e la loro dislocazione generale, e la natura delle facilitazioni e
dell’assistenza da fornirsi.
3. L’accordo o gli accordi saranno negoziati al più presto possibile su iniziativa del Consiglio di
Sicurezza. Essi saranno conclusi tra il Consiglio di Sicurezza ed i singoli Membri, oppure tra il
Consiglio di Sicurezza e i gruppi di Membri, e saranno soggetti a ratifica da parte degli Stati
firmatari in conformità alle
rispettive norme costituzionali.
Infine anche l’articolo 45 pone delle problematiche:
Al fine di dare alle Nazioni Unite la possibilità di prendere misure militari urgenti, i Membri
terranno ad immediata disposizione contingenti di forze aeree nazionali per l’esecuzione combinata
di un’azione coercitiva internazionale. La forza ed il grado di preparazione di questi contingenti,
ed i piani per la loro azione combinata, sono determinati, entro i limiti stabiliti nell’accordo o negli
accordi speciali previsti dall’articolo 43, dal Consiglio di Sicurezza coadiuvato dal Comitato di
Stato Maggiore.
Già in fase di redazione della carta erano emerse problematiche circa la compatibilità
di neutralità permanente e partecipazione alle NU; fu tuttavia esplicitato che uno Stato
non avrebbe potuto invocare la propria neutralità permanente per sottrarsi agli
obblighi derivanti dalla Carta. Del resto questi prevalgono su qualsiasi altro obbligo,
come espresso dall’articolo 103 della Carta stessa:
In caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e
gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli obblighi
derivanti dal presente Statuto.
Non esiste quindi alcun legittimo diritto di esenzione dagli obblighi derivanti dallo
status di membro delle NU. Solo il Cds, qualora lo ritenesse opportuno, potrebbe
esentare il neutrale dall’eseguire una sua decisione, come espresso dall’art 48
1. L’azione necessaria per eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della
pace e della sicurezza internazionale è intrapresa da tutti i Membri delle Nazioni Unite o da alcuni di
essi secondo quanto stabilisca il Consiglio di Sicurezza.
2. Tali decisioni sono eseguite dai Membri delle Nazioni Unite direttamente o mediante la loro azione
nelle organizzazioni internazionali competenti di cui siano Membri.
Negli strumenti più recenti, istitutivi della neutralità permanente, la compatibilità tra
doveri derivanti dal sistema di sicurezza collettiva e neutralità permanente è
espressamente sancita.
[Link] neutralità permanente e l’Unione Europea
Il trattato di Lisbona istituisce una cooperazione strutturata permanente tra gli Stati
con più elevate capacità militari e contiene un patto di difesa collettiva (art 42.6 e
42.7 del Trattato sull’Unione Europea, versione consolidata). Uno stato membro non
è obbligato a partecipare alla cooperazione strutturata permanente, sebbene ne
abbia le capacità militari, quindi la posizione di neutralità è salvaguardata.
Le trasformazioni subite dalla comunità internazionale hanno mutato profondamente
l’istituto della neutralità permanente. Esso resta incompatibile con patti di difesa
collettiva a carattere reciproco, ma non è più in contrasto con l’appartenenza ad
organizzazioni universali o regionali che svolgono funzioni nel campo della sicurezza
collettiva.
Capitolo 4. Il territorio
1. La sovranità territoriale
Il Territorio è l’ambito entro cui lo Stato esercita la sua potestà di governo
(imperium) ad esclusione di altri soggetti del diritto internazionale (ius excludendi
alios). La potestà di governo e il connesso esercizio esclusivo costituiscono
manifestazione della sovranità territoriale. Il diritto internazionale protegge la
sovranità territoriale, nel senso che ogni attività esercitata in territorio straniero
senza il consenso del sovrano territoriale, o non ammessa dal diritto internazionale,
è illecita. L’imperium non va confuso con il dominium, che ha una connotazione
privatistica: l’acquisto di proprietà immobiliari da parte dello Stato o di suoi cittadini
in territorio altrui non comporta alcun acquisto di sovranità territoriale.
Il diritto internazionale protegge sia la sovranità territoriale, mediante l’indisturbato
esercizio dei poteri dello stato nel proprio territorio, sia l’integrità territoriale dello
stato, mediante la proibizione della sottrazione di parti del suo territorio senza una
valida causa di giustificazione. L’art 1 della ris 3314-XXIX sulla definizione di
aggressione, adottata dalla AG delle NU nel 1974, definisce aggressione l’uso della
forza da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza
politica di un altro stato.
Tra i poteri connessi all’esercizio della sovranità territoriale rientra anche quello di
cedere parte del proprio territorio. Una volta questo potere era assoluto, ma oggi si
scontra con il diritto all’autodeterminazione dei popoli.
Il potere di governo dello stato nel proprio territorio incontra i limiti derivanti dal
diritto internazionale sia consuetudinario che pattizio. Questi limiti riguardano in primo
luogo il trattamento che deve essere riservato agli stati stranieri, ai loro organi
diplomatici e ai loro
cittadini. L’imperium statale incontra anche dei limiti per quanto riguarda il trattamento
dei propri cittadini, secondo le (poche) norme stabilite dal diritto consuetudinario, o
quelle più numerose derivate dai trattati internazionali relativi alla protezione dei diritti
umani che lo stato abbia ratificato.
Oggetto della sovranità territoriale sono il territorio in senso stretto, il mare territoriale e
lo spazio aereo sovrastante entrambi.(vedi diritto del mare).
La sovranità sul territorio può essere indivisa ed essere esercitata congiuntamente
da due o più stati: è questo il caso del condominio.
2. Il dominio riservato
tranne i limiti derivanti dal diritto internazionale, lo Stato è libero di assoggettare alla
disciplina che più gli conviene i rapporti che si svolgono all’interno del proprio territorio.
Si tratta di una sfera di competenza denominata dominio riservato (domestic
jurisdiction). Il domino riservato ha per oggetto tutte le materie in relazione alle quali il
principio di sovranità degli Stati lascia ai soggetti di diritto internazionale libertà di
scelta. La ris 2625- XXV dell’AG delle NU sulle relazioni amichevoli stabilisce che ogni
Stato ha il diritto inalienabile di scegliere il proprio sistema politico economico, sociale e
culturale senza interferenze da parte di un altro Stato.
Il dominio riservato ha un’importanza determinante nelle NU e indica quelle materie di
esclusiva competenza statale che sono al riparo dalle ingerenze dell’organizzazione. Esso
è disciplinato dall’art 2.7:
“7. Nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni
che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato, né obbliga i Membri a
sottoporre
tali questioni ad una procedura di regolamento in applicazione del presente Statuto; questo
principio non pregiudica però l’applicazione di misure coercitive a norma del Capitolo VII.
Esistono due teorie principali per determinare la sfera di libertà dello Stato, entro cui le
NU non possono intervenire. L’una, c.d. teoria giuridica del domino riservato afferma che
non fanno parte del dominio riservato le questioni che sono disciplinate dal diritto
internazionale consuetudinario o pattizio. L’altra tesi, che invece restringe la sfera del
dominio riservato, afferma che non rientrano nella competenza domestica non solo le
materie disciplinate dal diritto internazionale, ma anche quelle materie che sono state
oggetto di attenzione da parte delle NU con l’adozione di risoluzioni di carattere
generale. Un classico esempio è costituito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, che ha legittimato le NU a indirizzare raccomandazioni agli Stati ben prima
della redazione di convenzioni internazionali in materia (ad es i due Patti del 1966).
In deroga a quanto affermato le NU possono intervenire in una questione che ricada
nella competenza domestica di uno Stato. La prima fattispecie è costituita dal consenso
dell’avente diritto. La seconda è costituita dall’ultimo inciso dell’art 2.7: le NU possono
disporre misure coercitive qualora la situazione domestica (es: una guerra civile) sia
qualificata dal Cds come una minaccia o una violazione della pace.
3. Modi di Acquisto della sovranità territoriale
I modi di acquisto della sovranità territoriale sono previsti da norme di diritto
internazionale consuetudinario di antica data.
Il principio del divieto dell’uso della forza e la scomparsa di determinate categorie di
territori (inesistenza attuale della terra nullius) hanno comportato l’estinzione di
taluni modi di acquisto. Tali modi possono però avere una loro rilevanza qualora si
debba valutare la legittimità di titoli di sovranità formatisi in epoche passate, in base al
principio tempus regit actum.
Anche i modi di acquisto della sovranità territoriale possono essere originari o derivati.
Appartengono alla prima categoria la conquista e l’acquisto di un territorio nullius: per il
perfezionamento del titolo su un territorio nullius non basta la scoperta, ma occorre
l’occupatio accompagnata dall’animus possidendi, consistente in un’esplicita dichiarazione di
annessione o nella volontà implicita in comportamenti concludenti. Occorre anche che
si tratti effettivamente di res nullius, e non sia invece patrimonio comune dell’umanità e
quindi inappropriabile; simili conclusioni sono da trarre per territori soggetti a instabilità
e anarchia: il principio di autodeterminazione dei popoli impedisce la trasformazione di
questi territori in res nullius.
Oggi la conquista non è più un modo di acquisto della sovranità territoriale, poiché
in contrasto con la norma sul divieto di aggressione. Da ricordare in proposito sono
la Dichiarazione sulle relazioni amichevoli (AG 2625-XXV, 1970) sia quella sulla
definizione di aggressione (AG 3314-XXIX, 1974). Ambedue stabiliscono che
un’acquisizione territoriale frutto dell’uso della forza o dell’aggressione non è da
considerarsi “legale”: si tratta cioè di un illecito e pertanto è priva di effetti giuridici.
Per concludere, quando si parla di acquisto della sovranità territoriale a titolo
originario si fa riferimento a Stati preesistenti della comunità internazionale.
La cessione appartiene alla categoria dei modi di acquisto a titolo derivato. Essa può
avvenire per i più svariati motivi, come ad esempio la vendita di un territorio (l’Alaska
fu venduta agli USA dall’Impero russo nel 1867), o come conseguenza di un trattato di
pace. Il trasferimento del territorio e l’acquisto della sovranità territoriale hanno luogo
con il consenso dello stato cessionario o quantomeno con la sua acquiescenza.
L’occupazione di un territorio non può produrre il trasferimento allo stato occupante, a
fronte della protesta del sovrano, anche se l’occupante si comporta animo domini. Il
titolo giuridico prevale sull’effettività della situazione. È pertanto da respingere la tesi
per cui il mero trascorrere del tempo possa comportare il trasferimento del territorio
per una sorte di prescrizione acquisitiva, qualora il sovrano non se ne stia inerte.
4. Amministrazione del territorio separata dal diritto di sovranità
territoriale Un territorio può essere amministrato in tutto o in parte da uno Stato
che non gode, sul territorio stesso, del diritto di sovranità. Il territorio sotto
amministrazione altrui può non
essere ancora sottoposto alla sovranità di alcuno stato oppure appartenere ad uno stato,
che resta titolare del nudum ius. Appartengono alla prima categoria i mandati costituiti
al tempo della società delle nazioni, nonché i territori sottoposti ad amministrazione
fiduciaria. Nei territori sottoposti ad amministrazione fiduciaria la potenza
amministratrice
amministrava il territorio nell’interesse della popolazione allo scopo di avviare il
territorio all’autonomia o all’indipendenza.
Mandati e amministrazioni fiduciarie non esistono più poiché tutti i territori interessati
hanno raggiunto l’indipendenza. Esistono invece casi di territori amministrati, per
periodi limitati di tempo e quindi in via transitoria, da parte di organizzazioni
internazionali. Tali amministrazioni si differenziano dalle vecchie amministrazioni
fiduciarie e trovano la loro base in una risoluzione del Cds adottata a termini del
Capitolo VII della Carta delle NU, nel quadro del mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale. Si tratta spesso di territori usciti da un conflitto che
necessitano un’opera di ricostruzione economica e istituzionale. Si pensi
all’amministrazione UE della città di Mostar (1994-96) o all’amministrazione
provvisoria delle NU in Kosovo (UNMIK) istituita nel 1999 e che continua ad operare
nonostante la proclamazione di indipendenza del Kosovo nel 2008.
Amministrazione disgiunta dalla sovranità si ha anche nell’occupatio bellica. I poteri
dell’autorità militare sul territorio occupato sono stabiliti dagli artt 43 e seguenti del
regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907. In questa fattispecie
rientra il caso dell’amministrazione dei territori orientali contigui a Trieste, la quale
rimase sotto occupazione alleata fino al 1954.
5. La frontiera
La frontiera, o confine dello Stato, è la linea che delimita la sovranità statale. Essa
viene stabilita mediante due procedimenti: la delimitazione, in virtù della quale si
precisano, mediante coordinate geografiche i limiti del territorio statale, e la
demarcazione, che consiste nella transposizione di dati geografici sul terreno.
Di regola la delimitazione è un atto bilaterale fra i due stati confinanti, che si concretizza
nella stipulazione di un trattato internazionale, anche se la delimitazione può avvenire
ad opera di un tribunale internazionale, o in seguito ad una risoluzione del Cds
dell’ONU.
È ormai certo che esiste una norma consuetudinaria denominata uti possidetis. Si
tratta di una consuetudine nata a livello regionale in America Latina, secondo cui i
confini degli stati latinoamericani erano da presumersi eguali a quelli delle vecchie
circoscrizioni coloniali spagnole. Tale consuetudine è stata trapiantata in Africa. La
Corte Internazionale di Giustizia, nella controversia Burkina Faso – Mali (1986) ha
riconosciuto il principio dell’uti possidetis come appartenente al diritto
consuetudinario. La Commissione Badinter ha applicato l’uti possidetis anche ai nuovi
stati sorti dallo smembramento della Jugoslavia. Questo principio è quindi venuto
affermandosi come un principio connesso alla formazione di stati di nuova
indipendenza per secessione o smembramento e trascende ormai l’ambito della
decolonizzazione.
Per quanto riguarda i fiumi di confine viene talvolta fatto riferimento alla regola
del thalweg, cioè alla linea mediana del canale navigabile o linea di massimo
scorrimento; altrimenti se il fiume non è navigabile si fa riferimento alla linea
mediana. Per quanto riguarda i laghi di frontiera, di regola il criterio da applicare
è quello della linea mediana. Qualora i due stati siano separati da una catena di
montagne si può adottare il criterio dello spartiacque oppure quello di una linea
che unisce le vette più alte.
È da dire che tutti questi criteri, incluso l’uti possidetis, sono derogabili mediante
accordo.
La delimitazione può anche riguardare la frontiera marittima, nel caso di stati costieri
adiacenti o frontisti. In linea di principio l’estensione delle aree marine risulta da un atto
unilaterale dello stato, ma deve essere conforme al diritto internazionale. Nel caso però
di stati adiacenti o che si fronteggiano la delimitazione unilaterale di un’area marina non
è opponibile allo stato adiacente o frontista in mancanza di accordo. La Convenzione
delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (Montego Bay, 1982) detta regole in materia di
delimitazione delle aree marine che sono da considerare dichiarative del diritto
internazionale consuetudinario. (vedi cap 6. diritto del mare).
6. Frontiera e successione fra stati
In caso di successione tra stati la frontiera non può essere rimessa in
discussione; vale infatti il principio della stabilità delle frontiere per i seguenti
motivi.
Qualora la frontiera sia stata delimitata mediante trattato, non viene in considerazione
una vera e propria successione nei trattati, poiché il trattato di delimitazione una volta
eseguito ha esaurito i suoi effetti e lo stato successore subentra nel diritto di sovranità
territoriale dello stato predecessore. Inoltre l’art 11 sulla successione dei trattati del 1978
stabilisce che il mutamento di sovranità non reca pregiudizio alla frontiera stabilita da
un trattato. Infine il principio dell’Uti possidetis ci porta a concludere che, nel caso di
uno stato di nuova indipendenza, i confini del nuovo stato sono quelli della regione o
provincia su cui esso è costituito e qualora questa confini con uno stato terzo,
coincidono con i confini dello stato predecessore.
7. Le servitù internazionali
è dubbio se esistano in diritto internazionale delle servitù internazionali. La prassi,
tuttavia, attesta che mediante trattato gli Stati possono imprimere vincoli a parte del
proprio territorio, che non sono meramente obbligatori ma hanno il carattere della
realità. La questione ha importanza in caso di successione tra Stati, poiché i vincoli
assunti dal predecessore si trasmettono al successore in base al principio res transit cum
onere suo. Il diritto di passaggio costituisce un classico esempio di servitù e fu
affrontato dalla ICJ nel caso del “diritto di passaggio in territorio indiano”. Spesso le
servitù hanno ad oggetto territori neutralizzati (dove non si possono condurre ostilità)
o smilitarizzati (dove non si possono costruire strutture militari o mantenere truppe).
8. Il principio del patrimonio comune dell’umanità
Taluni territori sono assoggettati al principio del patrimonio comune dell’umanità (common
heritage of mankind). Il loro sfruttamento deve avvenire non solo nell’interesse del
soggetto che vi procede , ma anche nell’interesse dell’intera comunità internazionale. Per
assicurare l’assolvimento di tali doveri il principio del patrimonio comune dell’umanità
postula una qualche forma di organizzazione internazionale che presieda allo
sfruttamento.
Le aree assoggettate a questa condizione si differenziano dalla res nullius poiché non
possono essere oggetto di appropriazione. Anche le aree soggette al principio di
libertà (es: l’alto mare) sono inappropriabili, ma non prevedono organizzazioni
internazionali a loro dedicate, ne postulano elementi solidaristici.
I fondali marini al di là della giurisdizione internazionale, giacenti cioè oltre la
piattaforma continentale, costituiscono lo spazio in cui il principio del patrimonio
comune dell’umanità ha trovato finora una più compiuta razionalizzazione, mentre
per quanto riguarda lo spazio extra-atmosferico e i corpi celesti, al di là
dell’affermazione di principio, allo stato attuale il regime in vigore non è molto
dissimile da quello che si applica negli spazi soggetti al principio di libertà.
I fondi marini sono sottoposti alla giurisdizione dell'Autorità internazionale dei fondi
marini, un ‘organizzazione i cui organi principali sono l’Assemblea, il Consiglio, il
Segretariato, l’Impresa. Lo sfruttamento sarebbe dovuto avvenire in base al c.d.
regime parallelo e avere come protagonisti sia gli Stati sia l’Autorità internazionale
dei fondi marini, agente tramite l’Impresa. A causa dell’opposizione degli stati
industrializzati, USA in testa, il regime delineato dalla Convenzione è stato modificato
prima della sua entrata in vigore. L’Accordo integrativo del 1994 ha fatto venir
meno il regime di sfruttamento parallelo e la posizione privilegiata dell’Impresa,
improntando maggiormente il sistema all’economia di mercato. Ciononostante gli
USA non hanno ancora ratificato la Convenzione delle NU sul diritto del mare.
L’Autorità ha stipulato una serie di contratti con Stati e consorzi di imprese che
per lo più svolgono attività di ricerca che effettivo sfruttamento minerario.
9. L’Antartide
Lo strumento di base in materia di disciplina dei territori antartici e delle aree
marittime adiacenti è il Trattato di Washington (1959) entrato in vigore nel 1961:
esso stabilisce espressamente che l’Antartide deve essere usata esclusivamente per
fini pacifici. All’art 1 viene proibito di svolgere qualsiasi attività militare (stabilimento
di basi militari, costruzione di fortificazioni, conduzione di manovre ed esperimenti
militari), cioè una piena smilitarizzazione. È comunque consentito l’impiego di
personale o di materiale militare per la ricerca scientifica. L’articolo 2 stabilisce il
principio della libertà, per tutti gli Stati, di ricerca scientifica in Antartide..
nell’articolo 4 il Trattato congela ogni pretesa di sovranità territoriale. In virtù del
trattato del 1959, la “gestione” del continente è affidata al Comitato delle Parti
Consultive, di cui sono membri i dodici negoziatori del Trattato e quelli che hanno
conseguito lo status di Parte consultiva successivamente. Per acquisire tale status
bisogna aver condotto anche una sostanziale attività di ricerca, fermo restando che lo
status è acquisibile solo per cooptazione. La sfera di applicazione del trattato di
Washington copre anche i mari adiacenti a sud del 60° grado di latitudine sud.
Nel 1991 è stato concluso un Protocollo sulla protezione dell’ambiente antartico: esso
dichiara l’Antartide “una riserva naturale votata alla pace e alla scienza” e contiene
una serie di disposizioni ispirate ad una rigida tutela dell’ambiente.
10. L’Artico
A differenza dell’Antartide, il Polo Nord non è composto da terre emerse, ma solo da
acque marine. La acque dell’Artico adiacenti agli stati costieri sono quindi
assoggettate al regime di mare territoriale, mentre le zone di mare al di là del limite
esterno del mare territoriale sono soggette al principio della libertà dell’alto mare.
Naturalmente la
piattaforma continentale artica è soggetta ai diritti di sfruttamento esclusivo degli stati
costieri e sulle acque sovrastanti la piattaforma lo stato costiero ha diritto ad istituire una
zona economica esclusiva.
Capitolo 5. La successione internazionale fra stati
1. Successione in fatto e successione giuridica
Viene comunemente definito Stato successore il nuovo stato o lo stato che accresce il
proprio territorio a spese di un altro; viene denominato stato predecessore lo stato che
si estingue o che subisce una perdita territoriale.
Possono aver luogo i seguenti fenomeni:
- nascita di uno o più stati su una parte del territorio del predecessore (secessione);
un esempio di secessione è costituito dal Bangladesh, seceduto dal Pakistan nel
1971.
- Nascita di più stati sull’intero territorio del predecessore con la sua conseguente
estinzione (smembramento, dissoluzione o frazionamento istintivo); un esempio è fornito dalla
Cecoslovacchia separatasi in Repubblica Ceca e Slovacchia nel 1993.
- incorporazione di uno stato da parte di un altro, come nel caso della “riunificazione”
della Germania.
- trasferimento di una parte di territorio dallo stato predecessore allo stato
successore (cessione);
- fusione di due o più stati nell’ambito di un nuovo stato con conseguente estinzione
degli stati predecessori, come nel caso della Repubblica araba unita (1958-1961),
fusione di Siria ed Egitto.
2. La successione nei trattati
La materia della successione nei trattati da parte delle nuove entità statali è
disciplinata dalla Convenzione di Vienna sulla successione nei trattati del 1978.
Esistono anche alcune regole consuetudinarie nella successione tra stati. Lo stato
successore, qualora si tratti di un nuovo soggetto di diritto internazionale, subentra in
fatto nel governo del territorio dello stato predecessore e ne acquista la sovranità a
titolo originario.
L’art 11 della convenzione del 1978 (che può essere considerato come corrispondente
al diritto consuetudinario) si occupa dei regimi di frontiera e stabilisce che la
successione fra stati: a) non tocca la frontiera stabilita mediante trattato tra
predecessore e terzo stato; b) non altera il regime di frontiera, come stabilito nel
trattato stipulato precedentemente. Lo stato successore quindi acquista la sovranità
territoriale sul territorio dello stato predecessore e nello stesso tempo subentra nei diritti
e negli obblighi pattizi stabiliti per la disciplina dei rapporti transfrontalieri.
I trattati bilaterali stipulati dallo stato predecessore non vengono trasmessi allo Stato
successore (principio della tabula rasa), tranne che il trattato non sia fonte di situazioni
giuridiche localizzate; tali situazioni si trasmettono allo stato successore (res transit cum
onere suo). Lo stesso principio sembra ora valere in materia di trattati (di regola
multilaterali) relativi ai diritti dell’uomo e al diritto umanitario. I trattati istitutivi di
basi militari non creano rapporti giuridici localizzati, avendo natura essenzialmente
politica. L’art 12 contiene tre paragrafi che disciplinano:
- le situazioni giuridiche (diritti ed obblighi) relative al territorio (ad esempio
una servitù di passaggio); esse si trasmettono allo stato successore.
- Le situazioni giuridiche relative al territorio di cui siano titolari un gruppo di stati
o tutti gli stati della comunità internazionale (ad esempio un trattato che
disciplina una via d’acqua internazionale); anche queste si trasmettono al
successore.
- Le basi militari; per esse vige il principio della tabula rasa, trattandosi di
vincoli di natura obbligatoria, che non si trasmettono al successore. I trattati
istitutivi di una base quindi cessano, tranne che siano novati mediante un
accordo tra successore e terzo.
Quanto ai trattati multilaterali,la prassi ha dato luogo alla nascita di una consuetudine
internazionale, secondo cui il nuovo stato, pur non subentrando automaticamente nel
trattato multilaterale che trovava applicazione sul territorio oggetto del mutamento di
sovranità, ha diritto di divenire parte mediante una dichiarazione di continuità o
notificazione di successione. La dichiarazione di notifica retroagisce al momento della
nascita del nuovo stato ed ha quindi effetti ex tunc (al contrario dell’adesione che ha
solo effetti ex nunc). La notifica di successione non è ovviamente possibile per trattati
che abbiano una spiccata valenza politica (alleanze militari..) e neppure è ammissibile
per i trattati istitutivi di un’organizzazione internazionale.
I trattati in materia di disarmo, controllo degli armamenti e, in generale, interessanti
la difesa non sono sottoposti ad un regime particolare, quindi non si trasmettono al
successore a meno che non si tratti di una situazione giuridica localizzata (es: un
trattato che imponga la smilitarizzazione di un dato territorio).
Le considerazioni precedenti valgono per tutte le figure successorie, tranne la
cessione e l’incorporazione. In questi casi si applica il principio della mobilità delle
frontiere e dei trattati. I trattati stipulati dallo stato successore si applicano ai territori
acquisiti mediante cessione o incorporazione; parimenti si restringe la sfera di
applicazione territoriale dei trattati dello stato predecessore in caso di cessione. In
entrambi i casi, i trattati del predecessore non si trasmettono al successore, a meno
che vengono in considerazione trattati istitutivi di vincoli localizzati al territorio oggetto
di mutamento di sovranità.
Occorre ricordare la prassi degli accordi di devoluzione. Mediante l’accordo di
devoluzione, lo stato predecessore trasferisce al successore tutti i diritti e obblighi
derivanti dai trattati applicati sul territorio su cui si costituisce il nuovo stato. Ma
l’accordo di devoluzione produce obblighi e diritti solo nei rapporti tra stato
predecessore e successore, e non può produrre una successione automatica nei
rapporti giuridici del predecessore. Pertanto quest’ultimo dovrà proporre al terzo di
concludere una novazione per subentrare nei trattati stipulati tra terzo e predecessore.
È bene ricordare che se il mutamento di sovranità territoriale non estingue la
personalità internazionale dello stato, non si pone per tale stato un problema
successorio (identità e continuità dello Stato).
3. La successione nei beni, debiti e archivi dello Stato predecessore
La successione tra stati in questa materia è disciplinata dalla Convenzione di Vienna
del 1983 sulla successione tra stati in materia di beni, archivi e debiti dello Stato. La
Convenzione non è ancora entrata in vigore, e anch’essa, come quella del 78, può
ritenersi sviluppo progressivo del diritto internazionale piuttosto che codificazione del
diritto consuetudinario.
I beni immobili situati nel territorio oggetto del mutamento di sovranità vengono trasferiti
allo stato successore. Questa regola, ovvia in caso di incorporazione, è applicabile
anche alle altre figure successorie; nel caso della cessione le parti potrebbero disporre
diversamente e, secondo l’art 14 della Convenzione, la regola ha natura suppletiva.
I beni appartenenti allo stato predecessore e situati in un terzo stato divengono
proprietà del successore in caso di estinzione del predecessore per incorporazione,
fusione o smembramento. Restano invece di proprietà del predecessore in caso di
secessione o cessione.
Fonte di controversia è la sorte del debito pubblico dello Stato predecessore. La regola
tradizionale è quella secondo cui i debiti localizzati, cioè contratti a favore del territorio
oggetto della successione, sono trasferiti allo stato successore. Non si trasmettono invece i
c.d. debiti odiosi, come quelli contratti dal predecessore per condurre una guerra di
aggressione. Gli altri debiti (debito generale) continuano a fare a capo al
predecessore, se questo non cessa di esistere con la successione. In caso di
estinzione è difficile stabilire se il debito si estinga oppure si trasmetta al successore;
la dottrina è divisa su questa questione. Per gli archivi di stato la Convenzione adotta
il principio di territorialità, salvo volontà diversa delle parti, pertanto gli archivi
concernenti all’amministrazione del territorio ceduto passeranno al successore.
Capitolo 6. Il diritto del mare
1. La codificazione del diritto del mare
La prima conferenza sul diritto del mare ebbe luogo a Ginevra nel 1958 e vide la
partecipazione di 86 stati. Benché il testo redatto avesse un carattere unitario, la
conferenza di Ginevra si concluse con l’adozione di quattro testi distinti: la
Convenzione sul mare territoriale e la zona contigua; la Convenzione sulla piattaforma
continentale; la Convenzione sull’alto mare e la Convenzione sulla pesca e la
conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare. La tecnica redazionale seguita
nel 1958 ha dato luogo ad un relativismo convenzionale accentuato, poiché alcuni
sono Stati parte di una o più convenzioni ma non hanno ratificato altre.
Con la risoluzione dell’Assemblea Generale delle NU 2750-C del 1970 fu convocata la
Terza Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Il lungo processo negoziale si
concluse a Montego Bay (Giamaica) il 10 dicembre 1982 con l’adozione della Convenzione
delle Nazioni Unite sul diritto del mare. La convenzione è entrata in vigore il 16
novembre 1994.
La Convenzione sul diritto del mare non abroga le convenzioni di Ginevra del 58, ma
sancisce solo la sua “prevalenza”; con la conseguenza che le convenzioni del 58
continuano a trovare applicazione tra gli stati parti solo di queste e gli stati parti sia di
queste che della Convenzione dell’82. numerose disposizioni della Convenzione hanno
natura di diritto internazionale consuetudinario: sono quindi divenute obbligatorie prima
della sua entrata in vigore.
2. Il mare territoriale
La sovranità di uno stato si estende, al di là del territorio e delle acque interne, ad una
zona di mare adiacente alle sue coste denominata mare territoriale. Il mare territoriale
ha un limite interno ed uno esterno.
Il limite interno, dal quale si procede alla misurazione del mare territoriale, viene
determinato mediante la fissazione delle linee di base. La linea di base normale da
utilizzare quale punto di partenza per la misurazione del mare territoriale è la linea di
costa a bassa marea. Ove però la costa sia profondamente frastagliata, lo stato costiero
può, se lo desidera, congiungere con una serie di linee ideali i punti più sporgenti della
costa (sistema delle linee rette); ciò vale anche nel caso in cui esista un gruppo di
isole nell’immediata vicinanza della costa (art 7 della Convenzione). Il tracciato delle
linee non deve discostarsi in modo apprezzabile dalla linea di costa, inoltre gli spazi
marini situati all’interno di tali rette devono essere sufficientemente collegati al
dominio terrestre da poter essere sottoposti al regime delle acque interne.
Il limite esterno del mare territoriale è determinato dallo stato costiero entro un
limite massimo previsto dal diritto internazionale, fissato, con la Convenzione del
1982, in 12 miglia marina calcolate dalla linea di base (art 3); tale criterio è ormai
parte del diritto consuetudinario.
La sovranità dello stato costiero sul mare territoriale incontra i limiti del passaggio
inoffensivo e della giurisdizione civile e penale sulle navi in transito.
Per passaggio si intende il fatto di navigare nel mare territoriale per attraversarlo,
senza toccare le acque interne, ovvero per recarsi nelle acque interne o per prendere il
largo dalle stesse (resta naturalmente inteso che l’accesso alle acque interne resta
subordinato alla volontà dello stato costiero). Il passaggio deve essere continuo e
rapido: esso non comprende la facoltà di sosta o ancoraggio. Il passaggio è da
ritenere inoffensivo, quando, ai sensi dell’art 19 della convenzione, non “arrechi
pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello stato costiero”. Nel
paragrafo 2 del citato articolo vengono elencate quelle attività che rientrano nella
definizione di pregiudizievoli per la pace.
Un’interpretazione sistematica della Convenzione consentirebbe di estendere l’istituto del
passaggio inoffensivo anche alle navi militari, ma molti stati continuano a subordinarne il
passaggio alla propria autorizzazione. Le navi in passaggio inoffensivo hanno l’obbligo
di rispettare le leggi e i regolamenti dello stato costiero, i sommergibili devono navigare
in emersione e mostrare la bandiera. Non esiste un diritto di sorvolo del mare
territoriale: questo è ammissibile solo se consentito dallo stato costiero.
Lo stato costiero può sospendere il diritto di passaggio inoffensivo, purché sia
essenziale alla protezione della sua sicurezza, abbia un carattere temporaneo e non
sia discriminatorio e riguardare specifiche aree del mare territoriale.
La giurisdizione civile e penale non può essere esercitata sulle navi militari, poiché
godono di immunità completa. Per quanto concerne le navi mercantili, la consuetudine
internazionale accorda l’esenzione della nave straniera in passaggio dalla
giurisdizione penale dello stato costiero per quanto riguarda i “fatti interni”, cioè per
quegli avvenimenti che non hanno ripercussioni al di fuori della vita della nave. È
invece ammesso l’esercizio della giurisdizione per fatti che turbano la pace e il buon
ordine dello stato costiero e del rispettivo mare territoriale.
Il rigore della norma consuetudinaria è attenuato dalla Convenzione del 1982, poiché
l’art 27 impiega il condizionale e stabilisce che lo stato “non dovrebbe” (should not)
esercitare la propria giurisdizione penale, a meno che non si tratti di situazioni che
presuppongono un collegamento tra il crimine commesso e la terraferma, o il
consenso dello stato della bandiera o misure necessarie per combattere il traffico di
stupefacenti. Una simile costruzione vale per la giurisdizione civile. La Convenzione
del ’82 impone un preciso dovere allo stato costiero di non adottare misure esecutive
o conservative sulle navi in passaggio, tranne che non si tratti di misure prese in
riferimento ad obbligazioni assunte dalla nave nel corso, o in vista del passaggio nel
mare territoriale.
Le aree marine poste all’interno della linea di base sono acque interne dove non vige il
diritto di passaggio inoffensivo. Tuttavia per evitare complicazioni nei traffici marittimi,
l’art 8 detta un’eccezione, stabilendo che nelle acque, che prima della chiusura erano
assoggettate al regime delle acque territoriali o dell’alto mare, continua a vigere il diritto
di passaggio inoffensivo.
3. Le baie
Il diritto internazionale ha accordato allo stato costiero il diritto di chiudere la baia,
purchè essa non sia una mera incurvatura della costa, ma una baia in senso giuridico.
Affinché sia tale l’insenatura deve racchiudere una superficie di acqua uguale o
superiore a quella di
un semicerchio avente per diametro la linea tracciata tra i punti di ingresso della baia
(regola del semicerchio). Le baie in senso giuridico possono essere chiuse solo se la
distanza tra i punti di ingresso non supera le 24 miglia marine. Qualora la distanza sia
maggiore, lo stato ha diritto di tracciare una linea di 24 miglia marine all’interno della
baia che racchiuda più acqua possibile. (art 10).
Una disciplina particolare vige per le baie storiche, le quali possono essere chiuse qualora
non soddisfino i requisiti della regola del semicerchio. Perché si possa parlare di baia
storica lo stato deve dimostrare la sussistenza di un prolungato esercizio di diritti di
sovranità sulle acque della baia e l’acquiescenza di altri stati.
5. Gli stretti internazionali
Stretti sono quei bracci di mare siti tra due terre emerse, compresi interamente nelle
acque territoriali dello stato o degli stati rivieraschi, che mettono in comunicazione due
parti più ampie di mare. Secondo una norma consuetudinaria negli stretti utilizzati per la
navigazione internazionale che uniscono due parti di alto mare (stretti internazionali)
vige il diritto di passaggio inoffensivo non sospendibile in favore sia delle navi private
che di quelle da guerra. La convenzione di Ginevra del 1958 estende il regime degli
stretti internazionali anche agli stretti che collegano l’alto mare con il mare territoriale di
uno
stato (uno stratagemma per assoggettare lo stretto di Tiran al regime di
acque internazionali).
Con l’avvento della Convenzione sul diritto del mare del 1982 e l’estensione del mare
territoriale a 12 miglia molti bracci di mare sarebbero divenuti mare assoggettato alla
sovranità statale. Viene quindi introdotta la nozione di passaggio in transito che
consiste nell’esercizio della libertà di navigazione e di sorvolo al solo fine del rapido e
continuo transito nello stretto. Questa tipologia comporta diritti più ampi rispetto al
passaggio inoffensivo, in particolare la non sospendibilità del diritto di transito di navi
private e da guerra, il diritto di sorvolo a favore degli aeromobili civili e militari, la
possibilità per i sommergibili di navigare in immersione.
Il passaggio in transito si applica agli stretti utilizzati dalla navigazione internazionale
che mettono in comunicazione due parti di alto mare, due ZEE oppure una ZEE e una
zona di alto mare. Non si applica invece il passaggio in transito, ma il passaggio
inoffensivo non sospendibile: agli stretti che collegano il mare territoriale di uno stato a
una parte di alto mare oppure alla ZEE di un altro stato; agli stretti che collegano due
zone di alto mare, ma compresi fra il continente e un’isola appartenente allo stesso
stato costiero (es: lo stretto di Messina), semprechè esista una via di comunicazione
alternativa di pari comodità.
Il regime predisposto dalla Convenzione non si applica agli stretti internazionali
disciplinati da convenzioni internazionali di lunga data (come nel Bosforo e Dardanelli).
6. La zona contigua e la zona archeologica
Si definisce zona contigua un fascia di marina adiacente al mare territoriale nel quale
lo stato straniero può esercitare, anche sulle navi straniere, diritti di controllo
necessari a prevenire o reprimere infrazioni alle sue leggi doganali, fiscali, sanitarie
d’immigrazione. La convenzione del 1982 autorizza gli Stati a istituire una zona
contigua fino a 24 miglia marine. È ragionevole presumere che tale norma sia parte
del diritto consuetudinario.
L’istituzione di una zona contigua è del tutto facoltativa ed è a tal fine necessaria a una
formale proclamazione dello stato costiero.
Novità assoluta della Convenzione del diritto del mare è la possibilità riconosciuta
dall’art 303 di istituire una zona archeologica sul fondo marino adiacente alla costa. La
zona può avere un’estensione massima di 24 miglia dalla linea di base. Si vengono così a
riconoscere allo stato costiero diritti speciali di controllo e giurisdizione in ordine alla
rimozione di oggetti di valore archeologico e storico oltre il limite del mare territoriale.
7. La piattaforma continentale
Una norma di diritto internazionale consuetudinario formatasi nella seconda metà del
XX secolo attribuisce allo stato costiero diritti sovrani ai fini dell’esplorazione e dello
sfruttamento delle risorse naturali sulle zone del fondo e del sottosuolo marino facenti
parte della piattaforma continentale, un precetto formalizzato nella Convenzione di
Ginevra sulla piattaforma continentale (1958). Per risorse naturali si intendono sia le risorse
minerarie sia le risorse biologiche sedentarie, cioè gli organismi che rimangono
immobili sulla piattaforma o che si spostano rimanendo incollati al suolo.
I diritti dello stato costiero sulla piattaforma continentale sono esclusivi ed automatici,
non dipendono cioè da un’espressa proclamazione. Tali diritti non pregiudicano in alcun
modo lo status giuridico delle acque sovrastanti, le quali rimangono soggette al
regime dell’alto mare, né quello dello spazio aereo al di sopra di quelle acque. Da ciò
deriva che le attività statali di esplorazione e sfruttamento non devono interferire con
la libera navigazione, pesca e sorvolo. È inoltre riconosciuto il diritto degli stati terzi di
collocare sulla piattaforma continentale cavi e condotte (in questo caso
subordinandone il percorso al consenso dello stato costiero).
A norma della convenzione del 1982, la piattaforma (in senso giuridico) di uno stato
costiero comprende i fondali marini ed il relativo sottosuolo, al di là delle sue acque
territoriali, fino a 200 miglia marine dalla linea di base a partire dal quale è calcolato il
mare territoriale, indipendentemente da ogni indicazione di carattere geologico (una
norma che ha assunto il carattere di diritto consuetudinario a seguito della sentenza
della ICJ nel caso sulla delimitazione della piattaforma tra Libia e Malta).
Nel caso in cui la piattaforma continentale di uno stato superi le 200 miglia, il
suo diritto potrà esser fatto valere non oltre le 350 miglia dalla linea di base
oppure 100 miglia dall’isobata dei 2500 metri. Nell’ipotesi di sfruttamento di
risorse presenti al di là del limite delle 200 miglia lo stato costiero è tenuto a
versare una parte dei suoi ricavati all’Autorità dei fondi marini, che provvederà
ad un equa distribuzione dei contributi raccolti agli stati parte della
Convenzione.
La Convenzione del diritto del mare stabilisce all’art 83 che la “delimitazione della piattaforma
continentale fra stati frontisti o limitrofi è effettuata mediante accordo sulla base del diritto internazionale
in modo da pervenire ad una soluzione equa”. La ICJ ha affermato più volte che una tale norma
appartiene al diritto consuetudinario.
8. La zona economica esclusiva (ZEE)
La ZEE è un istituto introdotto dalla Convenzione sul diritto del mare del 1982 (artt 55-
75). La ZEE può estendersi fino a 200 miglia marine calcolate dalla linea di base.
L’istituzione della ZEE dipende da un preciso atto di volontà dello stato costiero, deve
cioè essere proclamata.
Nella ZEE lo stato costiero gode di diritti esclusivi in materia di sfruttamento, gestione
e conservazione delle risorse naturali, siano esse biologiche o non biologiche,
esistenti sul fondo e sottosuolo del mare nonché nella colonna d’acqua sovrastante, e
circa le altre attività dirette all’utilizzazione a fini economici della zona, quali la
produzione di energia. Lo stato ha altresì diritti di giurisdizione in relazione allo
stabilimento e all’uso di isole e installazioni artificiali, alla ricerca scientifica marina e
in materia di protezione dell’ambiente marino dall’inquinamento.
La ZEE non è oggetto di sovranità territoriale dello stato; gli altri stati continuano a
godere di alcune delle libertà connesse al regime dell’alto mare, quali le libertà di
navigazione, di sorvolo e di posa di cavi e condotte. Tuttavia nella ZEE lo stato costiero
gode di diritti di polizia connessi alla realizzazione dei suoi diritti (stabiliti nella
Convenzione).
Nel caso di stati frontisti la Convenzione prevede che la delimitazione della ZEE
avvenga mediante un accordo conformemente al diritto internazionale in modo da
ottenere un’equa soluzione.
Anche la ZEE è stata riconosciuta come un istituto appartenente al diritto internazionale
consuetudinario (sentenza sulla delimitazione della piattaforma tra Libia e Malta, 1985).
Nella ZEE proclamata, lo stato costiero ha diritti sovrani in relazione allo
sfruttamento gestione e conservazione delle risorse ittiche. Secondo la convenzione
i diritti dello stato costiero sono finalizzati all’obiettivo dello sfruttamento ottimale
delle risorse biologiche deLla ZEE. Le navi straniere che siano ammesse a pescare
nella ZEE devono osservare le disposizioni dello stato costiero relative alla
conservazione delle risorse biologiche. Per quanto riguarda la pesca, l’art 73 della
Convenzione stabilisce che lo stato costiero può adottare tutte le misure necessarie
ad assicurare il rispetto dei provvedimenti da esso emanati in conformità alla
convenzione, ivi compreso l’abbordaggio, l’ispezione o il sequestro di navi straniere
e la proposizione di un’azione giudiziaria di fronte ai propri tribunali. Tuttavia lo stato
costiero è tenuto a notificare allo stato della bandiera ogni misura di sequestro o
detenzione di navi straniere, e deve procedere senza indugio al rilascio della nave
sequestrata e del suo equipaggio quando sia stata fornita una cauzione
o altra garanzia. Infine le pene comminate dallo stato costiero non possono
comprendere l’imprigionamento o alcun tipo di pena corporale.
9. Il regime dell’alto mare e i fondi marini internazionali
Ai sensi dell’art 1 della Convenzione di Ginevra sull’alto mare, costituiscono alto mare
“tutte le parti del mare non comprese nel mare territoriale o nel mare interno di uno stato”
Ad oggi l’art 86 della Convenzione del 1982 prevede che le disposizioni per l’alto mare
si applicano a tutte le parti di mare che non siano comprese nella ZEE, nelle acque
interne o territoriali o nelle acque arcipelagiche; l’alto mare strictu sensu ha inizio a
partire dal limite esterno della ZEE (nel caso in cui lo stato l’abbia proclamata,
altrimenti dal limite esterno del mare territoriale).
Ogni stato, sia esso costiero o privo di litorale marittimo ha diritto alla libertà di
utilizzare l’alto mare. Secondo l’art 87 della Convenzione sul diritto del mare il
regime dell’alto mare comporta, tra le altre, queste libertà: libertà di navigazione,
libertà di pesca, libertà di posa di cavi e condotte, libertà di sorvolo, libertà di
costruire isole artificiali e altre installazioni, libertà di ricerca scientifica. Ovviamente
tali libertà devono essere esercitate in modo tale che ne sia consentito il godimento
anche da parte degli altri stati.
Ogni stato, sia costiero, sia privo di litorale, ha il diritto di far navigare in alto mare
navi battenti la propria bandiera. Le due Convenzioni (Ginevra sull’alto mare e quella
delle NU) prescrivono che debba esistere un “legame sostanziale” (genuine link) fra
lo stato e la nave che batte la sua bandiera. In particolare lo stato deve esercitare
effettivamente la sua giurisdizione e il suo controllo in materia tecnica amministrativa
e sociale sulle navi nazionali (artt91, 94, Convenzione 1982). Mentre alcuni stati
richiedono l’esistenza di un collegamento effettivo fra la nave e la comunità, altri (es:
Panama, Liberia, Singapore) accordano assai facilmente la propria nazionalità alle
navi dando luogo al fenomeno delle “bandiere ombra”.
Secondo il diritto consuetudinario, ribadito dall’art 6 della convenzione di Ginevra e
dall’art 92 della Convenzione delle NU, in alto mare le navi sono soggette alla
giurisdizione esclusiva dello stato della bandiera. La nave che batta la bandiera di due
o più stati è assimilata alla nave priva di nazionalità ed è per ciò soggetta all’autorità
delle navi da guerra di tutti gli stati.
10. Le eccezioni al principio di libertà di navigazione in alto mare
La regola per cui in alto mare le navi sono sottoposte alla esclusiva giurisdizione
dello stato della bandiera è assoluta per ciò che riguarda le navi da guerra (art 95
Convenzione delle NU). Nel caso di navi private invece sono ammesse alcune
eccezioni.
La prima ipotesi riguarda la pirateria: la norma che la prevede appartiene al diritto
consuetudinario. Si è inteso proteggere i traffici marittimi attribuendo a qualsiasi stato il
potere di reprimere un’attività criminosa che finirebbe per mettere in pericolo lo stesso
principio della libertà di navigazione.
Secondo la Convenzione del 1982 (artt 100-107), ogni stato mediante proprie navi da
guerra o altre navi in servizio governativo può catturare in alto mare una nave pirata.
Tale potere non spetta se la nave pirata si rifugia in acque territoriali altrui: in questo
caso sarà lo stato costiero che dovrà provvedere alla cattura. In caso di incapacità
dello stato costiero, il Cds può autorizzare gli stati ad intervenire nelle acque territoriali
altrui (ris 1816, 1838 e 1846, sul caso della Somalia). La risoluzione 1851 (2008)
autorizza gli stati a prendere misure nel territorio somalo per mettere fine agli atti di
pirateria.
Per pirateria si intendono atti illegittimi di violenza, detenzione o depredazione
commessi per fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave (o aeromobile)
privata contro un’altra nave (o aeromobile) in alto mare (o nello spazio aereo
sovrastante) o contro persone e beni che si trovino a bordo. Gli atti di pirateria possono
essere compiuti solo da navi (od aeromobili) private, non da navi da guerra.
In base all’art 110 della Convenzione del 1982, le navi da guerra di uno stato
straniero possono abbordare in alto mare e sottoporre a visita la nave sospetta di
essere dedita alla tratta degli schiavi, che riacquistano ipso facto la libertà non
appena si rifugino a bordo di un’altra nave; non spetta però un diritto di cattura, che
compete solo allo stato della bandiera.
Altra eccezione alla giurisdizione esclusiva dello stato della bandiera è costituita dal
diritto di inseguimento. Secondo il diritto consuetudinario, ribadito dall’art 111 della
Convenzione del 1982, lo stato costiero ha il diritto di inseguire e catturare in alto
mare, mediante navi o aeromobili adibiti al pubblico servizio, le navi straniere cha
abbiano violato le sue leggi in zone sottoposte alla proprie giurisdizione.
L’inseguimento deve avere inizio quando la nave straniera, o una delle sue
imbarcazioni,si trova nelle acque interne, arcipelagiche o territoriali dello stato
costiero, oppure nella sua zona contigua, ZEE o acque sovrastanti la piattaforma
continentale. L’inseguimento deve essere continuo: nel caso di interruzione esso non
può essere lecitamente ripreso. Il diritto di inseguimento cessa qualora la nave
inseguita entri nelle acque territoriali di un altro stato.
Una prassi recente ha dato vita ad una nuova norma consuetudinaria, secondo cui lo
stato costiero può prendere nei confronti anche di navi straniere le misure necessarie
per prevenire o eliminare i pericoli di inquinamento derivanti da un incidente marittimo.
Innovando il diritto preesistente la convenzione del 1982 (art 109) consente misure di
autorità su navi straniere in alto mare anche nell’ipotesi in cui queste siano impiegate
per trasmissioni non autorizzate. Tale potere è attribuito oltre allo stato della bandiera
anche
allo stato di cui i responsabili abbiano la nazionalità e agli stati nei quali le
trasmissioni sono ricevute.
Per quanto riguarda il terrorismo marittimo, che essendo motivato per fini politici non
ricade sotto la definizione di pirateria, la convenzione de 10 marzo 1988 per la
repressione dei reati contro la sicurezza della navigazione marittima e relativo
protocollo non prevedono alcuna norma circa il diritto di arrestare una nave straniera
in mano ad un gruppo terrorista. Un emendamento alla convenzione, adottato nel
2005, istituisce forme di cooperazione fra gli stati parti allo scopo di arrestare una
nave sospetta di essere adibita alla commissione di atti di terrorismo mediante l’uso di
armi chimiche, batteriologice, materiali fissili, esplosivi o radioattivi.
Il protocollo delle NU del 12 dicembre 2000 contro il traffico illegale di migranti per
terra, mare e aria non prevede alcuna disposizione che autorizzi a fermare una nave
straniera: anche in questo caso è necessario il consenso dello stato della bandiera.
11. Le zone di identificazione aerea
fra le libertà dell’alto mare rientra la libertà di sorvolo, che trova applicazione non solo
nello spazio aereo sopra l’alto mare ma anche nello spazio atmosferico sovrastante
la ZEE e la zona contigua. Si tratta di spazi aperti alla libera utilizzazione degli aerei
civili e militari di tutti gli Stati.
Nella prassi più recente sono peraltro emerse pretese di alcuni stati marittimi
dirette ad istituire, lungo le proprie coste, zone di identificazione aerea. In generale
viene richiesto agli aerei che si dirigono verso il loro territorio di farsi identificare e
di fornire alle autorità territoriali informazioni relative al volo, soprattutto alla luce
del fenomeno terroristico.
Tuttavia non è ammissibile la pretesa avanzata da alcuni stati, di assoggettare alle
procedure di identificazione gli aerei stranieri che non siano diretti verso il territorio dello
stato costiero, ma si limitino al passaggio laterale nella zona.
12. Gli stati arcipelago
La Convenzione del 1982 ha introdotto, innovando sul punto rispetto al diritto
preesistente, uno speciale regime per gli stati-arcipelago e le acque arcipelagiche
(artt46- 54). Ai sensi della convenzione è un stato-arcipelago quello costituito
interamente da uno o più arcipelaghi ed eventualmente da altre isole, dove con
arcipelago si intende un gruppo di isole con legami tra loro tali da formare un tutto
geografico, economico o politico, o che storicamente siano considerate tali (non
rientrano in questo regime quegli arcipelaghi che appartengono a stati continentali;
es: le Azorre).
Gli stati arcipelago possono tracciare delle linee di base rette (linee di base arcipelagiche)
che congiungono i punti più estremi delle isole. La chiusura è ammissibile purché il
tracciato delle linee includa al suo interno le isole principali dell’arcipelago, e la
proporzione tra le acque racchiuse e la superficie terrestre sia tra uno a uno e nove a
uno. Tutte le zone di giurisdizione (mare territoriale, zona contigua, ZEE e piattaforma
continentale) sono calcolate a partire dalle linee arcipelagiche.
Le zone del mare all’interno di tali rette sono denominate acque arcipelagiche e sono
assoggettate alla sovranità dello stato; vige tuttavia il diritto di passaggio inoffensivo a
favore delle navi straniere. In relazioni alle rotte utilizzate normalmente per la
navigazione internazionale si applica il diritto di passaggio arcipelagico (assimilabile al
diritto di passaggio in transito attraverso gli stretti), comprendente diritto di navigazione
e sorvolo e di transito in immersione.
Capitolo 7. La tutela dell’indipendenza statale nell’ordinamento degli
stati esteri
1. L’esenzione degli stati esteri dalla giurisdizione civile
Una norma di diritto internazionale consuetudinario prescrive che uno Stato non possa
essere sottoposto a giurisdizione di fronte ai tribunali di uno stato estero. Tale norma è
posta a tutela del principio di uguaglianza degli stati e tutela la loro indipendenza,
traducendo in diritto positivo il principio par in parem non habet imperium (o par in
parem non habet iudicium). Tutto ciò vale a meno che lo stato stesso non accetti
volontariamente di sottoporsi alla giurisdizione locale e quindi rinunci all’immunità.
a) Immunità dalla giurisdizione
La teoria dell’immunità ristretta afferma che lo stato è esente da giurisdizione, di fronte
ai tribunali di un altro stato, quando compie attività che sono manifestazione delle sue
funzioni sovrane, cioè attività iure imperii; lo stato è invece sottoponibile a giurisdizione
quando pone in essere atti di natura privatistica, cioè attività iure gestionis. Questa
teoria è stata codificata in atti ad hoc tra cui: Foreign Sovereign Immunity Act (1976,
USA); State Immunity Act (1978, Uk), State Immunity Act (1985 Canada). Nel 1972 è stata
conclusa, sotto gli auspici del Consiglio d’Europa, la Convenzione europea sull’immunità
degli Stati (Convenzione di Basilea). Nel 2005 è stata aperta alla firma la Convenzione
Onu sull’immunità dalla giurisdizione degli stati e dei loro beni.
La Convenzione di Basilea (secondo autorevoli opinioni, in larga parte dichiarativa del
diritto consuetudinario, ma che non è stata ratificata dall’Italia) segue il criterio della
lista. Viene quindi elencata una serie di fattispecie in cui l’immunità dalla giurisdizione
non può essere invocata.
Problemi particolari sono emersi per le controversie di lavoro tra lo stato estero e il
personale impiegato presso l’ente (mansioni che in quanto alla loro natura non rientrano
nelle funzioni sovrane dell’ente (cuochi, bibliotecari..), ma quanto allo scopo erano in
qualche modo strumentali al funzionamento dell’ente). L’art 5 della convenzione di
Basilea esclude che possa essere invocata l’immunità qualora la controversia sia relativa ad
un contratto di lavoro concluso tra lo stato estero e una persona fisica, cittadina dello
stato del foro. Anche la convenzione Onu si esprime in tal senso, a meno che l’individuo
non sia stato reclutato con un contratto di diritto pubblico per svolgere funzioni
inquadrabili nell’attività governativa, o sia un agente diplomatico.
Altra importante eccezione stabilita dalla Convenzione Onu riguarda le controversie
relative al risarcimento del danno. Lo stato, cui l’azione o omissione generatrici del
danno siano imputabili, non può invocare l’immunità dalla giurisdizione se l’azione o
l’omissione abbiano avuto luogo nello stato del foro e se l’autore era presente nello
stato
del foro. L’eccezione copre gli incidenti stradali, ma anche l’assassinio politico e
l’attività dei servizi segreti, ma non è applicabile a situazioni di conflitto armato.
L’immunità dalla giurisdizione non può essere invocata, negli USA, per azioni
risarcitorie conseguenti ad atti di terrorismo sponsorizzati da stati (un’eccezione
applicabile solo nei confronti di alcuni stati appositamente selezionati).
Secondo la Cassazione italiana, non può essere accordata l’immunità allo stato estero
che sia responsabile di illeciti da qualificare come crimini internazionali. Da qui si
giunge alla conclusione secondo cui l’immunità non è invocabile quando lo stato si sia
reso responsabile della violazione di norme imperative del diritto internazionale.
Peraltro non si tratterebbe di un’ulteriore eccezione in quanto si tratterebbe della
semplice risoluzione mediante un’interpretazione sistematica delle antinomie tra
norme, l’una cogente (la norma violata), l’altra semplicemente norma consuetudinaria
(l’immunità).
b) Immunità dalle misure esecutive e cautelari
L’immunità è invocabile anche in relazione a procedimenti esecutivi e cautelari. In tal
caso alla distinzione tra atti iure imperii e atti iure gestionis corrisponde l’analoga
distinzione tra beni adibiti allo svolgimento di attività sovrane dello stato e beni che
invece rientrano nella sfera delle attività private dello stato. Anche l’applicazione
pratica di questa distinzione è spesso fonte di incertezze.
L’art 23 della Convenzione di Basilea esclude che possano essere assoggettati a
misure esecutive i beni appartenenti a stati esteri (sul punto la Convenzione non è
dichiarativa della consuetudine). La convenzione ONU distingue tra pre-judgment
measures e post- judgment measures: le prime non sono ammesse, tranne che lo stato
vi abbia consentito; pure le seconde non sono ammesse, fatto salvo per alcune eccezioni,
consentendo misure esecutive su beni che non siano destinati a fini di servizio pubblico
non commerciale (art 19); l’art 21 si premura infine di elencare una serie di beni
immuni.
In conclusione, anche per le misure esecutive vale, mutatis mutandis, lo stesso
principio esposto in relazione all’attività di cognizione del foro, con l’avvertenza che
l’immunità dall’esecuzione è tradizionalmente più ampia dell’immunità dello stato
estero nel giudizio di cognizione. Anche in questo caso, a causa dell’incertezza della
distinzione, il sistema delle lista appare il più opportuno.
Non va dimenticato che, titolari dell’immunità nei termini sopra considerati non sono
solo gli stati in senso stretto, ma anche gli stati membri di stati federali, o comunque le
suddivisioni degli stati, o le persone giuridiche pubbliche distinte dallo Stato, che
abbiano la capacità di stare in giudizio.
c) Immunità e diritto di accesso alla giustizia
Sulla questione della conciliazione dell’immunità degli stati esteri dalla giurisdizione
con il diritto di accesso alla giustizia garantito dall’art 24 della Costituzione, la Corte
Costituzionale e la Cassazione, seppur in modi diversi, hanno finito per dichiarare la
prevalenza del principio dell’immunità. La Corte nella sent. 48/1979 ha affermato che
tutte le consuetudini esistenti prima dell’entrata in vigore della costituzione italiana
dovevano ritenersi presenti nel nostro ordinamento, anche se comportanti una deroga
alla costituzione.
Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che il diritto di accesso ad un
tribunale non è assoluto, ma può essere soggetto a limitazioni, tra cui quelle derivanti
dal diritto internazionale.
2. L’immunità degli organi stranieri
Secondo una norma di diritto internazionale generale, ogni stato ha diritto di
pretendere che la condotta tenuta dai suoi organi sia considerata come attività dello
stato e non come attività individuale posta in essere da soggetti privati: si parla in
proposito di immunità organica o funzionale dell’individuo-organo. Tuttavia il diritto
internazionale consente allo stato territoriale di disconoscere l’immunità organica in
casi ben determinati, in particolare qualora l’organo abbia commesso un crimine
internazionale. All’immunità organica si accompagna talvolta anche un’immunità di
natura personale, per gli atti che l’individuo-organo compie al di fuori delle proprie
funzioni ( i capi di stato e di governo, oltre all’immunità organica, beneficiano,
secondo un’opinione generalmente accettata, delle stesse immunità personali degli
agenti diplomatici quando si trovano all’estero, che peraltro non spetta più qualora
cessino le loro funzioni).
Per quanto riguarda il ministro degli affari esteri, esso gode dell’immunità completa
dalla giurisdizione penale, tanto per gli atti compiuti a titolo privato quanto per quelli
ufficiali, sempre che si tratti di un ministro in carica. L’immunità è strumentale allo
svolgimento delle funzioni di un ministro degli affari esteri e sussiste anche qualora
sia stato commesso un crimine internazionale: in questo caso viene meno solo se
l’individuo è sottoposto a giudizio da parte di un tribunale internazionale.
Qualora l’individuo organo ponga in essere attività clandestine in territorio altrui,
l’immunità organica viene di regola disconosciuta (caso Rainbow warrior), tranne che si
tratti di agenti diplomatici.
Lo status dei corpi di truppa all’estero, che vi si trovino con il consenso dello stato
territoriale è in genere disciplinato dal diritto convenzionale mediante accordi ad hoc.
Nei rapporti tra più contingenti presenti in territorio estero ciascuno è assoggettato alla
legge della propria bandiera. Ma tale principio può essere assunto a criterio di
giurisdizione solo quando si tratti di fatti e rapporti che restano all’interno del
contingente.
3. Gli agenti diplomatici
allo scopo di assicurare un efficace svolgimento della funzioni diplomatiche, al riparo da
debite ingerenze, il diritto internazionale generale stabilisce alcuni privilegi e immunità a
favore degli agenti diplomatici. Questo settore del diritto internazionale è oggetto di
un’apposita convenzione promossa dalle NU: la Convenzione di Vienna sulle relazioni
diplomatiche del 1961.
La procedura con cui l’individuo-organo viene investito delle funzioni diplomatiche
prende il nome di accreditamento. Essa presuppone il preventivo gradimento dello
stato territoriale e si perfeziona con la presentazione delle lettere credenziali
rilasciate dal Capo di stato accreditante al Capo dello stato accreditatario.
Vi sono vari limiti alla potestà territoriale risultanti dall’instaurazione di
relazioni diplomatiche.
a) Inviolabilità dei locali della missione diplomatica
I locali nei quali ha sede la missione diplomatica sono inviolabili (art 22 Convenzione di
Vienna). Gli organi dello stato territoriale non vi possono penetrare se non con il
consenso del capo della missione. L’inviolabilità si estende anche ai mezzi di trasporto
e alla corrispondenza ufficiale della missione. Questo principio si esprime con la
locuzione extraterritorialità della missione diplomatica. Lo stato territoriale ha inoltre il
dovere di prendere tutte le misure necessarie al fine di proteggere la missione
diplomatica da ogni intrusione o danneggiamento.
b) Inviolabilità personale dell’agente diplomatico.
La persona dell’agente diplomatico è inviolabile: lo stato territoriale deve astenersi
dall’esercitare misure coercitive nei confronti dell’agente diplomatico straniero. Vi è
altresì il dovere da parte dello stato territoriale di adottare tutte le misure appropriate
per prevenire ogni attentato o offesa alla persona, libertà o dignità dell’agente
diplomatico.
c) Immunità dell’agente diplomatico dalla giurisdizione locale
Agli agenti diplomatici è riconosciuta, oltre all’immunità organica, una immunità dalla
giurisdizione dei tribunali dello stato presso cui sono accreditati in relazione agli atti da
essi compiuti come persone private (l’immunità dura finchè dura la carica di
diplomatico); si tratta di un’immunità di natura meramente processuale. È invece di
carattere sostanziale e quindi atta a perdurare anche dopo la cessazione delle
funzioni, l’immunità organica per gli atti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni: si
tratta di fatti che non sono imputabili al singolo ma allo Stato di cui è funzionario.
In materia penale l’immunità del diplomatico è piena, non incontrando eccezioni.
Naturalmente il diplomatico che si macchi di reati potrà essere dichiarato dallo Stato
territoriale persona non grata con la conseguenza che lo stato accreditante lo dovrà
richiamare o porre fine al suo incarico.
Gli agenti diplomatici beneficiano inoltre di immunità dalla giurisdizione dei tribunali
locali in materia civile ed amministrativa (con qualche eccezione elencata all’art 3
della Convenzione di Vienna, tra cui azione reale concernente un immobile privato
situato nello stato territoriale, azione successoria..); va ricordato che dal punto di vista
giuridico, titolare del diritto soggettivo all’immunità è lo stato accreditante.
d) Immunità fiscale
Infine il diplomatico gode anche dell’esenzione fiscale per le imposte personali dirette.
4.I consoli
Mentre l’agente diplomatico rappresenta lo Stato accreditante nelle relazioni
internazionali con lo stato territoriale, il console svolge funzioni tipiche
dell’amministrazione dello stato di invio all’interno dello stato territoriale. Tali
funzioni sono elencate all’art 5 della Convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni
consolari (in vigore dal 66); essa è in larga parte codificativa del diritto
consuetudinario.
Tra le funzioni elencate dall’art 5 emergono quelle relative al rilascio dei passaporti e
dei documenti di viaggio ai cittadini dello stato di invio, alla salvaguardia dei loro
interessi nelle successioni mortis causa aperte nello stato di residenza, alla
trasmissione di atti giudiziari o extragiudiziari, inclusa l’esecuzione di rogatorie. I consoli
inoltre agiscono in qualità di notai e di ufficiali di Stato civile e sono competenti a
risolvere le controversie marittime in materia di rapporti tra capitano ed equipaggio
delle navi battenti bandiera dello stato di invio.
I locali consolari sono inviolabili, come anche gli archivi e i documenti consolari.
Ai consoli non spettano le immunità concesse agli agenti diplomatici. In materia di
inviolabilità personale la Convenzione del 63 dispone che i consoli non possano
essere arrestati se non in caso di “reato grave”. Negli altri casi la privazione della
libertà può essere attuata solo a sentenza definitiva. In materia di immunità dalla
giurisdizione i consoli godono solo dell’immunità organica.
Anche il console, come il diplomatico, può svolgere le proprie funzioni solo con il
consenso dello stato di residenza; parimenti può essere dichiarato persona non grata.
[Link] organizzazioni internazionali
Non esistono per le o.i. convenzioni regionali o universali che ne disciplinino il
trattamento nello stato del foro. Di regola si provvede mediante la stipulazione di
strumenti ad hoc per le singole organizzazioni o per una categoria di organizzazioni.
Con l’accordo di sede si stipulano accordi con lo Stato dove l’organizzazione ha sede, nel
quale vengono anche disciplinate le immunità giurisdizionali.
L’art 105 della Carta delle NU afferma che:
1. L’Organizzazione gode, nel territorio di ciascuno dei suoi Membri, dei privilegi e delle immunità
necessari per il conseguimento dei suoi fini.
2. I rappresentanti dei Membri delle Nazioni Unite ed i funzionari dell’Organizzazione godranno
parimenti dei privilegi e delle immunità necessari per l’esercizio indipendente delle loro funzioni
inerenti all’Organizzazione.
3. L’Assemblea Generale può fare raccomandazioni allo scopo di determinare i dettagli
dell’applicazione dei paragrafi 1 e 2 di questo articolo, o proporre ai Membri delle Nazioni Unite
delle convenzioni a tal fine
Per la risoluzione delle controversie di lavoro tra enti internazionali e funzionari
dell’ente stesso esistono dei tribunali interni all’ente, quali ad esempio il Tribunale
Amministrativo delle NU o il Tribunale di primo grado della CE.
La questione dell’immunità delle organizzazioni internazionali è molto dibattuta in
dottrina. La prassi è incerta e per lo più ricavata dalla giurisprudenza dei tribunali
interni. Ancora più incerto è il contenuto dell’immunità: non può essere applicato
automaticamente il principio par in parem non habet iurisdictionem, poiché non esiste
parità tra stati e organizzazioni internazionali.
Se fosse certa e incontrovertibile l’esistenza di una consuetudine in materia di
immunità dalla giurisdizione gli stati non sentirebbero la necessità di inserire una
norma ad hoc negli accordi di sede. Pertanto, qualora si debba accertare se
l’organizzazione goda di
immunità, occorre in primo luogo esaminare l’accordo di sede o altro
strumento equivalente che, in quanto diritto convenzionale, deroga la
consuetudine.
Tra gli accordi in materia vanno ricordate la Convenzione sui privilegi e immunità
delle NU (1946) e quella sui privilegi e immunità delle istituzioni specializzate (1947).
6.I funzionari delle organizzazioni internazionali
I funzionari internazionali godono della sola immunità organica connessa all’esercizio
delle proprie funzioni. non godono invece, secondo il diritto internazionale generale,
di immunità e privilegi di natura personale. Generalmente questi però vengono
accordati ai funzionari di rango più elevato nelle convenzioni generali sopra ricordate
o negli accordi di sede.
Capitolo 8. Le fonti del diritto internazionale
1.L’art.38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ)
L’articolo 38.1 afferma che:
1. La Corte, la cui funzione è di decidere in base al diritto internazionale le controversie che le
sono sottoposte, applica:
a. Le convenzioni internazionali sia generali che particolari, che stabiliscono norme espressamente
riconosciute dagli Stati in lite:
b. La consuetudine internazionale, come prova di una pratica generale accettata come diritto;
c. i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili;
d. con riserva delle disposizioni dell'articolo 59, le decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più
qualificati delle varie nazioni come mezzi sussidiari per la determinazione delle norme
giuridiche. Questa disposizione è tradizionalmente considerata come un’autorevole
enunciazione delle fonti del diritto internazionale. L’art. 38 deve essere oggi letto
insieme all’art 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, il quale ha
riconosciuto l’esistenza di norme imperative del diritto internazionale generale (ius
cogens).
Nell’esaminare le fonti del diritto internazionale si deve anche tener conto del
fenomeno per il quale accordi internazionali provvedono talvolta ad istituire
procedimenti di produzione giuridica, le c.d fonti previste da accordo o fonti di terzo
grado.
2. La consuetudine
L’art 38 dello statuto della ICJ definisce la consuetudine come una “pratica generale
accettata quale diritto”. Secondo questa definizione quindi la consuetudine si
compone di due elementi costitutivi: a) la diuturnitas, cioè la ripetizione costante di un
comportamento da parte della maggior parte degli stati (elemento materiale); b) l’opinio
iuris ac necessitatis, vale a dire la convinzione generale che tale comportamento sia
conforme a diritto (elemento psicologico). Non può dare origine a una consuetudine
internazionale una pratica contraria a diritto e che sia reputata tale. Il tempo di
formazione della consuetudine può essere più o meno esteso; in ogni caso, un certo
lasso di tempo, per quanto breve, è necessario ai fini della cristallizzazione di una
norma consuetudinaria: non esistono dunque consuetudini istantanee. Le risoluzioni
dell’Assemblea generale, anche
adottate per consensus, non possono creare diritto consuetudinario; al massimo esse
possono provare l’opinio iuris degli stati.
La prassi deve essere virtualmente uniforme e seguita dalla generalità degli stati:
generalità non significa totalità, ma la più gran parte di essi. Molto importante è il
comportamento degli stati i cui interessi sono specialmente toccati, come ad
esempio gli stati marittimi per la nascita delle consuetudini in materia di diritto del
mare.
La prassi negativa, di per sé, non prova l’esistenza di un obbligo di non facere; è
necessario che sia sorretta dall’opinio iuris. Parimenti la prassi incompatibile non è in
se stessa sufficiente a produrre l’abrogazione di una norma preesistente.
La formazione di una norma consuetudinaria dipende anche dalla convinzione che la
pratica generale sia conforme a diritto (opinio iuris). La necessità di tale elemento
psicologico è stata ribadita dalla ICJ nella sentenza sulla Piattaforma continentale del
Mare del Nord (1969), secondo la quale “gli atti considerati non solo devono dar luogo
ad una pratica costante, ma devono essere tali, o essere compiuti in modo tale, da
costituire la prova della convinzione che questa pratica sia resa obbligatoria
dall’esistenza di una norma di diritto.
Le risoluzioni dell’AG delle NU possono fornire elementi importanti per provare l’opinio
iuris circa l’esistenza della norma, ma bisogna tener conto del contenuto della
risoluzione e delle condizioni della sua adozione: l’opinio iuris circa l’esistenza della
norma non è attribuibile a quegli stati che abbiano votato contro o che comunque
abbiano affermato, al momento della sua adozione, che la risoluzione non è
dichiarativa del diritto consuetudinario.
La consuetudine è fonte idonea a creare norme di diritto internazionale generale,
vincolanti tutti i membri della comunità internazionale. Ogni stato è tenuto ad
osservare una norma consuetudinaria, indipendentemente dal fatto che abbia o no
partecipato alla sua formazione o che l’abbia accettata o meno. Parimenti gli stati di
nuova formazione sono vincolati dalle norme consuetudinarie vigenti al momento della
loro nascita. Non è accettabile la teoria dell’obiettore permanente, cioè la tesi secondo
cui la consuetudine non vincola lo stato che si sia persistentemente opposto, in modo
palese e inequivocabile al suo processo di formazione.
L’idoneità della consuetudine a produrre norme generali non esclude che vi
possano essere norme consuetudinarie vincolanti soltanto una ristretta cerchia di
soggetti (c.d. consuetudini particolari); sono spesso norme che vincolano una
determinata area geografica o geopolitica (si pensi al principio dell’uti
possidetis).
Una seconda ipotesi di consuetudine particolare sarebbe data da quelle
consuetudini che si formano in deroga a regole pattizie, ed in particolare a norme
stabilite dal trattato
istitutivo di una o.i.; un esempio sarebbe dato dalla prassi sviluppatasi nel Cds delle NU
in deroga all’art.27.3 per cui l’astensione di un membro permanente non impedisce
l’adozione di una delibera da parte del Consiglio. La prassi modificativa di un trattato
potrebbe però essere meglio intesa come un comportamento da cui può evincersi un
accordo (tacito) modificativo del precedente. In questo senso trova applicazione l’art
31.3b della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (“qualsiasi prassi successivamente
seguita
nell'applicazione del trattato attraverso la quale si sia formato un accordo delle parti in materia di
interpretazione del medesimo”).
3. Le norme imperative del diritto internazionale (ius cogens)
Le norme di ius cogens hanno un rango superiore alle norme poste mediante
accordo e alle semplici norme consuetudinarie. La categoria delle norme imperative è
emersa in un periodo relativamente recente e ha trovato il suo primo riconoscimento
nell’art 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969):
“E’ nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, è in conflitto con una norma
imperativa del diritto internazionale generale. Ai fini della presente Convenzione, una norma
imperativa del diritto internazionale generale è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità
internazionale degli Stati nel suo complesso come norma alla quale non è consentita alcuna
deroga e che può essere modificata soltanto da un'altra norma del diritto internazionale generale avente
lo stesso carattere.”
Vi sono quindi due criteri identificativi dello ius cogens: a) la generalità. Per essere
imperativa la regola deve appartenere alle norme di diritto internazionale generale
che vincolano tutti i membri della comunità internazionale. Poiché l’unica fonte idonea
a produrre norme generali è la consuetudine, ne consegue che le norme di ius cogens
sono necessariamente norme di fonte consuetudinaria; b) l’accettazione e il
riconoscimento, quale norma inderogabile, da parte della comunità internazionale del
suo insieme. È necessario che gli stati nutrano la convinzione della natura
inderogabile della norma; siffatta convinzione deve essere propria della comunità
internazionale nel suo insieme, cioè deve essere condivisa dagli stati appartenenti a
tutte le componenti essenziali della comunità internazionale (stati occidentali, stati
africani, stati asiatici, stati latino- americani). È quindi escluso che possa esistere uno ius
cogens regionale. In breve le norme imperative sono norme consuetudinarie sorrette da
una opinio iuris particolarmente qualificata (l’inderogabilità). Non è raro il caso per cui
una norma nasca come consuetudinaria e si trasformi successivamente in imperativa,
pur avendo un contenuto più ristretto della norma originaria. Allo stato attuale delle
relazioni internazionali è difficile configurare norme che siano autonomamente sorte
come norme cogenti.
È da escludere che lo ius cogens possa trovare la fonte in un trattato internazionale,
poiché l’accordo produce solo diritto particolare, vincola cioè solo gli stati parti.
La dottrina e la stessa CDI hanno qualificato come norme cogenti il divieto di
aggressione, quelle che vietano il genocidio, l’apartheid, la tortura, il mantenimento con
la forza di una dominazione coloniale, la negazione del diritto all’autodeterminazione
dei popoli, il divieto di crimini di guerra e contro l’umanità. Come si evince dagli esempi,
le norme cogenti proteggono diritti fondamentali dell’ordinamento internazionale e
costituiscono le basi fondanti dell’attuale comunità internazionale.
La nozione di diritto cogente si applica anche alle fonti previste da accordo. Una
risoluzione del CDS delle NU contraria allo ius cogens sarebbe invalida.
4. L’accordo
L’accordo (o trattato o convenzione) è fonte del diritto internazionale, come affermato
dall’articolo 38.1,a dello statuto della ICJ.
Nel 1969 è stata conclusa la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che detta le
regola per la disciplina di tale fonte del diritto. Le regole in questione sono in parte
dichiarative del diritto internazionale, in parte sviluppo progressivo, e la convenzione
non è stata ratificata ancora da tutti gli stati (Francia e USA in testa).
L’art 2 della convenzione riporta, tra le altre, la definizione giuridica di trattato; la
lettera
a) stabilisce infatti che: “l'espressione "trattato" significa un accordo internazionale concluso in forma
scritta fra Stati e disciplinato dal diritto internazionale, contenuto sia in un unico strumento sia in
due o più strumenti connessi, e quale che sia la sua particolare denominazione.
Come si deduce da questa definizione, il trattato può avere varie denominazioni
(accordo, protocollo, convenzione, statuto, dichiarazione, ecc); può essere composto
da uno o più strumenti connessi (come uno scambio di note o di lettere) e deve essere
disciplinato dal diritto internazionale. Non costituisce pertanto un trattato né un accordo
che trova fondamento nel diritto pubblico di uno dei contraenti né uno strumento non
avente natura giuridicamente vincolante e appartenente al c.d. soft law. Normalmente
questi documenti vengono definiti guidelines, codici di condotta, dichiarazioni.
La convenzione di Vienna disciplina solo i trattati tra stati. Tuttavia costituiscono
trattati anche gli accordi conclusi tra stati e altri soggetti del diritto internazionale o tra
soggetti di diritto internazionale diversi dagli stati. Inoltre la convenzione disciplina
solo i trattati scritti e non quelli orali, di cui l’art 3 ammette implicitamente la
validità. Il problema per gli accordi conclusi in forma orale non è tanto quello della
loro ammissibilità quanto quello di stabilire ciò che è stato pattuito.
L’accordo può disciplinare tutte le materie, incluse quelle facenti parte del domino
riservato degli Stati. Il solo limite alle potenzialità dell’accordo è rappresentato dallo ius
cogens. Un accordo contrario al diritto cogente è nullo.
Al contrario della consuetudine, che produce diritto internazionale generale, l’accordo
produce solo diritto internazionale particolare, vincolante cioè solo per le parti. Ciò non
toglie che una regola di un trattato possa riprodurre una regola consuetudinaria
preesistente o trasformarsi successivamente in diritto consuetudinario (art 38 Convenzione
sul diritto dei trattati). In tal caso la regola, essendo diritto consuetudinario obbliga tutti
gli stati.
L’art 13.1.a della Carta delle NU afferma che: “l’Assemblea Generale intraprende studi e fa
raccomandazioni allo scopo di: a) promuovere la cooperazione internazionale nel campo politico
ed incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione”. A tal fine
l’AG si avvale della CDI, organo di individui che predispone il lavoro necessario per
preparare dei progetti di convenzione. Gli accordi che scaturiscono da tale processo
possono essere dichiarativi in tutto o in parte della consuetudine internazionale. La regole
che siano dichiarative obbligano tutti gli stati membri della comunità internazionale,
indipendentemente dalla ratifica dell’accordo e della sua entrata in vigore.
5.I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili
Con la formula “principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili” (art 38.1c
dello Statuto della ICJ) si vogliono indicare quei principi giuridici che sono
generalmente riconosciuti negli ordinamenti degli stati. Essi sono assunti
dall’ordinamento
internazionale attraverso un processo di produzione giuridica automatico; es: il
principio di irretroattività delle norme giuridiche a carattere punitivo e il principio nemo
iudex in re sua. Si tratta di principi generali accolti dagli stati in foro domestico che
sono resi applicabili sul piano internazionale al fine di integrare, ove ve ne sia la
necessità, tanto il diritto convenzionale tanto quello consuetudinario.
I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili possono giocare un
ruolo determinante nell’individuazione del diritto applicabile ai contratti fra stati e
privati, anche se non si tratti di accordi internazionali.
Ai principi generali di diritto ricavabili dagli ordinamenti interni degli stati fa pure
riferimento l’art 21 dello statuto della Corte Penale Internazionale per quanto riguarda il
diritto applicabile.
Da ricordare che i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili sono
desunti dagli ordinamenti interni degli stati, mentre i principi generali del diritto
internazionale provengono direttamente dall’ordinamento internazionale.
6. La giurisprudenza e la dottrina
L’art 38.1d dello statuto ICJ fa riferimento alla giurisprudenza e alla dottrina
specificando che sono mezzi sussidiari per l’accertamento delle norme giuridiche; non
sono pertanto fonti del diritto internazionale.
Il valore non vincolante della giurisprudenza è stato affermato in seno alla
Commissione di giuristi incaricata di preparare lo Statuto ICJ.
Ai fini dell’individuazione del contenuto delle norme internazionali vengono in
considerazione non solo le sentenze della ICJ, ma anche quelle dei tribunali arbitrali.
In materia di diritti dell’uomo grande importanza va attribuita alla Corte Europea
dei Diritti dell’uomo. La giurisprudenza interna ha una sua rilevanza per la
ricostruzione del contenuto di una norma di diritto internazionale; discorso
analogo vale per i pareri consultivi della ICJ.
L’art 38 dello statuto della ICJ menziona anche la dottrina tra gli strumenti sussidiari
per la determinazione delle norme di diritto internazionale. Occorre far riferimento
non agli autori di una particolare tradizione dottrinale, ma agli autori più
rappresentativi dei vari sistemi giuridici. Pur essendo giurisprudenza e dottrina posti
sullo stesso piano nell’art 38, alla prima è probabilmente da annettere più importanza
che alla seconda.
7. L’equità
Lo statuto della ICJ abilita la corte ad adottare sentenze ex equo et bono, purchè le parti le
attribuiscano tale potere. In tal caso la corte giudica in base a principi extra-giuridici (art
38.2 ICJ). L’equità viene in considerazione nel giudizio della Corte come un principio
non facente parte dell’ordinamento internazionale, ma ricavato dal comune sentire in
merito alla giustizia e altri criteri similari. Quando la Corte decide secondo equità, la
sentenza ha valore dispositivo, anziché di mero accertamento, ed è tale sentenza e
non l’equità che si configura come fonte di diritto nei rapporti fra le parti. Più
precisamente si tratta di una fonte prevista da accordo, poiché trae la sua forza
obbligatoria dall’accordo fra le parti. Tuttavia la ICJ non ha ancora emesso sentenze
ex equo et bono.
Non essendo fonte del diritto internazionale, non è ammessa l’equità contra legem. L’equità
però può essere rilevante anche quando una norma di diritto internazionale impone il
ricorso a criteri equitativi: si pensi alla delimitazione della piattaforma continentali tra
stati adiacenti o frontisti e la determinazione delle rispettive ZEE. Ma è soprattutto
quando, in assenza di accordo, le parti di una controversia di delimitazione si rivolgono
a un tribunale internazionale che l’equità si configura come un principio autonomo di
diritto internazionale. In tal caso “la nozione giuridica di equità è un principio generale
direttamente applicabile come diritto” (ICJ nel caso della delimitazione della piattaforma
continentale tra Tunisia e Libia). In questo caso l’equità viene in considerazione non
come categoria astratta ma come riferimenti agli “equi principi” che si applicano nella
delimitazione marittima, secondo quanto previsto dal diritto consuetudinario.
8. Le fonti previste da accordo
L’accordo può prevedere che, attraverso l’adozione di un determinato atto, o
mediante un determinato procedimento, vengano create norme giuridiche vincolanti
nei rapporti tra le parti. In tal caso, si è in presenza di una fonte prevista da accordo.
La fonte prevista da accordo può essere inserita in un semplice trattato oppure in un
trattato istitutivo di una o.i.,e questi sono i casi più frequenti. Il trattato istitutivo della CE
attribuisce agli organi preposti il potere di emanare atti vincolanti (regolamenti, direttive
decisioni) e atti non vincolanti (raccomandazioni e pareri). Il trattato istitutivo della UE
dispone che in materia di “cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale”
possano essere adottate decisioni-quadro e decisioni, atti giuridicamente vincolanti.
Nell’ambito delle NU, spetta al Consiglio di sicurezza adottare decisioni vincolanti nei
casi previsti dalla Carta. L’unico caso in cui all’AG è consentito adottare un atto
giuridicamente vincolante è costituito dall’art 17.2 della Carta (potere di ripartizione
delle spese dell’organizzazione fra gli stati membri).
Il CDS delle NU, a norma dell’art 41, può emanare decisioni vincolanti che obbligano gli
stati ad adottare misure coercitive non comportanti l’uso della forza nei confronti di uno
stato determinato (le sanzioni). Si tratta di misure obbligatorie di natura concreta,
difficilmente assimilabili ad un atto normativo. A differenza dei trattati, che obbligano gli
stati parti solo dopo che sia avvenuta la ratifica, le decisioni in questione vincolano gli
stati non appena adottate dal Cds. Un altro esempio è costituito dalla ris 1373(2001)
con cui vengono dettate misure contro il terrorismo, che gli stati debbono attuare
all’interno del proprio ordinamento.
Le istituzioni specializzate delle NU non hanno, di solito, poteri normativi. Tra le
eccezioni va ricordato l’OMS.
I trattati istitutivi di organizzazioni internazionali possono prevedere una procedura di
emendamento con effetti erga omnes. Ad esempio gli emendamenti della Carta
delle NU entrano in vigore per tutti i membri qualora siano stati adottati con la
maggioranza dei due terzi da parte dell’AG e ratificati da due terzi dei paesi membri
delle NU, compresi i membri permanenti del Cds (art 108 NU). La stessa procedura
vale, mutatis mutandis, per la revisione (art 109).
9. La gerarchia delle fonti
Al vertice delle fonti è da collocare la consuetudine, ma questa a seconda
dell’atteggiarsi dell’elemento soggettivo può produrre norme derogabili oppure norme
inderogabili, e quindi ius cogens. Una norma imperativa può essere modificata solo da
un’altra norma imperativa (art 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati). È
invece difficilmente ammissibile che una norma imperativa si estingua per desuetudo:
atti contrari alla norma imperativa sarebbero qualificati come illeciti particolarmente
gravi. Lo ius cogens impedisce la formazione di norme consuetudinarie contrarie;
comunque la consuetudine cede al diritto cogente posteriore, mentre le semplici
consuetudini successive si coordinano secondo il principio di successione delle leggi nel
tempo.
È importante stabilire se una norma posteriore ad un trattato abbia natura imperativa o
consuetudinaria. Infatti nel primo caso la norma imperativa estingue il trattato anteriore,
mentre questo prevale a fronte di una norma consuetudinaria successiva.
È un fatto che l’ordine elencato dall’articolo 38 dello statuto ICJ è quello in cui si
presentano le fonti al giudice internazionale. Infatti egli, di fronte ad una fattispecie
concreta, verificherà se essa sia disciplinata dall’accordo tra le parti; in mancanza di un
accordo farà riferimento alla consuetudine. I principi generali di diritto riconosciuti dalle
nazioni civili verranno in considerazione solo come principi integratori di accordi e
consuetudini.
Mentre tra consuetudini della medesima natura vale il principio della successione delle
leggi nel tempo, nei rapporti tra consuetudine generale e particolare vale il principio di
specialità, cosicché, anche se anteriore, la consuetudine particolare prevale su quella
generale.
Il rapporto tra consuetudine e accordo è disciplinato secondo il principio di specialità:
l’accordo anteriore prevale sulla consuetudine posteriore a titolo di lex specialis. Può
darsi però che scopo della consuetudine posteriore sia quello di disciplinare un’intera
materia, con la conseguenza che la consuetudine posteriore abroga l’accordo
anteriore.
Il principio di specialità non è applicabile al rapporto tra accordo e consuetudine locale:
le due fonti si coordinano secondo il principio della successione delle leggi nel tempo.
Visto il loro scopo (integrare norme pattizie e consuetudinarie), i principi generali
di diritto riconosciuti dalle nazioni civili occupano il gradino più basso delle fonti
de diritto internazionale.
10. Le norme istitutive di obblighi erga omnes o di vincoli solidali
Di regola le norme internazionali creano vincoli bilaterali, sono cioè fonte di diritti e
obblighi fra le parti. La ICJ nel parere del 1951 sulle riserve alla Convenzione sul
genocidio, pose le basi per la definizione di norme istitutive di obblighi erga omnes o
istitutive di vincoli solidali. Queste normative riguardano materie che “tutti gli stati
possono considerare come aventi un interesse giuridico a che tali diritti siano
protetti”(ICJ, Barcelona Traction, 1970). La Corte cita come esempi il divieto di
aggressione e del genocidio, e il divieto della schiavitù e della discriminazione
razziale, il principio di autodeterminazione dei popoli.
Le norme che stabiliscono obblighi erga omnes pongono obblighi esigibili da tutti gli
stati, o dalla comunità degli stati parti se la fonte dell’obbligo erga omnes è di natura
pattizia. A
quanto si evince dalla stessa giurisprudenza della ICJ, la solidarietà dell’obbligo può
derivare sia da una norma pattizia sia da una consuetudinaria.
Le norme di diritto cogente sono norme istitutive di obblighi erga omnes; il reciproco
non è vero, poiché la fonte istitutiva dei vincoli solidali può essere anche l’accordo,
ma l’accordo non è fonte di diritto cogente: dato che sono poste a tutela della
comunità internazionale nel suo complesso, le norme cogenti fungono anche come
norme che impongono obblighi erga omnes; al contrario, la solidarietà fondata su un
convenzione multilaterale opera a tutela degli interessi disposti dalla convenzione.
11. Il Soft Law
Con il termine soft law si identificano le disposizioni non giuridicamente vincolanti. Si
tratta di atti adottati dalle organizzazioni internazionali, quali le raccomandazioni
internazionali, oppure di “codici di condotta” o di atti adottati da conferenze
internazionali non aventi dignità di trattato (es: gli atti dell’OSCE).
Una serie ripetuta di risoluzioni delle o.i. può contribuire alla creazione di
consuetudini internazionali, tramite il consolidamento dell’opinio iuris, sempre che
sussistano i requisiti per la nascita di una consuetudine.
In secondo luogo il soft law può costituire la fonte materiale di diritti e obblighi
giuridici, oppure essere richiamato in un trattato dove viene espressamente stabilito
che gli Stati si obbligano a rispettare le disposizioni dell’atto di soft law richiamato.
12. Gli atti unilaterali
Un atto unilaterale consiste in una manifestazione di volontà che non è destinata a
incontrarsi con quella di un altro soggetto e quindi non ha valore pattizio. L’atto
unilaterale per poter produrre effetti giuridici deve essere previsto da una norma
dell’ordinamento (pattizia o consuetudinaria).
Agli atti unilaterali disciplinati dal diritto pattizio, appartengono la denuncia (o
recesso) e la requete. La denuncia o recesso è l’atto con cui lo stato si scioglie dai
vincoli contrattuali disposti dal trattato, il quale disciplinerà modalità e tempistica del
recesso.
La requete è l’atto con cui si mette unilateralmente in moto il procedimento dinanzi ad
un organo giurisdizionale, ad esempio la ICJ. La requete presuppone l’esistenza di una
clausola compromissoria, inserita in un trattato internazionale, con cui le parti
convengono che ogni controversia relativa all’applicazione o interpretazione del trattato
possa essere deferita, mediante ricorso unilaterale, alla competenza di un organo
giurisdizionale espressamente indicato.
Alla categoria degli atti unilaterali disciplinati dal diritto consuetudinario appartengono
numerosi atti, la cui natura giuridica è peraltro controversa: riconoscimento, rinuncia,
notifica, acquiescenza, protesta, promessa, estoppel. Gli atti unilaterali legittimati ad
esprimere la volontà internazionale dello stato sono quelli emanati dal capo di stato
capo di governo e ministro degli esteri; inoltre gli atti unilaterali sono soggetti al
regime di validità proprio degli atti giuridici, che può essere mutuato dalla
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
Il riconoscimento qui considerato è quello relativo a situazioni giuridiche e non il
riconoscimento di stati e governi (che sono atti politici e discrezionali).
Con la rinuncia, un soggetto manifesta la volontà di non avvalersi di un diritto
soggettivo a lui spettante; la rinuncia può essere esplicita o desunta da atti concludenti.
L’acquiescenza è la conseguenza della mera inerzia del soggetto di fronte ad una
situazione che tocca i suoi interessi; non è il mero silenzio, ma il silenzio di chi
avrebbe dovuto prendere posizione in ordine ad una determinata situazione.
Nella protesta non si riconosce come conforme al diritto una determinata pretesa e quindi
si impediscono le conseguenze che potrebbero derivare dall’acquiescenza.
La ICJ, nell’affare sugli esperimenti nucleari, ha affermato che le dichiarazioni
(promessa) della Francia, secondo cui avrebbe cessato gli esperimenti una volta
conclusa la campagna di test del 1974, erano fonte di obblighi giuridici per la Francia.
Naturalmente occorre ricavare dalla dichiarazione unilaterale una chiara volontà di
obbligarsi: la dichiarazione deve essere chiara ed effettuata in termini specifici.
Con la notifica si rendono edotti uno o più soggetti di diritto internazionale
dell’esistenza di determinati fatti o situazioni; il soggetto che ha ricevuto la notifica non
può quindi ignorare l’esistenza del fatto o situazione.
L’estoppel è una figura di diritto anglosassone. La sua definizione è peraltro
controversa: secondo alcuni, l’estoppel impedisce di rendere priva di effetti una
dichiarazione effettuata da uno stato nei confronti di un altro, quando la dichiarazione
è a svantaggio del dichiarante e a vantaggio dell’altro stato. Allo stato dichiarante è
precluso contestare la sua dichiarazione e far valere una pretesa in contrasto con
essa. In realtà l’estoppel finisce con il confondersi con acquiescenza, riconoscimento e
preclusione a contestare una situazione ritenuta conforme a diritto mediante un’espressa
manifestazione di volontà, o l’assenza di proteste dell’altra parte.
Capitolo 9. Il diritto dei trattati
1. Modalità di stipulazione ed entrata in vigore dei trattati
La procedura di stipulazione di un trattato inizia con la negoziazione. I negoziati sono
condotti da plenipotenziari degli Stati. La negoziazione di trattati multilaterali ha luogo
nell’ambito di una conferenza internazionale oppure in seno all’organo di una o.i.
L’adozione del testo avviene nei termini dell’art 9 della Convenzione di Vienna sul
diritto dei trattati del 1969: “1. L'adozione del testo di un trattato avviene con il consenso di tutti gli
Stati partecipanti alla sua elaborazione, salvo nei casi previsti al paragrafo 2.
2. L'adozione del testo di un trattato in una conferenza internazionale si ha alla maggioranza dei due terzi
degli Stati presenti e votanti, a meno che questi Stati non decidano, con la stessa maggioranza, di
applicare una regola diversa”
Il testo può essere parafato, cioè siglato dai plenipotenziari con le sole iniziali. Alla
parafatura segue la firma, che viene apposta anche qualora la parafatura sia omessa.
Generalmente la firma non obbliga le parti ad osservare il trattato, quanto ha lo scopo
di autenticare e rendere incontestabile il testo negoziato. Da notare l’art 18.a CV che
afferma: “Uno Stato deve astenersi da atti che priverebbero il trattato del suo oggetto e del suo
scopo quando:
a. ha sottoscritto il trattato o scambiato gli strumenti che costituiscono il trattato con riserva di
ratifica, accettazione o approvazione, fintanto che non abbia manifestato la sua intenzione di non
divenirne parte.” La fase successiva consiste nella ratifica, cioè nell’atto con cui lo Stato si
impegna ad osservare il trattato. Alla ratifica segue lo scambio delle ratifiche, qualora
venga in
considerazione un trattato bilaterale. Nel caso di trattati multilaterali ha invece luogo il
deposito delle ratifiche presso il depositario, cioè uno stato od organo di una o.i. (es: il
Segretario generale delle NU). I trattati bilaterali entrano in vigore dopo lo scambio
delle ratifiche; quelli multilaterali dopo il raggiungimento di un certo numero di ratifiche.
Si diviene parte di un trattato multilaterale anche tramite l’adesione. Essa è un atto con
cui divengono parti del trattato gli stati che non hanno partecipato alla negoziazione. A
questo fine va consultata la clausola di adesione per individuare gli stati in possesso di
requisiti per aderire ed il termine entro cui effettuare l’adesione.
Nel caso si tratti di membri delle NU l’art 102 della Carta afferma che:
“1. Ogni trattato ed ogni accordo internazionale stipulato da un Membro delle Nazioni Unite
dopo l’entrata in vigore del presente Statuto deve essere registrato al più presto possibile presso il
Segretariato e pubblicato a cura di quest’ultimo.
2. Nessuno dei contraenti di un trattato o accordo internazionale che non sia stato registrato in conformità
alle disposizioni del paragrafo 1 di questo articolo, potrà invocare il detto trattato o accordo
davanti ad un organo delle Nazioni Unite.”
Peraltro quest’obbligo di registrazione non è un requisito di validità dell’accordo.
Al termine della Conferenza che ha adottato il testo viene normalmente redatto un
Atto finale. Tale strumento è una specie di atto notarile che registra tutte le fasi
della conferenza, peraltro non sottoponibile a ratifica. All’Atto Finale sono talvolta
accluse delle risoluzioni o dichiarazioni adottate al termine dei lavori. Anche queste
non vengono sottoposte a ratifica e non costituiscono atti giuridicamente vincolanti.
Tuttavia il testo dell’Atto finale può costituire lo strumento che attesta l’autenticità
del testo di trattato negoziato (art 10(b) CV).
Le modalità di stipulazione ora esposte riguardano gli accordi conclusi con la forma
solenne, dove la firma ha il solo scopo di autenticazione del testo, mentre la ratifica (o
l’adesione) ha lo scopo di obbligare lo stato. Negli accordi conclusi in forma semplice,
la procedura è più semplice e consiste di regola nella sola negoziazione, cui segue la
firma da
parte dei plenipotenziari. In tal caso la firma, oltre ad autenticare il testo, ha anche lo
scopo di obbligare le parti all’osservanza del trattato. Il valore “obbligatorio” della
firma deve risultare direttamente dal testo o essere ricavato dalla volontà delle parti.
2. La capacità di concludere trattati internazionali
art 6 CV: Ogni Stato ha la capacità di concludere trattati
Si fa qui riferimento agli stati in senso di soggetti del diritto internazionale; sono quindi
esclusi gli stati membri di stati federali.
La Convenzione di Vienna del 1969 disciplina solo i trattati stipulati da stati. In realtà
altri soggetti del diritto internazionale sono titolari dello ius contraendi: tra questi in
primis ci sono le o.i. (es: ONU, NATO, UE). Gli accordi stipulati dalle o.i. sono
disciplinati dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati fra stati ed
organizzazioni internazionali, e fra organizzazioni internazionali; tale convenzione ha
avuto un basso numero di ratifiche e non è considerata dichiarativa del diritto
consuetudinario.
Tra i soggetti del diritto internazionale che possono concludere accordi sono da
annoverare gli insorti e i movimenti di liberazione nazionale (pur avendo una limitata
capacità internazionale). La capacità degli insorti e dei movimenti di liberazione
nazionale di stipulare accordi si evince espressamente dal diritto convenzionale
umanitario (art.3 delle Convenzioni di Ginevra del 1949; art.96 del I Protocollo
addizionale del 1977). La capacità del partito insurrezionale di concludere accordi
trova conferma anche nella prassi recente: gli Accordi di Rambouillet del 1999 relativi
alla sistemazione del Kosovo erano stati firmati dall’Uck, ma respinti dalla Serbia, che
contestava il contenuto degli accordi e non la capacità dell’Uck a concluderli.
3. I pieni poteri e gli organi legittimati a concludere gli accordi
internazionali l’adozione del testo di un trattato, la sua autenticazione o il
consenso ad essere obbligato, sono atti che devono provenire da persone (organi) i
cui atti siano imputabili allo Stato e
siano abilitati dal diritto internazionale a concluderli. L’individuazione degli organi
competenti a stipulare i trattati non è effettuata dal diritto internazionale, ma dal diritto
interno di ciascun stato. Esistono però alcune norme internazionali che legittimano
direttamente alcuni organi statali ad esercitare determinate funzioni. a questo
proposito si veda l’art.7 CV: Pieni poteri
1. Una persona è considerata rappresentante di uno Stato per l'adozione o l'autenticazione del testo di un
trattato o per esprimere il consenso dello Stato a essere obbligato da un trattato:
a. se essa esibisce i dovuti pieni poteri;
b. se risulta dalla pratica degli Stati interessati o da altre circostanze che essi avevano l'intenzione di
considerare quella persona come rappresentante dello Stato a quei fini e di non richiedere la
presentazione dei pieni poteri.
I pieni poteri sono di regola un documento firmato dal Capo dello Stato e
controfirmato dal ministro degli esteri. Un atto compiuto da una persona che non ne
aveva il potere è privo di effetti giuridici, tranne che esso sia successivamente
convalidato dallo stato (art.8)
2. Sono considerati rappresentanti dello Stato in virtù delle loro funzioni e senza essere
tenuti ad esibire pieni poteri:
a. i Capi di Stato, i Capi di governo e i Ministri degli affari esteri, per tutti gli atti relativi alla
conclusione di un trattato;
b. i capi di missione diplomatica, per l'adozione del testo di un trattato fra lo Stato accreditante e lo Stato
accreditatario;
c. i rappresentanti degli Stati accreditati a una conferenza internazionale o presso una
organizzazione internazionale o uno dei suoi organi, per l'adozione del testo di un trattato in quella
conferenza, organizzazione o organo.
La CV non fa menzione delle convenzioni tra belligeranti. Il procedimento di
stipulazione di queste convenzioni si distingue da quello tradizionale per l’esigenza di
speditezza che
la situazione richiede. Le convenzioni possono essere stipulate dai comandanti militari
responsabili delle operazioni ed entrano immediatamente in vigore senza bisogno di
ratifica. Dette categorie di convenzioni non possono però contenere clausole politiche o
territoriali pena la loro invalidità. Il diritto internazionale accorda a i comandanti militari il
potere di stipulare convenzioni con il nemico senza che sia necessaria l’esibizione dei
pieni poteri.
4. Le riserve
La riserva è definita nella CV all’art 2(d):” l'espressione "riserva" indica una dichiarazione
unilaterale, quale che sia la sua articolazione e denominazione, fatta da uno Stato quando
sottoscrive, ratifica, accetta o approva un trattato o vi aderisce, attraverso la quale esso mira ad
escludere o modificare l'effetto giuridico di alcune disposizioni del trattato nella loro applicazione allo
Stato medesimo”
La riserva può essere eccettuativa, in quanto lo stato riservante mira ad escludere
l’applicazione di una determinata clausola del trattato; oppure modificativa o interpretativa,
in quanto volta a modificare gli effetti di talune disposizioni del trattato o conferire una
determinata interpretazione ad un termine o ad una clausola del trattato. Non sono
riserve le dichiarazioni di natura politica.
La riserva può essere apposta solo ad un trattato multilaterale: in un trattato bilaterale
essa equivarrebbe ad un’offerta a concludere un nuovo trattato.
In diritto internazionale è stato da tempo abbandonato il principio dell’integrità del
trattato. È invece prevalso il principio della flessibilità: di regola se il trattato disciplina
espressamente la possibilità di apporre riserve, le relative disposizioni vanno rispettate;
tuttavia, quando il trattato nulla dice in proposito, non è più necessario che la riserva
sia accettata da tutti gli stati parti; in linea di principio è sufficiente che uno stato
contraente accetti la riserva affinché il suo autore possa divenire parte del trattato.
Tale sistema è stato consacrato nel parere della ICJ relativo alle riserve alla
Convenzione sul genocidio (1951), che ha inoltre affermato il principio secondo cui
sono inammissibili le riserve incompatibili con l’oggetto e lo scopo del trattato.
Di fronte alla riserva altrui, uno stato può accettarla oppure formulare una obiezione.
I rapporti contrattuali che si instaurano tra stato riservante e altri stati possono
essere così riassunti:
- stato riservante e stato accettante: il trattato si applica ad eccezione della
clausola oggetto della riserva o con le modifiche volute dal riservante.
- Stato riservante e stato obiettante: il trattato non si applica.
- Rapporti fra stati non riservanti: il trattato si applica
integralmente. Peraltro l’art 21.3 CV prevede che:
Quando uno Stato che ha formulato una obiezione ad una riserva non si è opposto all'entrata in vigore del
trattato fra se stesso e lo Stato autore della riserva, le disposizioni alle quali la riserva si riferisce
non si applicano fra i due Stati nella misura prevista dalla riserva.
Praticamente una semplice obiezione (priva cioè della espressa volontà dello stato
di non voler essere obbligato nei confronti del riservante) produce gli stessi effetti
dell’accettazione. Per quanto riguarda le riserve interpretative, mentre, in caso di
accettazione della riserva, la clausola che ne è oggetto si applica come modificata o
interpretata dallo stato riservante, in caso di obiezione non qualificata la clausola
oggetto della riserva non si applica.
Particolari problemi sollevano i trattati che stabiliscono vincoli solidali (cioè obblighi
erga omnes) nei confronti di tutte le parti contraenti. In tal caso l’obiezione è priva di
significato pratico, poiché se uno stato non applica il trattato nei confronti dello stato
riservante viola il trattato nei confronti di tutti gli altri stati (es: i trattati di disarmo).
Occorre seguire una determinata procedura temporale per l’apposizione della riserva.
Le riserve possono essere formulate al momento della firma, oppure in occasione
della ratifica o adesione. Le riserve formulate al momenti della firma devono essere
confermate al momento della ratifica (tranne in caso di potere “obbligante” della
firma).
La riserva può essere ritirata in qualsiasi momento, senza che sia necessario il consenso
dello stato accettante.
La prassi riporta casi di “riserve tardive”: in questi casi le riserve per produrre effetti
devono essere accettate da tutti gli stati contraenti o incontrare la loro
acquiescenza. La riserva tardiva è da considerare più come un’offerta a
concludere un nuovo contratto piuttosto che una mera riserva.
Gli stati hanno un illimitato diritto di porre obiezioni; queste possono essere anche
presentate da un semplice firmatario, ma in questo caso l’obiezione produce i suoi
effetti nel momento in cui lo stato firmatario diventa parte del trattato.
L’accettazione di una riserva deve provenire da uno stato contraente per produrre i suoi
effetti; poiché l’accettazione può essere tacita la CV stabilisce che (art 20.5):
Ai fini dei paragrafi 2 e 4 e a meno che il trattato non disponga diversamente, si deve presumere
che una riserva sia stata accettata da uno Stato se quest'ultimo non ha formulato obiezioni alla riserva sia
alla scadenza del periodo di dodici mesi successivi alla data in cui ne ha ricevuto la notifica, sia alla data
in cui esso ha espresso il suo consenso a vincolarsi al trattato, se quest'ultima è posteriore.
5. L’interpretazione dei trattati
La CV detta precise regole sull’interpretazione dei trattati agli artt.31-33. tali regole
sono state più volte considerate dalla ICJ come conformi al diritto internazionale
consuetudinario.
Il criterio da seguire per interpretare un trattato è quello obiettivo: occorre procedere
all’interpretazione testuale, cioè attribuire ai termini impiegati il loro senso ordinario
(qualora i termini siano chiari è inammissibile sollevare immaginari problemi
interpretativi), tenendo conto del loro contesto (interpretazione sistematica) e alla luce
dell’oggetto e dello scopo del trattato. Pertanto la CV integra il metodo oggettivo
con quello teleologico. Per contesto si deve intendere non solo il testo del trattato ma
anche il suo preambolo (talvolta questo contiene importanti statuizioni). Anche gli
allegati fanno parte del contesto: del resto gli allegati costituiscono parte integrante
del trattato.
Ci sono anche altri due strumenti di interpretazione previsti dalla CV: ogni accordo in
rapporto con il trattato, purché adottato contemporaneamente alla conclusione del
trattato; ogni “strumento” posto in essere da una o più parti in occasione della
conclusione del trattato e accettato dalle altre parti come strumento in connessione
con il trattato (es: un dichiarazione interpretativa accettata dalle parti).
Ai fini dell’interpretazione del trattato bisogna anche tener conto degli altri criteri
illustrati nell’art 31.3: a) ogni accordo posteriore tra le parti in relazione all’applicazione
del trattato (accordi sull’interpretazione); b) della prassi successiva seguita all’applicazione
del trattato, che equivalga ad un accordo fra le parti in materia di applicazione del
trattato; c) occorre tener conto di qualsiasi regola pertinente di diritto internazionale
applicabile nei rapporti fra le parti. Vengono in considerazione il diritto consuetudinario e i
principi generali di diritti riconosciuti dalle nazioni civili: essi non sono necessariamente
quelli esistenti al momento
della stipulazione del trattato, in base al principio tempus regit actum; possono essere
considerate anche norme nate successivamente, facendo però attenzione ad evitare gli
eccessi cui talvolta si perviene con l’interpretazione evolutiva.
L’art 32 afferma che:
Si può fare ricorso ai mezzi complementari di interpretazione, e in particolare ai lavori preparatori e alle
circostanze nelle quali il trattato è stato concluso, allo scopo, sia di confermare il senso che risulta
dall'applicazione dell'art. 31, sia di determinare il senso quando l'interpretazione data in conformità
all'articolo 31:
a. lascia il senso ambiguo o oscuro; oppure
b. conduce ad un risultato che è manifestamente assurdo o irragionevole.
Da ricordare come appartenente alla definizione di “circostanze nelle quali il trattato è
stato concluso” ci sono il quadro storico e l’appartenenza ad un particolare gruppo di
stati (alleanza militare o raggruppamento economico).
I trattati multilaterali sono generalmente redatti in più lingue (NU: inglese, francese,
spagnolo, russo, cinese e arabo). La regola generale stabilita dall’art 33, è quella
secondo cui si presume che i termini del trattato abbiano lo stesso significato nei
diversi testi autentici. In caso di divergenza che non sia possibile eliminare con i
criteri dettati dagli artt 31 e 32, si adotterà il significato che, tenuto conto dell’oggetto
e dello scopo del trattato, permette di meglio conciliare le varie versioni linguistiche.
È da osservare che sempre più nei fori multilaterali la lingua di lavoro è l’inglese.
6. Trattati e terzi stati
Il trattato, come il contratto di diritto interno, non produce effetti nei confronti dei
terzi. Vale il principio pacta tertiis nec prosunt nec nocent. L’art 34 della CV afferma
in proposito: Un trattato non crea né obblighi né diritti per uno Stato terzo senza il suo
consenso.
Le eccezioni alla regole, più apparenti che reali, sono tre:
- le regole di un trattato possono trasformarsi in diritto consuetudinario: il terzo
è quindi vincolato dalla norma consuetudinaria che ha lo stesso contenuto di
quella pattizia (come previsto dall’art 38 CV).
- L’art 75 CV lascia impregiudicati gli obblighi che, in relazione al trattato,
possano scaturire per uno stato aggressore, purché si tratti di misure adottate
in conformità alla Carta delle NU; anche in questo caso l’imposizione
dell’obbligo al terzo non è una conseguenza del trattato ma della norma sul
divieto di aggressione.
- Vi possono essere dei trattati che creano un regime obiettivo o erga omnes
(es: i trattati che disciplinano le vie d’acqua internazionali); l’effetto sul terzo
deriva non dal trattato, ma dalla realità della situazione creata dal trattato.
La CV distingue tra trattati che mirano ad imporre un obbligo al terzo (art 35) e trattati
che intendono attribuire diritti al terzo (art 36)
Art 35: Un obbligo per uno Stato terzo sorge da una disposizione di un trattato se le parti a questo
trattato intendono creare l'obbligo per mezzo della suddetta disposizione e se lo Stato terzo accetta
espressamente per iscritto l'obbligo suddetto.
Art 36: 1. Un diritto per uno Stato terzo sorge da una disposizione di un trattato se le parti a questo
trattato intendono, per mezzo di tale disposizione, conferire tale diritto vuoi allo Stato terzo vuoi a un
gruppo di Stati
di cui esso faccia parte, vuoi a tutti gli Stati, e se lo Stato terzo vi consente. Il consenso è
presunto fin tanto che non vi sia un'indicazione contraria, a meno che il trattato non disponga altrimenti.
2. Uno Stato che esercita un diritto in applicazione del paragrafo 1 è tenuto a rispettare, per l'esercizio di
questo diritto, le condizioni previste nel trattato o stabilite in conformità alle sue disposizioni.
Tanto nel caso di un trattato a carico del terzo quanto per quello a suo favore, il terzo
non diventa parte del trattato; si può invece dire che si formi un distinto accordo tra
stati parti e terzo relativamente all’oggetto dell’obbligo o del diritto.
Secondo l’art 37 della CV, l’obbligo o il diritto può essere revocato o modificato solo
con il consenso delle parti del trattato e del terzo. Peraltro il consenso del terzo alla
revoca o modifica del diritto è necessario solo se è stabilito che il diritto non possa
essere revocato senza il consenso dello stato terzo beneficiario. In altri termini, la
revoca di un diritto è più facilitata rispetto alla revoca dell’obbligo.
7.L’invalidità dei trattati
La CV disciplina le cause di invalidità dei trattati agli artt 46-53.
I concetti di nullità e annullabilità sono legati ad un meccanismo procedurale non
riscontrabile in diritto internazionale, e perciò sono di difficile applicazione. Nel sistema
della CV conviene distinguere tra invalidità relativa e invalidità assoluta, secondo i seguenti
criteri: divisibilità, sanabilità, diritto di invocare la causa di invalidità.
Divisibilità del trattato significa che la causa di invalidità può operare nei confronti di
singole clausole affette dal vizio, senza per questo travolgere l’intero trattato. Essa è
ammessa (sempre che il trattato lo consenta ai sensi dell’art 44) per le cause di
invalidità di cui agli artt 46-50 (violazione di norme interne sulla competenza a stipulare
di importanza fondamentale, errore, dolo, corruzione); non è invece ammessa per le
cause di invalidità di cui agli artt 51-53 ( violenza nei confronti dell’individuo organo,
violenza nei confronti dello stato, contrarietà ad una norma imperativa). In questo
secondo caso l’invalidità travolge l’intero trattato.
La sanabilità, derivante dall’esecuzione del trattato nonostante la conoscenza del
vizio è ammissibile per le cause di cui agli artt 46-50, mentre in relaziona agli art 51-
53 non si perde mai il diritto di invocare l’invalidità del trattato.
Quanto al diritto di invocare l’invaliditià del trattato, questo spetta solo alla parte
vittima del vizio negli artt 46-50; spetta invece a ciascuna parte del trattato in relazione
agli artt 51- 53.
Pertanto, le cause di invalidità di cui agli artt. 46-50 sono cause di invalidità
relativa, mentre quelle di cui agli artt 51-53 sono cause di invalidità assoluta.
a) violazione delle norme interne sulla competenza a stipulare
d’importanza fondamentale (art 46 CV)
1. Il fatto che il consenso di uno Stato a vincolarsi a un trattato sia stato espresso in violazione di
una disposizione del suo diritto interno riguardante la competenza a concludere trattati non può essere
invocato dallo Stato in questione come viziante il suo consenso, a meno che questa violazione non sia
stata manifesta e non riguardi una norma del suo diritto interno di importanza fondamentale.
2. Una violazione è manifesta se essa è obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si
comporti in materia secondo la pratica abituale e in buona fede.
Una regola di “importanza fondamentale” è, nel nostro ordinamento, quella relativa
all’art.80 Cost, che richiede l’autorizzazione del Parlamento per la ratifica delle cinque
categorie di trattati ivi previste. Talvolta i trattati contengono una clausola che obbliga lo
stato ad esprimere il consenso nel rispetto delle proprie disposizioni costituzionali. In
tal caso se lo stato non vi si attiene non potrà più in seguito invocare la violazione
delle norme interne come causa di invalidità del trattato: infatti lo stato è tenuto al
rigoroso rispetto delle proprie procedure costituzionali.
Inoltre l’art 47 CV afferma che:
Se il potere di un rappresentante di esprimere il consenso di uno Stato a vincolarsi a un determinato
trattato ha formato oggetto di una specifica restrizione, il fatto che il rappresentante in questione non ne
abbia tenuto conto non può essere invocato come viziante il consenso che egli ha espresso, a meno che
la restrizione non sia stata notificata, prima che il consenso sia stato espresso, agli altri Stati che
hanno partecipato alla negoziazione.
b) Errore (art 48 CV)
1. Uno Stato può invocare un errore in un trattato come vizio del suo consenso a vincolarsi a quel
trattato se l'errore riguarda un fatto o una situazione che quello Stato supponeva esistente al momento in
cui il trattato è stato concluso e che costituiva una base essenziale del consenso di quello Stato a
vincolarsi al trattato.
2. Il paragrafo 1 non si applica quando lo Stato in questione ha contribuito a quell'errore con il suo
comportamento o quando le circostanze erano tali che esso doveva rendersi conto della
possibilità di un errore.
3. Un errore che riguardi soltanto la formulazione del testo di un trattato non incide sulla sua
validità; in questo caso, si applica l'articolo 79.
L’errore, per poter essere invocato quale causa di invalidità deve quindi avere tre
caratteristiche: a) essenziale: lo stato non avrebbe concluso il trattato se non fosse
incorso in errore; b) scusabile: l’errore non può essere invocato quando le circostanze
erano tali per cui uno stato avrebbe dovuto accorgersi della possibilità di un errore; c)
incolpevole: l’errore non è invocabile quando lo stato vi ha contribuito mediante il suo
comportamento.
c) Dolo (art 49 CV)
Se uno Stato è stato indotto a concludere un trattato dal comportamento fraudolento di un altro Stato che
ha partecipato al negoziato, può invocare il dolo come vizio del suo consenso a vincolarsi al trattato.
Il dolo ha luogo mediante un inganno che induce l’altra parte in errore; quindi è
necessario che esistano tutte le caratteristiche dell’errore (essenziale, scusabile,
incolpevole). Il raggiro deve avvenire ad opera di uno stato che ha partecipato alla
negoziazione.
d) Corruzione (art 50 CV)
Se l'espressione del consenso di uno Stato a vincolarsi a un trattato è stata ottenuta ricorrendo alla
corruzione del suo rappresentante attraverso l'azione diretta o indiretta di un altro Stato che ha partecipato
al negoziato, lo Stato può invocare tale corruzione come vizio del suo consenso a vincolarsi al
trattato.
e) Violenza nei confronti del rappresentante dello Stato (art 51 CV)
L'espressione del consenso di uno Stato a vincolarsi a un trattato che sia stata ottenuta attraverso la violenza
esercitata sul suo rappresentante per mezzo di atti o di minacce diretti contro di lui, è priva di
qualsiasi effetto giuridico.
Si può trattare di atti diretti contro il rappresentante, ma anche contro la sua
famiglia: viene cioè in considerazione la violenza nei confronti del soggetto in
quanto individuo e non in quanto individuo organo. La violenza può anche essere
opera di uno stato terzo, che non partecipa alla negoziazione. L’art 51 sanziona con
la nullità dell’accordo la violenza morale; quella fisica comporta l’inesistenza
dell’accordo. Anche per la violenza, come per il dolo e la corruzione, si tratta di vizio
realizzabile in un accordo in forma semplificata: difficilmente la violenza è
concepibile in un accordo soggetto a ratifica.
f) Violenza nei confronti dello stato nel suo insieme (art 52 CV)
E’ nullo ogni trattato la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o l'impiego della forza in
violazione dei principi di diritto internazionale incorporati nella Carta delle Nazioni Unite.
Affinché si realizzi questa fattispecie occorre che la forza minacciata o impiegata sia in
contrasto con la Carta: pertanto un trattato concluso a seguito di un’azione di legittima
difesa non può essere considerato invalido. Anche un ultimatum, in quanto chiaro
esempio di minaccia, può portare all’invalidità del trattato. Il termine forza deve essere
inteso come coercizione militare, e non si estende alla coercizione politica ed economica
(come previsto dall’art 2.4 della Carta delle NU, dove il termine forza è da intendere
come forza armata). Al termine della CV fu adottata una risoluzione in cui si condanna
l’uso della violenza militare, politica o economica nella conclusione dei trattati. Ma la
risoluzione non è parte integrante della CV e, inoltre, non afferma che il trattato
concluso a seguito di tali forme di coercizione è invalido.
L’art 52 solleva il problema della validità dei trattati di pace. Normalmente si ritiene
che essi siano validi: ma se un trattato di pace è stato concluso a seguito di un uso
illegittimo della forza (es: aggressione) probabilmente il trattato è invalido. Al contrario
sarebbe valido un trattato di pace imposto all’aggressore da una coalizione vittoriosa.
Anche la coercizione proveniente da attori non statali (come i movimenti terroristici)
potrebbe comportare l’invalidità del trattato.
g) La contrarietà del trattato ad una norma imperativa del diritto internazionale,
ius cogens (art 53 CV)
E’ nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, è in conflitto con una norma imperativa
del diritto internazionale generale…(segue la definizione di ius cogens).
8.L’estinzione dei trattati
Gli art. 54-64 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati disciplinano le cause di
estinzione. Talune di queste sono considerate anche come cause di sospensione.
Le cause di estinzione, oltre a quelle interne al trattato (esecuzione, termine, condizione
risolutiva), sono le seguenti: denuncia o recesso, abrogazione espressa o implicita, violazione
sostanziale ad opera di una delle parti, impossibilità sopravvenuta, mutamento fondamentale delle
circostanze, sopravvenienza di un norma di ius cogens. La CV lascia volutamente da
parte la questione degli effetti della guerra sui trattati (art 73), che resta affidata al
diritto consuetudinario. Sulle cause di estinzione dei trattati e sulla conformità della
CV alla consuetudine, molte indicazioni possono essere tratte dalla ICJ nel caso del
“progetto di diga sul Danubio” de 25-11-1997.
a) Denuncia o recesso
La denuncia o recesso può aver luogo sia in un trattato multilaterale che in uno
bilaterale. Ovviamente il recesso di uno o più stati in un trattato multilaterale non
estingue il trattato tra le altre parti contraenti. Se il trattato contiene una clausola di
denuncia o recesso lo stato dovrà seguire la procedura stabilita dalla clausola. Ai
sensi dell’art 56.2 CV, qualora manchino disposizioni esplicite in merito a denuncia e
recesso nel testo del trattato, lo stato deve notificare alle altre parti la sua volontà di
recedere almeno dodici mesi prima. Inoltre l’art 56.1 CV prevede, per i trattati stipulati
a tempo indeterminato che non contengono alcuna clausola di denuncia o recesso, che
queste due azioni sono ammissibili solo quando esse possano essere dedotte dalla
natura del trattato, oppure quando risulti dall’intenzione delle parti ammettere la
possibilità di denuncia o recesso.
La Carta delle NU non contiene alcuna disposizione sulla facoltà di recesso, ma dai
lavori preparatori si desume che “circostanze eccezionali” possono indurre uno stato
membro e recedere dall’organizzazione.
b) Violazione sostanziale ad opera di una delle parti
L’art 60 CV configura come causa di estinzione (e di sospensione) del trattato la
violazione di esso, secondo il principio inadimplenti non est inadenplendum. Deve
però trattarsi di una violazione sostanziale del trattato ad opera di uno stato parte nei
confronti di un altro.
Come affermato all’art 60.3: Ai fini del presente articolo, per violazione sostanziale di un
trattato si intende:
a. un ripudio del trattato non autorizzato della presente Convenzione; oppure
b. la violazione di una disposizione essenziale per la realizzazione dell'oggetto o dello scopo del trattato.
Il semplice inadempimento non legittima quindi l’altra parte a chiedere l’estinzione
del trattato. La causa di estinzione può essere di difficile applicazione quando si
tratti di trattati multilaterali: a tal proposito la CV distingue i due casi (art 60.1
bilaterali; 60.2 multilaterali). Il principio inadimplenti non est inadenplendum non si
applica alle
disposizioni relative alla persona umana nei trattati di “natura umanitari”, intendendo con
essi sia il diritto umanitario sia le codificazioni dei diritti dell’uomo (art 60.5).
Il principio in esame non si applica, infine, qualora il trattato ne escluda espressamente
l’applicazione.
c) impossibilità sopravvenuta (art 61 CV)
1. Una parte può invocare l'impossibilità di esecuzione come motivo di estinzione o di recesso se questa
impossibilità risulta dalla scomparsa o dalla distruzione definitiva di un oggetto indispensabile
alla esecuzione del trattato. Se l'impossibilità è temporanea, può essere invocata soltanto come motivo
per sospendere l'applicazione del trattato.
2. L'impossibilità di esecuzione non può essere invocata da una parte come motivo di estinzione o di recesso
o di sospensione dell'applicazione se tale impossibilità deriva dalla violazione, perpetrata dalla parte che
l'invoca, sia di un obbligo del trattato, sia di qualsiasi altro obbligo internazionale a danno di una qualsiasi
altra parte del trattato.
Si tratta di un’applicazione del principio generale ad impossibilia nemo tenetur (es: lo
stato costiero che perde il suo litorale non può più onorare il trattato di navigazione
nelle sue acque). La ICJ ha inoltre affermato che le difficoltà finanziarie non rientrano
generalmente tra le cause di impossibilità di esecuzione.
d) Il mutamento fondamentale delle circostanze (art 62 CV)
Il mutamento fondamentale delle circostanze esistenti al momento della conclusione
del trattato (c.d regola rebus sic stantibus) può essere evocato sia come causa di
estinzione sia di sospensione del trattato, purché: a) si tratti di un cambiamento
fondamentale rispetto alle circostanze esistenti al momento della conclusione del
trattato; b) il cambiamento non fosse stato previsto. Ci sono inoltre, ai sensi dell’art 62,
altre due condizioni: a) le circostanze debbono aver costituito una base essenziale per
la stipulazione del trattato; b) il cambiamento trasforma radicalmente la portata degli
obblighi che debbono ancora essere seguiti.
Il mutamento delle circostanze non può essere invocato come causa di estinzione o
sospensione (art 62.3) quando: il cambiamento è dovuto ad una violazione del diritto
internazionale imputabile alla parte invocante l’estinzione; e quando viene in
considerazione un trattato che fissa un confine.
La giurisprudenza internazionale, pur riconoscendo la vigenza della regola
secondo il diritto consuetudinario, è restia ad ammetterne l’operatività nel caso
concreto per non pregiudicare il principio della stabilità dei trattati internazionali.
e) Rottura delle relazioni diplomatiche e consolari (art 63)
Solo quando la sussistenza delle relazioni sono essenziali per l’esecuzione degli obblighi
del trattato.
f) La sopravvenienza di una norma imperativa del diritto internazionale (art 64 CV)
In caso di sopravvenienza di una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale,
qualsiasi trattato esistente che sia in conflitto con tale norma è nullo e si estingue.
Lo ius cogens può venire in considerazione sia come causa di invalidità sia come
causa di estinzione di un trattato. La fattispecie qui in questione è quella di un
trattato valido nel momento in cui è stato concluso, che viene però
successivamente a trovarsi in contrasto con una norma imperativa.
g) La guerra
La guerra può essere una causa di estinzione dei trattati oppure condizione della loro
piena operatività. La questione non viene volutamente disciplinata dalla CV (art 73).
Bisogna perciò far riferimento al diritto consuetudinario e alla prassi, che sembra
distinguere tre categorie di trattati
Ve ne sono alcuni che trovano nella guerra (o nel conflitto armato) la ragione della loro
esistenza e operatività (es: le Convenzioni dell’Aja del 1907 sulla disciplina dei conflitti
armati). Altre volte, la guerra determina una situazione di radicale incompatibilità con la
situazione preesistente, per cui il trattato si estingue (es: un’alleanza tra due stati che
viene rotta con la dichiarazione di guerra fra i due)
Infine, ad un terzo tipo di trattati, la guerra produce un effetto sospensivo (es: trattati di
commercio). Qualora il trattato sia multilaterale, l’effetto sospensivo opera solo inter
partes, cioè nei rapporti tra gli stati belligeranti. Dopo la fine delle ostilità è invalsa la
prassi di “rimettere in vigore” i trattati sospesi pendente bello. La procedura per la
rimessione in vigore è in genere contenuta nei trattati di pace.
La guerra non dovrebbe causare un effetto sospensivo o estintivo in relazione ai
trattati internazionali in materia di diritti dell’uomo. Di regola tali trattati
contengono una clausola che abilita lo stato ad invocare la guerra come motivo
per sospendere l’applicazione delle disposizioni a tutela dei diritti umani (art 4
del Patto sui diritti civili e politici). Vi sono tuttavia disposizioni che non possono
essere derogate, quali ad esempio il divieto di trattamenti inumani e degradanti.
9. L’emendamento e la revisione dei trattati
Sotto il profilo formale, emendamento e revisione sono termini equivalenti e stanno ad
indicare una modifica del trattato. Sotto il profilo materiale l’emendamento sta ad
indicare una modifica minore di singole clausole, mentre la revisione comporta un
modifica più incisiva del trattato nel suo complesso.
La regola fondamentale è quella stabilita dall’art 39 CV, secondo cui un trattato può
essere modificato per accordo fra le parti. Quindi un accordo posteriore può modificare
l’accordo precedente, a patto che tutti gli stati parti dell’accordo precedente siano parti
dell’accordo posteriore.
La CV detta poi alcune regole per la modifica dei trattati multilaterali (tali regole sono
derogabili). Si possono avere i seguenti rapporti contrattuali:
- tutte le parti del trattato anteriore sono parti del trattato posteriore: in tal
caso le parti sono vincolate dal trattato posteriore.
- Solo alcune parti del trattato anteriore divengono parti del posteriore: in
questo caso il trattato emendato si applica tra gli stati che lo hanno ratificato;
nei rapporti tra stati parti non ratificanti e stati parti ratificanti continua a
vigere il trattato anteriore non emendato.
La CV ammette all’art 41 che due o più parti di un trattato multilaterale possano
concludere tra loro un accordo derogatorio. Tuttavia tale accordo derogatorio non può
comportare una violazione del trattato multilaterale, ne pregiudicare i diritti degli stati
parti, oggetti del trattato, pena la sua illiceità. Va notato che l’accordo derogatorio è
valido, ma le parti nell’eseguirlo commettono un illecito internazionale nei confronti degli
stati parti dell’accordo multilaterale.
Il trattato può prevedere una procedura ad hoc per quanto riguarda il suo emendamento
o revisione. Ad es l’art 109 della Carta delle NU dispone che, per procedere alla
revisione
della Carta, occorra una conferenza generale dei membri delle NU, da convocare con
il voto di due terzi dei membri e di nove membri qualsiasi del Cds. Sostanzialmente
analoga è la procedura prevista all’art 108 per i semplici emendamenti, che vengono
negoziati e adottati direttamente in seno all’AG. L’art 48 TUE dispone che uno stato
membro o la Commissione possano sottoporre al Consiglio progetti intesi a
modificare il trattato istitutivo.
La conferenza di revisione di un trattato multilaterale non deve essere confusa con la
conferenza di riesame tipica dei trattati di disarmo. Essa può aver luogo a intervalli
regolari oppure convocata su iniziativa di una parte del trattato; in questa conferenza
le parti fanno un bilancio dei risultati acquisiti con l’esecuzione del trattata: si tratta
quindi di un consesso chiaramente politico. Tuttavia può capitare la combinazione tra
una conferenza di riesame e una conferenza dove si prendono decisioni che incidono
sulla struttura del trattato.
Il principio secondo cui un trattato può essere modificato solo con il consenso di tutte
le parti è troppo rigido. Per questo taluni trattati prevedono una procedura di
emendamento erga omnes. La decisione di emendare il trattato viene presa solo da
un gruppo di stati parti, però tutte le parti sono automaticamente vincolate alla
decisione presa e pertanto trova applicazione il trattato emendato. La Carta delle NU
prevede che l’emendamento entri in vigore per tutti dopo essere adottato a
maggioranza dei due terzi dei membri dell’AG ed essere stato successivamente
ratificato dai due terzi dei membri delle NU, inclusi i membri permanenti del Cds. Al
contrario, i trattati modificativi del TUE devono essere ratificati da tutti membri.
Da notare che un trattato può essere emendato dalla prassi successiva, qualora
questa porti alla conclusione di un accordo tacito, modificativo delle disposizioni del
trattato. (es: art 27 della Carta delle NU, riguardo la possibilità di adottare delibere di
fondo anche con l’astensione di un membro permanente).
10. La soluzione delle controversie in materia di invalidità ed estinzione
dei trattati
La procedura in materia di invalidità ed estinzione dei trattati predisposta dalla CV,
non essendo dichiarativa della consuetudine, si applica solo ai trattati conclusi dopo
l’entrata in vigore della stessa, e solo per gli stati che l’abbiano ratificato o vi
abbiano aderito. Per l’Italia il riferimento è ai trattati conclusi dopo il 27 gennaio
1980.
La procedura è disciplinata agli artt 65,66 CV.
Una parte non può unilateralmente sciogliersi dal vincolo contrattuale, ma prima di
adottare la dichiarazione di invalidità o d’estinzione (o recesso), deve notificare la
propria intenzione, illustrandone contenuto e motivi, all’altra parte. Questa ha tre mesi
di tempo (salvo motivi di particolare urgenza) per obiettare: se resta inattiva, c’è
acquiescenza e la parte che ha iniziato il procedimento può adottare la declaratoria
d’invalidità o d’estinzione. In caso contrario nasce una controversia che dovrà essere
risolta secondo i metodi indicati all’art 33 NU (..negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione,
arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi
pacifici di loro scelta.)
Può darsi che le parti non siano d’accordo sul metodo da scegliere: se entro un anno,
dal momento un cui l’obiezione alla pretesa di invalidità è stata sollevata, la
controversia non è ancora risolta, l’art 66 CV prevede due procedure. Per quanto
riguarda le controversie che hanno a oggetto l’invalidità o l’estinzione di un trattato
per contrarietà allo ius cogens, è previsto che ciascuna parte possa adire la ICJ
mediante ricorso unilaterale, tranne che le parti preferiscano di comune accordo
ricorrere all’arbitrato. Per tutte le altre cause di invalidità ed estinzione, è previsto il
ricorso alla conciliazione obbligatoria, nel senso che ciascuna parte può mettere in
moto unilateralmente il procedimento di conciliazione. Il risultato della conciliazione
non è però vincolante, ma ha soltanto il valore di raccomandazione alle parti in
causa. La parte che ha invocato la causa di invalidità o di estinzione, anche se
soccombente nel giudizio di conciliazione, può quindi adottare la declaratoria
d’invalidità o di estinzione, avendo seguito in buona fede la procedura prescritta dalla
CV e non applicare più il trattato internazionale. La controversia quindi non si
estingue ma perdura nel tempo. Si noti che gli atti contenenti la declaratoria
d’invalidità o estinzione devono essere redatti in forma scritta e firmati dagli organi
che rappresentano lo stato nelle relazioni internazionali (Capo di stato, capo di
governo, ministro degli esteri), altrimenti la firma può essere apposta solo da chi ha i
pieni poteri (art 67.2 CV).
11. La Costituzione italiana e i trattati internazionali
Gli articoli che nella nostra Costituzione riguardano la stipulazione dei trattati
internazionali sono: 11, 80, 87.8, 72.4, 75.2. A questi va aggiunto l’art 117 ultimo
comma, secondo la modifica operata dalla [Link] n.3/2001.
L’art 11 non ha per oggetto espressamente la stipulazione dei trattati internazionali,
ma pone dei limiti al loro contenuto e allo stesso tempo riguarda la legge di
autorizzazione alla ratifica di taluni trattati. In primis l’art 11 impone un divieto avente
per oggetto il contenuto del trattato: è proibito stipulare trattati in contrasto con la
disposizione costituzionale, che impone il “ripudio” della guerra come strumento di
offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali.
L’art 11 è stato anche interpretato come “norma permissiva” nel senso che consente
di autorizzare con legge ordinaria la ratifica di un trattato comportante limitazioni di
sovranità necessarie per assicurare pace e giustizia fra le nazioni, in condizioni di
parità con gli altri stati. L’art 11 consentirebbe inoltre di ratificare con legge ordinaria i
trattati istitutivi di organizzazioni internazionali (ONU, UE)
Nel nostro ordinamento costituzionale, la competenza a ratificare i trattati internazionali
spetta al Presidente della Repubblica (fermo restando che la decisione politica di
procedere o meno alla ratifica spetta al governo). L’art 87.8 Cost recita infatti che egli
“ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere”. Secondo l’art 80
Cost la legge di autorizzazione è richiesta per le seguenti cinque categorie: trattati di
natura politica; trattati che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari; trattati che
importano variazioni del territorio dello Stato; trattati che importano oneri alle finanze;
trattati che importano modificazioni di leggi.
Per quanto riguarda i trattati aventi natura politica, poiché ogni accordo internazionale
ha un qualche rilievo politico anche minimo, l’espressione in questione si riferisce ai
trattati che hanno un “grande rilievo politico” comportando scelte fondamentali di
politica estera. Quanto ai trattati che importano oneri alle finanze dello stato, bisogna
intendere quegli oneri aggiuntivi rispetto a quelli che trovano copertura nei bilanci
statali.
Occorre ricordare che l’art 72.4 Cost esclude che si possa ricorrere
all’approvazione in Commissione per l’esame dei disegni di legge di
autorizzazione alla ratifica: la disposizione costituzionale impone la procedura
normale.
Nel nostro ordinamento si possono avere le seguenti forme di stipulazione dei trattati
internazionali:
- trattati per cui è richiesta la ratifica del Presidente della Repubblica: sono
trattati stipulati in forma solenne, come richiesto dalle clausole finali, ma che
non rientrano nelle categorie di cui all’art 80 Cost.
- trattati ricompresi nella categoria di cui all’art 80 Cost, per cui è necessaria
una legge di autorizzazione alla ratifica e la ratifica del Pdr.
- Accordi in forma semplificata che entrano in vigore con la sola sottoscrizione
da parte degli organi dell’esecutivo
Non possono essere stipulati accordi in forma semplificata in merito alle materie di cui
all’art 80 Cost. La loro stipulazione in forma semplificata è costituzionalmente
illegittima. La legittimità degli accordi in forma semplificata (anche se non citati nella
Costituzione) non viene posta in dubbio, sia perché esiste una prassi piuttosto
consistente sia perché la
L. 11 dicembre 1984, n.839 sulla pubblicazione dei trattati, menzionando
esplicitamente gli accordi in forma semplificata, ne ammette implicitamente la
legittimità. La suddetta legge, inoltre, all’art 4 impone di trasmettere trimestralmente,
per la pubblicazione in apposito supplemento della GU, i trattati vincolanti l’Italia.
Poiché il testo deve essere pubblicato emerge la questione della liceità della
stipulazione di trattati segreti. Se si segue la tesi secondo cui l’ordinamento
internazionale impedisce di stipulare trattati segreti o a quella alla quale esiste un limite
implicito nella nostra costituzione di portata proibitiva, essi non dovrebbero essere
consentiti. Tuttavia un altro punto di vista indica come la L. 11 dicembre 1984, n.839
debba essere coordinata con quella sul segreto di stato: qualora ne esistano i
presupposti, il Governo potrebbe segretare l’atto. Naturalmente il trattato segreto
sarebbe costituzionalmente ammissibile solo per gli accordi in forma semplificata, che
non abbiano ad oggetto le materie di cui all’art 80 Cost. Collegato a questo tema vi è il
problema della provvisoria esecuzione del trattato,: ragioni di urgenza potrebbero
imporre l’esecuzione del trattato prima che esso sia stato ratificato. Il punto è
affrontato dalla CV, il cui art 25 stabilisce che un trattato possa essere applicato
provvisoriamente quando questo sia stato stabilito dai negoziatori. Il problema si pone,
per il nostro ordinamento, in merito agli accordi disciplinati dall’art 80 Cost o a quelli
per cui è richiesta la ratifica del Pdr, altrimenti è possibile far ricorso alla procedura
semplificata. Nonostante alcuni tentativi del Governo di disciplinare la materia, il
Parlamento si è sempre dichiarato contrario all’applicazione provvisoria degli accordi
internazionali, tranne espressa autorizzazione caso per caso.
Altro problema è determinare chi sia competente a formulare le riserve secondo
l’ordinamento italiano. Nel silenzio della costituzione, la soluzione deve essere
ricavata dai principi generali. Competente ad apporre riserve è l’organo legittimato,
secondo il nostro ordinamento, ad esprimere la volontà internazionale dello stato:
spetterà quindi al governo formulare una riserva, che sarà poi formalmente apposta
dal Capo dello Stato al momento del deposito della ratifica. Il governo è quindi libero
di formulare riserve, anche se dal punto di vista politico è comunque opportuno che il
Parlamento sia informato della presa di posizione governativa. Le stesse
considerazioni valgono per la denuncia dei trattati (anche di quelli di cui all’art 80 Cost)
e mutatis mutandis per la decisione di invocare l’invalidità di un trattato.
L’art 75.2 Cost esclude espressamente che la legge di autorizzazione alla ratifica di un
trattato internazionale possa essere sottoposta a referendum abrogativo. Una volta
ratificato il trattato internazionale entra in vigore sul piano internazionale e il referendum
abrogativo finirebbe per abrogare non la legge di autorizzazione, che ha già avuto
attuazione, ma l’ordine di esecuzione del trattato, con la conseguenza che la mancata
esecuzione del trattato nell’ordinamento interno renderebbe lo stato responsabile sul
piano internazionale.
Taluni ordinamenti stranieri (Francia, Paesi Bassi..) ammettono il referendum di
tipo preventivo, prima che intervenga la ratifica.
L’art 117 ult. Comma, Cost attribuisce alle regioni il potere di concludere accordi con
stati esteri. La L. 5 giugno 2003, n 131, di adeguamento alle disposizioni
costituzionali, ha dettato una procedura per la stipulazione di accordi: essi non solo
devono rientrare nella competenza legislativa delle regioni (e Province Autonome di
Trento e Bolzano), ma hanno anche un contenuto limitato, dovendo consistere in
“accordi esecutivi ed applicativi di accordi internazionali” stipulati dallo stato italiano
ed entrati in vigore, o “accordi di natura tecnico-amministrativa”. Le regioni devono
inoltre rispettare i vincoli derivanti dalla Costituzione, dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali e dalle linee e dagli indirizzi di politica estera italiana.
L’accordo non può quindi essere invasivo dell’art 80 Cost. gli accordi sono sottoscritti
dalla Regione o dalla Provincia Autonoma, previo conferimento dei pieni poteri da
parte del ministero degli esteri, che valuta l’opportunità e la legittimità dell’accordo. La
perfezione dell’accordo avviene mediante la firma, poiché la ratifica è una prerogativa
del capo dello stato. L’accordo è nullo qualora sia stipulato senza che siano conferiti i
pieni poteri. Il governo può sempre intervenire durante l’iter della trattativa; l’ultima
parola spetta al Consiglio dei Ministri.
Regioni e Province Autonome possono anche stipulare intese con enti territoriali
interni ad uno stato estero, ma tali intese non hanno natura di accordo internazionale.
Peraltro anche la conclusione di intese è sottoposta a controllo.
Capitolo 10. L’adattamento del diritto interno al diritto internazionale
1.I rapporti tra ordinamenti giuridici e la teoria del rinvio
Ordinamento interno e ordinamento internazionale sono ordinamenti giuridici separati
e originari (teoria dualista); essi non fanno parte di un unico ordinamento giuridico
come pretende la teoria monista. Tuttavia pur essendo separati, i due ordinamenti non
sono delle monadi. Tra i meccanismi che li connettono si ha innanzitutto il
meccanismo del rinvio.
Con il rinvio formale, un ordinamento rinvia alle norme di un altro ordinamento nella
loro qualità formale di norme giuridiche; pertanto nell’ordinamento richiamante la
norma segue la vita che essa ha nell’ordinamento richiamato (se si estingue nel
richiamato si estingue anche nell’altro). Il rinvio formale può essere ricettizio o non
ricettizio: se è ricettizio la norma dell’ordinamento richiamato viene immessa nel
richiamante; se è non ricettizio la norma richiamata costituisce solo il presupposto per
l’applicazione di norme dell’ordinamento richiamante.
Con il rinvio materiale, l’ordinamento richiamante rinvia alle norme dell’ordinamento
giuridico richiamato solo nel loro contenuto materiale. Spesso si fa rinvio alla norma di
un altro paese, ma se il rinvio è materiale il cambiamento di legislazione
nell’ordinamento richiamato non ha alcun effetto nell’ordinamento richiamante.
2. L’adattamento al diritto internazionale consuetudinario e allo ius
cogens L’art 10.1 Cost afferma che: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme
di diritto internazionale generalmente riconosciute”. La disposizione costituzionale opera un
rinvio
formale all’ordinamento internazionale, con la conseguenza che ogni variazione
normativa
che si produce in quell’ordinamento si riproduce anche nel nostro.
In merito alla possibilità di adattamento anche qualora i principi internazionali
contrastassero con la Costituzione, la Corte Costituzionale ha distinto, nella sent 48/1979,
tra norme consuetudinarie entrate in vigore prima dell’adozione della costituzione, che
sarebbero recepite senza alcun limite, e norme consuetudinarie posteriori, che non
potrebbero essere recepite qualora contrastassero con i principi fondamentali della
Cost. secondo la Corte infatti, l’adeguamento disposto dall’art 10.1 non può in alcun
modo contrastare con i principi fondamentali della Costituzione. Una norma
consuetudinaria in contrasto con tali principi non sarebbe recepita nel nostro
ordinamento e quindi non dovrebbe essere applicata dal giudice.
Quanto invece al contrasto di norme costituzionali non incorporanti principi
fondamentali con norme consuetudinarie, è generalmente ammesso che la consuetudine
possa derogare la norma costituzionale; si tratterebbe di un contrasto più apparente
che reale, in quanto la norma consuetudinaria dovrebbe prevalere su quella
costituzionale a titolo di lex specialis.
La dizione dell’art 10.1 solleva due problemi. In primo luogo occorre determinare se
l’adeguamento sia operante nei confronti di una norma consuetudinaria oggetto di
“obiezione persistente” da parte dell’Italia. Se si parte dalla premessa per cui la
norma consuetudinaria vincola anche l’obiettore permanente, si deve coerentemente
ammettere che l’adeguamento sia operante anche se l’Italia sia, nel caso concreto,
un obiettore permanente. In secondo luogo va affermato che una consuetudine
regionale può essere
immessa nel nostro ordinamento tramite l’art 10.1, a patto però che la consuetudine
regionale vincoli l’Italia.
La dottrina prevalente assegna alle norme di diritto internazionale generalmente
riconosciute, immesse nell’ordinamento italiano tramite l’art 10.1, il rango di norme
costituzionali (sent CC 48/1979). Ne segue che una norma di legge ordinaria in
contrasto con una consuetudine internazionale può essere oggetto di giudizio di
costituzionalità e caducata dalla Corte.
L’art 10.1 è una disposizione sufficientemente flessibile da prevedere anche l’adattamento
del diritto interno al diritto internazionale cogente. Le norme imperative infatti
appartengono alle “norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”, tanto
più che nelle due Convenzioni di Vienna (1969 e 1986) la norma imperativa è sempre
qualificata come norma del diritto internazionale generale.
Per determinare il rango delle norme imperative bisogna prendere le mosse dalla
sent 1146/1988 che in pratica ha stabilito una gerarchia tra taluni principi supremi e
le norme costituzionali. I principi in questione avrebbero una “valenza superiore” alle
altre norme di rango costituzionale e non sarebbero modificabili, nel loro contenuto
essenziale, neppure da norme costituzionali. Sarebbe peraltro ammissibile
sottoporre al controllo di costituzionalità una legge costituzionale in contrasto con
questi principi. È da ritenere che lo ius cogens rientri in questa categoria di principi
supremi della costituzione, con una particolarità: mentre i principi supremi non
possono essere modificati, i principi supremi prodotti da una norma imperativa
sarebbero modificabili solo da una norma imperativa posteriore (secondo i
meccanismi del rinvio formale).
I principi supremi di origine internazionalistica rappresenterebbero una modifica alla
Costituzione operata senza ricorrere al procedimento di revisione costituzionale;
tuttavia una volta immessi essi non sarebbero più modificabili da alcuna legge di
revisione costituzionale. A supporto di ciò va detto che le norme imperative hanno un
rango superiore a quello di tutte la altre norme internazionali, così che non risulta
inconcepibile che esse occupino la stessa posizione nell’ordinamento italiano. Inoltre
l’equiparazione dello ius cogens ai principi supremi della Cost impedisce che tramite
un procedimento di revisione costituzionale si possa violare una norma imperativa,
esponendo lo stato italiano a illeciti particolarmente gravi e provocando una rottura
con la vocazione internazionalista dell’ordinamento (art 10.1, che si colloca tra i
principi supremi immodificabili).
3. L’adattamento al diritto internazionale pattizio
Il trattato una volta ratificato ed entrato in vigore obbliga lo stato nell’ordinamento
internazionale. Per produrre effetti nel nostro ordinamento deve essere recepito
nell’ordinamento interno: ciò vale sia per i trattati in forma solenne che per gli accordi in
forma semplificata. Non esiste alcuna disposizione costituzionale che disciplini
l’adattamento del diritto italiano al diritto internazionale (l’art 10.1 si riferisce solo
alla consuetudine).
Un trattato di cui non sia stato disposto l’adattamento non produce effetti nel nostro
ordinamento giuridico. Nella prassi italiana esistono due modi per disporre
l’adattamento.
Mediante il procedimento speciale si dà “piena ed intera esecuzione” al trattato
nell’ordinamento interno tramite un atto normativo ad hoc. L’interprete nel formulare la
norma interna di esecuzione deve fare riferimento alla/e lingua/e in cui il trattato è stato
redatto. L’ordine di esecuzione dispone un rinvio formale dell’ordinamento interno
all’ordinamento internazionale.
Il secondo metodo di adattamento è il procedimento ordinario. In tal caso si
riformulano le norme del trattato; questo costituisce solo l’occasio legis e il rinvio
disposto dall’ordinamento interno è un rinvio materiale; con la conseguenza che non si
ha una perfetta e continua aderenza tra ordinamento interno e internazionale: qualora
il trattato si estingua nell’ordinamento internazionale , le norme interne sopravvivono
ed è necessario un atto abrogativo per eliminarle.
Nel nostro ordinamento si preferisce, per motivi di celerità, far ricorso all’ordine di
esecuzione, ma tale strumento è inoperante nei confronti delle norme del trattato
non self- executing, cioè di quelle norme non complete nel loro contenuto (es: un
norma stabilisce che un tal fatto costituisce un reato ma non la pena per esso).
Per ovviare a questa difficoltà e non perdere i benefici dell’ordine di esecuzione, si è
andata affermando la prassi di adottare un procedimento misto: ordine di esecuzione,
accompagnato dalla riformulazione nell’ordinamento italiano di quelle norme non self-
executing. (es: Convenzione sul disarmo chimico, 1993; trattato di amicizia, partenariato e
cooperazione tra Italia e Libia, 2008). Talvolta la scelta del modo di adattamento è
obbligata, poiché il trattato impone agli stati di adottare determinate misure per la sua
esecuzione.
L’ordine di esecuzione può essere contenuto in una legge o in un atto regolamentare
da adottare con decreto. La scelta dipende dalla potenzialità di produzione giuridica
dei vari atti e si opera individuando l’atto normativo che sarebbe necessario qualora si
dovesse procedere all’adattamento per via ordinaria. Tuttavia occorre ricordare che
l’art 11 Cost contiene, secondo l’interpretazione prospettata dalla Corte in relazione ai
trattati comunitari, una norma permissiva, nel senso che consente di disporre
l’adattamento con legge ordinaria ai trattati contemplati nella disposizione, anche se
questi incidano su materie disciplinate da norme costituzionali. (si pensi ai trattati che
consentono limitazioni di sovranità..)
Le norme internazionali introdotte tramite ordine di esecuzione sono soggette al
sindacato di costituzionalità. Per quanto concerne l’emendabilità occorre distinguere
tra legge di autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione. Il disegno di legge di
autorizzazione alla ratifica è inemendabile, nel suo contenuto sostanziale; qualora sia
formulato un emendamento significa che le Camere vogliono un trattato diverso da
quello negoziato; pertanto l’esecutivo deve negoziare un nuovo testo tranne che il
problema possa essere risolto con l’apposizione di una riserva (in caso di trattato
multilaterale). Al contrario l’ordine di esecuzione è contenuto in un atto che è legge in
senso formale e materiale e quindi il relativo disegno di legge è emendabile, sempre
che l’emendamento non produca una sfasatura dell’entrata in vigore del trattato sul
piano internazionale e sul piano interno o non abbia lo scopo di modificare il
contenuto del trattato.
Da notare che nel procedimento mediante ordine di esecuzione si finisce quasi sempre
per derogare il normale termine di vacatio legis di 15 giorni dalla pubblicazione dell’atto
in GU. Le norma interne di esecuzione entreranno in vigore a partire dal momento di
entrata in vigore del trattato per l’Italia. Qualora l’adattamento abbia luogo con un
procedimento misto anche la vacatio legis può essere mista.
Va detto, che nei paesi di common law si segue di regola una procedura diversa,
consistente nell’adottare prima la legge di esecuzione per poi procedere alla
ratifica del trattato.
4. Rango delle norme di adattamento al diritto pattizio
Le norme interne ammesse mediante l’ordine di esecuzione hanno nell’ordinamento
nazionale il valore conferito loro dalla forza dell’atto che ne da esecuzione. Si
tratterebbe di norme derivanti da una fonte riconducibile ad una competenza atipica,
come tale non suscettibile di abrogazione o modificazione da parte di una legge
ordinaria successiva.
Qualora il legislatore volesse abrogare le norme interne di esecuzione dovrebbe farlo
espressamente. In caso di contrasto tra ordine di esecuzione legge ordinaria, la questone
dovrebbe essere risolta in via interpretativa, dando prevalenza al primo seconcondo il
principio di specialità.
La materia è stata recentemente disciplinata dall’art 117.1 Cost, come modificato dalla
[Link]. 18 ottobre 2001, n.3 secondo cui: “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali”. Tal articolo non contiene disposizioni sull’adattamento, ma ha
un’incidenza sul rango delle norma immesse nel nostro ordinamento, o, meglio, sulla loro
resistenza passiva rispetto a norme posteriori. La disposizione stabilisce un limite alla
potestà legislativa dello stato e la superiorità del trattato sulla legge ordinaria, con la
conseguenza che una legge contraria può essere annullata dalla Corte costituzionale.
La Corte ha affermato che il giudice, qualora sia ravvisabile un contrasto, non può
disapplicare direttamente la norma interna in contrasto con la norma convenzionale,
ma deve rinviare la questione alla Corte, allo scopo di controllare se la normativa
interna sia conforme alla norma convenzionale. A parere della Corte il giudice deve
interpretare la norma interna in conformità con la disposizione internazionale, ma ove
l’interpretazione non riesca a superare l’antinomia egli dovrà investire la Corte della
questione di legittimità costituzionale, che provvederà ad annullare la norma interna in
contrasto con quella di origine internazionale.
Va ricordato che le norme del trattato immesse nel nostro ordinamento interno tramite
legge ordinaria, a differenza delle norme consuetudinarie immesse tramite l’art 10.1
Cost, non possono derogare la costituzione, visto che l’art 117.1 Cost non conferisce
loro il rango di norma costituzionale. Tuttavia secondo alcuni l’art 117 imporrebbe al
legislatore di operare l’adattamento, visto che senza di esso il trattato non produce
effetti nell’ordinamento interno.
Da notare che l’art 117.1 Cost dispone la superiorità delle norme di qualsiasi trattato
internazionale e non solo di quelli ratificati, andando a comprendere anche gli accordi in
forma semplificata (sempre che rispettino i vincoli di cui all’art 80 Cost).
I limiti derivanti dalla potestà dello stato al fine di rispettare gli obblighi
internazionali non impediscono che possa essere sollevato giudizio di
costituzionalità per il contrasto dell’ordine di esecuzione con le norme
costituzionali. Le norme pattizie immesse non hanno infatti rango costituzionale e
non possono derogare la costituzione.
La costituzione poi dispone la superiorità della categoria dei trattati che disciplinano lo
status degli stranieri. Secondo l’art 10.2 Cost “la condizione giuridica dello straniero è
regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”. Pertanto
una normativa interna in contrasto con un trattato internazionale sulla condizione dello
straniero sarebbe viziata di incostituzionalità (anche se ciò è deducibile anche alla
luce delle nuove pronunce della corte sull’art 117.1 Cost). Secondo la dottrina
prevalente sarebbero in contrasto con la costituzione quelle norme interne che
ponessero obblighi allo straniero in contrasto con il trattato e non quelle che
conferissero un trattamento più favorevole.
5. L’adattamento alle fonti previste da accordo
Per capire se le norme prodotte da una fonte giuridica di terzo grado entrino
automaticamente o meno nel nostro ordinamento bisogna distinguere.
Qualora il trattato preveda espressamente l’efficacia interna delle norme prodotte, tali
norme entreranno automaticamente in vigore nell’ordinamento interno (es: i
Regolamenti comunitari, art 249 CE).
Qualora il trattato nulla disponga, la diretta applicabilità dovrebbe essere desunta
dall’ordine di esecuzione del trattato: esso, così come immette le norme del trattato
dovrebbe anche immettere le norme prodotte in virtù dei meccanismi creati dal
trattato. Ma la prassi è generalmente contraria, sia per l’esistenza di norme non self-
executing, sia perché esiste una naturale diffidenza ad accogliere fonti di un altro
ordinamento senza controllo.
Quanto ora osservato vale in linea di principio anche per le sentenze internazionali,
che debbano trovare attuazione nell’ordinamento interno. La sentenza internazionale
è normalmente una sentenza di puro accertamento e quindi lo stato dovrà prendere
tutti i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta. La sentenza non ha
efficacia diretta nel nostro ordinamento, comprese quelle della Corte europea dei
diritti dell’uomo. L’art 117.1 pone un vincolo al legislatore anche per quanto riguarda
gli obblighi derivanti da fonti previste da accordo: tale disposizione fa infatti riferimento
agli “obblighi internazionali”, formula ampia che include anche gli obblighi in
questione.
6. L’adattamento al diritto comunitario
Il diritto comunitario comprende sia il diritto derivante dai Trattati istitutivi sia il diritto
prodotto dai meccanismo istituiti dai trattati: regolamenti, direttive e decisioni. Con le
modifiche apportate dal Trattato sull’UE sono state introdotte due categorie di atti aventi
effetti vincolanti: le decisioni-quadro e le decisioni, nell’ambito del c.d. III pilastro
(Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale). Ai trattati di Roma e ai
successivi modificativi il nostro ordinamento si è adattato mediante ordine di
esecuzione contenuto in una legge ordinaria. Per quanto riguarda la legislazione
comunitaria derivata occorre distinguere.
Secondo l’art 249 CE, il regolamento è direttamente applicabile in ciascuno degli stati
membri; non occorre quindi nessun atto di adeguamento perché acquisti validità
nell’ordinamento interno, anche se è ovvio che atti integrativi sono necessari quando il
regolamento non sia autosufficiente (self-executing).
Le direttive pongono un obbligo di risultato e quindi è necessario un atto di adattamento
perché acquistino efficacia nell’ordinamento interno. Le direttive che producono effetti
diretti (es: quelle che impongono un obbligo di non facere), acquistano efficacia nel
nostro ordinamento indipendentemente da un atto di adeguamento, una volta decorso il
termine per la loro trasposizione. Si tratta però di efficacia verticale, cioè la direttiva può
essere invocata dal singolo nei confronti dello stato ma non nei confronti di altra
persona fisica o giuridica (c.d. efficacia orizzontale). Le direttive non aventi efficacia
diretta possono produrre effetti limitati nel nostro ordinamento dopo che sia trascorso il
termine per la loro trasposizione senza che siano state attuate: il singolo ha titolo di
chiedere allo stato un risarcimento del danno a condizione che la direttiva, qualora
attuata, avrebbe conferito un diritto soggettivo, esista un nesso di causalità tra la non
applicazione e il danno subito, sia possibile ricavare dalla direttiva il contenuto dei diritti
attribuiti ai singoli.
Anche per le decisioni rivolte allo stato è necessario un atto di adeguamento, ma
queste, come le direttive, possono avere efficacia diretta nei confronti dei singoli.
Per le decisioni che abbiano come destinatari i singoli non è necessario alcun atto di
adeguamento.
Le decisioni-quadro e le decisioni del III pilastro non possono avere per definizione
effetti diretti (art 34.2b,c TUE): è quindi sempre necessario un atto di adeguamento.
Per ovviare alle difficoltà e ai ritardi nell’adeguamento del diritto interno alle fonti
comunitarie derivate fu adottata la L.9 marzo 1989, n.86 e successive modificazioni,
denominata “Legge La Pergola”. Con cadenza annuale era disposta l’adozione di una
legge, c.d legge comunitaria, contenente disposizioni in attuazione degli atti
comunitari. Tale legge avrebbe anche potuto contenere disposizioni abrogative norme
in contrasto con il diritto comunitario. La L.86/1989 è stata abrogata dalla L.4 febbraio
2005 n.11 (c.d. Legge Buttiglione) la quale disciplina sia la partecipazione dell’Italia al
processo normativo dell’UE sia le procedure di esecuzione degli obblighi comunitari. I
contenuti della nuova legge comunitaria comprendono anche gli atti del III pilastro,
nonché le disposizioni occorrenti per dare attuazione ai trattati internazionali conclusi
dalla CE. Per il resto la nuova legge lascia inalterato l’impianto della precedente.
Quanto al rango delle norme comunitarie, si è fatto leva sull’art 11 Cost secondo cui:
“l’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia fra le nazioni e promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale
scopo”, al fine di assicurare la prevalenza del diritto comunitario su quello interno. Un
risultato conseguito dopo una lunga evoluzione della nostra giurisprudenza
costituzionale. In una prima fase essa ha applicato il principio della successione delle
leggi nel tempo; successivamente è stato affermato che il diritto comunitario aveva la
prevalenza sul diritto interno, ma questa “prevalenza” doveva essere accertata di volta
in volta dalla corte; infine (sent 170/1984 Corte costituzionale), la Corte dopo aver
affermato che il diritto comunitario direttamente applicabile prevale sulla norma interna
anche se successiva, ha statuito che il giudice
ordinario è tenuto a non applicare la norma interna successiva incompatibile, senza
sollevare il controllo di costituzionalità. La prevalenza non è ammissibile qualora la
norma comunitaria si ponga in contrasto con i principi fondamentali del nostro
ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana (i c.d. controlimiti).
L’ordinamento interno si ritrae di fronte ai rapporti giuridici regolati
dall’ordinamento comunitario. Le norme di questo ordinamento verrebbero a ricevere
diretta applicazione nell’ordinamento interno in virtù dell’art 11 Cost, “pur rimanendo
estranee al sistema di fonti statali”. Pertanto alla luce di detta sentenza le norme
interne incompatibili non sono abrogate ma vivono in una sorta di limbo.
Un’ulteriore evoluzione giurisprudenziale ha portato all’affermazione secondo cui il
dovere di non applicare il diritto interno in contrasto con il diritto comunitario avente
efficacia diretta incombe non solo al giudice ma anche alla Pubblica Amministrazione.
La “prevalenza” è ormai riconosciuta sia al diritto comunitario direttamente applicabile
sia a quello avente efficacia diretta.
La configurazione teorica dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento
comunitario ha indotto a concludere che sia preclusa la possibilità di sollevare il
giudizio di costituzionalità di una norma interna in contrasto con una norma
comunitaria direttamente applicabile o produttiva di effetti diretti, salvo la
proposizione del giudizio di costituzionalità in via principale oppure in relazione ad
una norma interna la cui permanenza in vigore potrebbe pregiudicare la perdurante
osservanza dei trattati comunitari e la stessa appartenenza dell’Italia al sistema
CE.
Infine l’art 117.1 Cost novellato, sancisce la “prevalenza” del diritto comunitario su
quello interno, che prima era fondata solo in via interpretativa sull’art 11.
7. Le regioni e l’adattamento al diritto pattizio e comunitario
Può accadere che un trattato o un atto comunitario giuridicamente vincolante incidano
su materie di competenza regionale.
È bene distinguere tra adattamento ai trattati e adattamento al diritto comunitario,
tenendo presente la L. 131/2003 che ha dato attuazione alle modifiche costituzionali
operate al Titolo V Cost.
Per quanto riguarda i trattati, l’art 6.1 della L.131 dispone che “le regioni e le province autonome
provvedono direttamente all’attuazione degli accordi internazionali ratificati dandone preventiva
comunicazione al ministero degli esteri e alla Presidenza del Consiglio i quali nei successivi trenta
giorni possono formulare criteri e osservazioni”. Sembra che le regioni e le province autonome
siano legittimate a dare attuazione all’accordo internazionale senza attendere un atto di
adeguamento da parte del governo centrale. Naturalmente deve trattarsi di accordo
internazionale in vigore per lo stato italiano. Inoltre il potere di adeguamento a livello
regionale riguarda (sent.379/2004 CC) sia gli accordi conclusi in forma solenne sia
quelli in forma semplificata, che abbiano ad oggetto materie di competenza regionale.
Poiché in pratica l’ordine di esecuzione è contenuto nella legge di autorizzazione alla
ratifica, la possibilità di regioni e province autonome di provvedere direttamente
all’adeguamento si realizza solo per gli accodi non rientranti nella categoria di cui all’art
80 Cost. Le regioni potranno sempre formulare leggi di attuazione in materia regionale,
specialmente per le norme non self-executing.
Qualora l’ente regionale non provveda all’attuazione spetterà allo stato provvedere,
secondo i poteri di sostituzione che gli derivano sia dall’art 120 Cost sia dagli artt 6 e
8 della L.131/2003.
Per quanto riguarda il diritto comunitario, la giurisprudenza costituzionale e il
legislatore ordinario hanno finito per riconoscere la competenza delle Regioni ad
attuare il diritto comunitario. L’art 8.1 della L. n.11/2005 contiene una disposizione
generale secondo cui “lo stato, le regioni e le Province autonome, nelle materie di propria
competenza legislativa, danno tempestiva attuazione alle direttive comunitarie”. Inoltre la
disposizione dell’art 117.5 Cost legittima regioni e province autonome a dare attuazione
agli “atti dell’UE” nelle materie di loro competenza; quindi la disposizione ha per
oggetto non solo il diritto comunitario in senso stretto, cioè gli atti giuridicamente
vincolanti del I pilastro dell’UE, ma anche quelli del III che abbiano natura vincolante.
La procedura per l’esercizio dei poteri sostitutivi dello stato è disciplinata dall’art 8 L.
n.131, quando questo si renda necessario per rimediare alla violazione della normativa
comunitaria, inclusa la mancata attuazione.
8. Il sindacato giurisdizionale da parte del giudice interno sui trattati e
sugli atti delle organizzazioni internazionali
La particolare valenza conferita ai trattati dall’art 117.1 Cost induce a ridimensionare la
teoria dell’atto politico (molto utilizzata dai giudici di common law ma anche da quelli
italiani) e darne una valutazione critica, in merito alla tesi secondo cui il trattato,
coinvolgendo una scelta di politica estera dello stato, non sarebbe sindacabile in sede
giurisdizionale. Possono essere fatte varie ipotesi, distinguendo tra invalidità ed
estinzione dei trattati.
a) il trattato è affetto da invalidità relativa, cioè da un vizio sanabile, riconducibile
agli artt 46-50 CV. Poiché l’acquiescenza fa perdere il diritto di invocare la
causa di invalidità, la non contestazione del trattato rientra fra le scelte di
politica estera dell’esecutivo, che non possono essere vanificate dal giudice.
Solo quando le modalità di stipulazione del trattato fossero chiaramente in
contrasto con la Costituzione il giudice interno dovrebbe sollevare giudizio di
costituzionalità.
b) Al contrario il giudice potrebbe dichiarare invalido il trattato, incidenter tantum,
se ricorra in una causa di invalidità assoluta di cui agli artt 51-53 CV.
Naturalmente spetterà all’esecutivo impugnare il trattato.
c) Tale regola è applicabile, mutatis mutandis, all’estinzione dei trattati. Il giudice
interno non applicherà, incidenter tantum, il trattato qualora ricorra una causa
automatica di estinzione, quale il termine finale oppure un mutamento di
sovranità che determini l’estinzione del trattato o la guerra, nei casi in cui essa
comporti l’automatica estinzione. Negli altri casi essendo l’estinzione del
trattato rimessa alla volontà dell’esecutivo (denuncia) il giudice non applicando
il trattato finirebbe per invadere competenze altrui.
Infine, in un sistema quale quello comunitario, in cui spetta al giudice comunitario
statuire sulla validità dell’atto pare che il giudice nazionale non possa esercitare alcun
sindacato.
Capitolo 11 La soluzione delle controversie internazionali e
l’accertamento del diritto
1. Premessa
La soluzione di una controversia internazionale non si traduce necessariamente in un
atto di accertamento del diritto, potendosi tradurre nella creazione di nuovo diritto
nei rapporti fra le parti. Tuttavia, se è vero che nel diritto internazionale generale
l’accertamento del diritto presuppone sempre una controversia internazionale,
esistono però numerosi trattati, e persino alcuni atti di organizzazioni
internazionali, che istituiscono meccanismi per l’accertamento del diritto, che non
presuppongono una tale controversia; in particolare i trattati in materia di diritti
dell’uomo, gli atti istitutivi dei tribunali penali internazionali e il sistema dei ricorsi
nell’ambito dell’UE.
2. Nozione di controversia internazionale
Ha luogo una controversia internazionale quando la pretesa di uno stato viene
contestata da un altro. L’esistenza di una pretesa e la sua contestazione, ovvero la
resistenza alla stessa, sono dunque elementi costitutivi della controversia. Una
protesta di fronte ad una lesione di un interesse può altresì costituire il fondamento di
una controversia.
La giurisprudenza internazionale si è spesso soffermata sulla nozione di controversia,
essendo la stessa una condicio sine qua non per l’esercizio della giurisdizione da parte di
una corte internazionale.
La dottrina, specie quella meno recente distingueva tra controversie giuridiche,
caratterizzate dal fatto che le parti invocavano il diritto internazionale a sostegno delle
proprie posizioni, e controversie politiche, in cui le parti invocano invece argomenti
politici o comunque non giuridici; la distinzione non dipendeva dunque tanto
dall’oggetto della controversia, quanto dal modo in cui le parti presentavano una
pretesa o la contestavano. Sotto il profilo pratico questa distinzione avrebbe dovuto
comportare che solo le controversie giuridiche erano suscettibili di essere risolte
mediante un procedimento giudiziale o arbitrale, mentre le seconde avrebbero dovuto
essere risolte con mezzi politici. La distinzione tra le due categorie ha scarso
fondamento, sebbene venga di tanto in tanto invocata davanti alla ICJ per
contestarne la competenza.
Ogni controversia ha un aspetto politico, spesso molto rilevante; ciò non significa
però che essa non possa essere risolta tramite il diritto. Tuttavia occorre sottolineare
come tale distinzione sia tenuta in conto sia dalla Carta delle NU (art 36.3 NU) sia
dalla stessa giurisprudenza della Corte (art 36.2 statuto ICJ).
3. La natura consuetudinaria dell’obbligo di risolvere pacificamente
le controversie internazionali
Il diritto internazionale contemporaneo ha definitivamente ripudiato i mezzi non
pacifici di soluzione delle controversie internazionali, stabilendo, con la Carta delle
NU (art 2.3), l’obbligo di risolvere in modo pacifico le controversie internazionali.
Questo è il risultato di un processo iniziato a partire dalla Convenzione dell’Aja del
1899, istitutiva della Corte Permanente di arbitrato (che ha trovato conferma nella
Conferenza dell’Aja del 1907). Un obbligo più incisivo venne affermato nel Patto della
Società delle Nazioni, istitutivo altresì della Corte permanente di giustizia
internazionale. Secondo l’art 12 del Patto, gli stati avevano un dovere generale di
sottoporre ad arbitrato, regolamento giudiziale o all’esame del Consiglio della
Società, le controversie che avrebbero potuto portare ad una rottura.
L’art 2.3 NU afferma: I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi
pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in
pericolo.
Questa disposizione è complementare a quella dell’art 2.4 NU, che vieta la minaccia o
l’uso della forza nelle relazioni internazionali.
I mezzi di risoluzione pacifica delle controversie sono elencati all’art 33 NU, che fa
riferimento a: “negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso
ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta”
L’elenco peraltro non è tassativo, poiché le parti possono far ricorso ad altri mezzi
pacifici di loro scelta. L’obbligo di risolvere pacificamente le controversie
internazionali è ormai divenuto oggetto di una norma di diritto internazionale
consuetudinario. Naturalmente esiste un obbligo di risolvere pacificamente una
controversia, ma non un obbligo di risolverla, cioè di pervenire ad una soluzione
concreta, almeno fino a che la controversia non metta a rischio la pace e la sicurezza
internazionali. Poiché la scelta di un mezzo di risoluzione presuppone sempre
l’accordo di entrambe le parti, può accadere che queste non riescano ad accordarsi e
che quindi la controversia rimanga irrisolta.
4. Singoli metodi di risoluzione delle controversie internazionali
I metodi di soluzione delle controversie sono molteplici. Il loro elenco comprende:
negoziato, mediazione, inchiesta, buoni uffici, conciliazione, arbitrato e giurisdizione. A
differenza del negoziato, gli altri metodi comportano l’intervento di un terzo. All’interno
di questi ultimi si è soliti distinguere tra mezzi diplomatici (inchiesta, mediazione, buoni
uffici) che si propongono di facilitare un accordo fra le parti , e mezzi obbligatori
(arbitrato e giurisdizione) che invece si traducono in una sentenza (o lodo arbitrale),
cioè in un atto giuridicamente vincolante.
Il negoziato fra le parti può condurre alla conclusione di un accordo che dia
sistemazione al conflitto di interessi. Esso è tuttavia una forma embrionale o, se si
vuole, imperfetta di soluzione delle controversie. A suo favore gioca la flessibilità,
anche se il peso di uno stato più forte si farà sicuramente sentire nei termini
dell’accordo con uno stato più piccolo. Il negoziato raramente si traduce in un accordo
di mero accertamento che risolve la controversia secondo diritto; più spesso conduce
ad una soluzione di compromesso che innova il diritto preesistente. Il negoziato può
comunque essere un mezzo attraverso cui le parti si accordano per scegliere un
mezzo più sofisticato di soluzione.
Nell’inchiesta (fact finding), le parti affidano ad un terzo l’accertamento imparziale dei
fatti che possono essere all’origine della controversia. Di regola l’inchiesta si conclude
con un rapporto indirizzato alle parti, che non ha valore obbligatorio. L’inchiesta può
essere parte
di un ulteriore procedimento di soluzione della controversia. Essa è uno dei metodi di
soluzione delle controversie menzionati dall’art 33 NU, ma è anche esplicitamente
usata da altri trattati internazionali (es: art 132 della III Convenzione di Ginevra del
1949 relativa alla protezione dei prigionieri di guerra in caso di conflitto).
Nella mediazione il terzo ha il compito di cercare di avvicinare le posizioni delle parti, in
modo da ridurre il contrasto di interessi e facilitare la soluzione della controversia. Le
proposte del mediatore non sono obbligatorie: egli può suggerire una soluzione, ma
normalmente non viene elaborato un rapporto. Tra le mediazioni condotte da un Capo
di Stato va ricordata la mediazione papale nella controversia tra Cile e Argentina per il
Canale di Beagle (1984).
L’art 4 della Convenzione dell’Aja non distingue tra mediazione e buoni uffici,
che non sono neppure elencati dall’elenco dell’art 33 NU. Tuttavia i buoni uffici
devono essere tenuti distinti dalla mediazione, dove l’organo preposto (il
mediatore) ha un ruolo più attivo; nei buoni uffici si cerca solo di indurre le parti
a negoziare.
Mediante la conciliazione, viene istituito un procedimento volto alla soluzione della
controversia, di regola per mezzo di una commissione composta da individui. La
procedura si conclude con un rapporto contenente una o più raccomandazioni in
ordine alla soluzione della controversia; tale rapporto non è vincolante per le parti. Il
valore del rapporto della Commissione di conciliazione è ben illustrato nell’annesso
alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969.
Talvolta le parti hanno l’obbligo, stabilito mediante trattato, di rivolgersi alla
commissione di conciliazione: si parla in tal caso di conciliazione obbligatoria, nel
senso che una delle parti può mettere unilateralmente in moto il procedimento di
conciliazione ma le conclusioni del procedimento rimangono sempre delle
raccomandazioni. Ad es per tutte le controversie relative alla validità o all’estinzione
dei trattati, ad esclusione di quelle in materia di diritto cogente, le parti della CV
possono, mediante ricorso unilaterale, mettere in moto una procedura di
conciliazione.
L’arbitrato si conclude con un atto che comporta la soluzione obbligatoria della
controversia (lodo o sentenza arbitrale). Il Tribunale arbitrale è costituito da uno o più
individui scelti di comune accordo fra le parti ed opera secondo una procedura
specificata dalle parti all’atto dell’istituzione del tribunale o fissata dal tribunale stesso,
oppure prestabilita da un accordo preesistente all’insorgere della controversia.
La giurisdizione (o regolamento giudiziale secondo la terminologia utilizzata dall’art 33
NU) si distingue dall’arbitrato poiché la soluzione della controversia è deferita ad un
organo permanente composto da individui indipendenti e operante secondo regole
prestabilite.
Dai metodi di soluzione delle controversie internazionali devono essere tenuti distinti i
sistemi volti ad assicurare l’ottemperanza di un trattato internazionale, la c.d.
compliance procedure, che non suppone l’esistenza di una controversia. Nella
compliance procedure un
organo istituito dal trattato controlla la conformità del comportamento dello stato parte
ai parametri stabiliti dal trattato. È un esempio il sistema di controlli istituiti dal Patto
sui diritti civili e politici del 1966, dove le parti sono tenute ad inviare periodicamente
dei rapporti al Comitato dei diritto dell’uomo.
5. Combinazione fra vari metodi di soluzione delle controversie
internazionali La prassi attesta come le parti si avvalgano spesso di due o più
metodi per la soluzione della loro controversia. La combinazione di più metodi è
spesso istituzionalizzata.
Un combinato tra inchiesta buoni uffici, mediazione, conciliazione è reperibile nell’art 90
del I Protocollo addizionale alle quattro convenzioni di Ginevra del 1949. un tribunale
internazionale può servirsi dell’inchiesta per pervenire alla soluzione della controversia.
Inchiesta e giurisdizione possono coesistere nel processo dinanzi alla ICJ. Inchiesta,
conciliazione e giurisdizione sono a disposizione della Corte Europea dei diritti
dell’uomo.
6. La Corte permanente di arbitrato (CPA)
La CPA è stata istituita in virtù della Convenzione dell’Aja del 1899. La Corte ha
un’esile struttura istituzionale: un Ufficio internazionale di cancelleria; un Consiglio di
amministrazione permanente composto dagli agenti diplomatici degli stati parti della
Convenzione, accreditati in Olanda e presieduti dal ministro degli esteri olandese;
un elenco di arbitri designati dagli stati parti; un elenco di regole di procedura, con
natura suppletiva (trovano applicazione solo le parti non indicano regole diverse).
I componenti della CPA vengono scelti di volta in volta dalle parti in lite
nell’ambito della lista degli arbitri. Questi arbitri, divisi in gruppi nazionali sono
chiamati a designare la lista di persone tra cui Assemblea Generale e Cds delle NU
eleggeranno i giudici della ICJ. L’importanza della CPA, significativa prima
dell’istituzione della corte permanente di giustizia internazionale, è andata via via
scemando. Recentemente la CPA offre le sue “facilities” perla soluzione di taluni
arbitrati internazionali.
7. La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ)
La ICJ, che è inquadrata nel sistema delle Nazioni Unite, succede alla Corte
permanente di giustizia internazionale esistente al tempo della Società delle Nazioni.
La ICJ che ha sede all’Aja, opera in base ad uno Statuto annesso alla Carta delle NU.
Essa si compone di 15 giudici che durano in carica nove anni. I giudici sono eletti
dall’AG e dal Cds sulla base di una lista stilata dalla CPA; per essere eletti occorre
ottenere la maggioranza assoluta sia in AG che in Cds, dove i membri permanenti
non godono di diritto di veto.
La ICJ opera in base allo Statuto ed a un regolamento di procedura non derogabile
dalle parti. Solo gli stati possono essere parti della procedura contenziosa davanti alla
corte.
Poiché la giurisdizione ha base consensuale, le parti debbono accettare la
competenza della corte mediante una propria manifestazione di volontà; questo
principio non viene meno neanche in caso di violazione di ius cogens. La
manifestazione di consenso può essere contenuta in un compromesso o in una
clausola compromissoria contenuta in un trattato, preesistente all’insorgere della
controversia.
Quando ciò accade, dopo che la controversia è sorta, ciascuna parte può rivolgersi
alla ICJ mediante un ricorso unilaterale (requete). Ovviamente lo stato parte di una
controversia può adire alla Corte se ha depositato una dichiarazione unilaterale di
accettazione della giurisdizione purchè anche l’altra parte abbia depositato una
dichiarazione unilaterale di accettazione della competenza della Corte.
Uno stato può riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza speciale convenzione
la giurisdizione della ICJ (art 36.2 [Link]). Tale meccanismo, che consiste in una
dichiarazione unilaterale di accettazione della competenza della Corte, comporta che
uno stato si obblighi ad accettare la competenza della corte nei confronti di qualsiasi
altro stato che abbia effettuato la stessa dichiarazione.
La dichiarazione di accettazione unilaterale della competenza della ICJ può essere
delimitata ratione temporis (l’accettazione della competenza è limitata solo a un dato
limite di tempo), ratione materiae (vengono escluse dalla competenza della ICJ le
controversie in determinate materie) o ratione personae ( l’accettazione della
competenza è effettuata solo nei confronti di determinati stati).
Il consenso all’accettazione della Corte può essere espresso anche successivamente
all’insorgere della controversia (forum prorogatum), e poiché l’espressione del consenso
non richiede una particolare formalità, esso può anche essere ricavato dal
comportamento processuale della parte; la condotta dello stato deve essere tale,
tuttavia, da dimostrare la sua inequivocabile volontà di accettare la giurisdizione della
Corte.
Lo statuto della ICJ ammette l’intervento in causa: occorre distinguere tra (a) intervento
in una controversia non avente ad oggetto l’interpretazione di una convenzione di cui il
terzo sia parte e (b) intervento avente ad oggetto l’interpretazione di una convenzione
multilaterale di cui il terzo sia parte.
La prima ipotesi è disciplinata dall’art 62 [Link]:
1. Se uno Stato ritiene di aver un interesse di natura giuridica che possa essere pregiudicato dalla
decisione di una controversia, esso può presentare alla Corte un’ istanza per poter intervenire.
2. Spetta alla Corte decidere su tale istanza.
Il terzo può così intervenire ma non diventa parte del processo e la sentenza non ha
efficacia di cosa giudicata nei suoi confronti.
La seconda ipotesi è disciplinata dall’art 63 [Link]:
1. Quando sia in discussione l'interpretazione di una convenzione di cui siano parte altri Stati oltre a quelli
in causa, il Cancelliere ne dà immediata notizia ad essi.
2. Ciascuno degli Stati ai quali sia stata fatta tale notifica ha il diritto di intervenire nel processo, e,
se fa uso di tale diritto, l'interpretazione data dalla sentenza è del pari obbligatoria anche per esso.
L’art 41 [Link] abilita la corte ad indicare misure cautelari per la salvaguardia dei diritti
delle parti in lite; tali misure vincolano le parti.
La ICJ giudica in base a diritto secondo quanto stabilito dall’art 38 [Link]. ha
anche la facoltà di giudicare ex equo et bono se le parti così decidano, anche se
finora non ci sono stati casi di questo tipo.
Generalmente non esiste in diritto internazionale un doppio grado di giurisdizione,
sebbene tale regola venga ormai spesso derogata. Le sentenze delle ICJ sono quindi
definitive ed hanno efficacia di cosa giudicata in senso soggettivo (la sentenza
vincola solo
le parti in lite) e in senso oggettivo (la sentenza vale solo rispetto al caso deciso),
art 59 S,ICJ. Esistono però due mezzi di gravame diversi dall’appello:
l’interpretazione o la revisione della sentenza. Il primo ha luogo in caso di
contestazione sul significato e la portata della sentenza (art 60 [Link]); il secondo può
essere promosso, sempre ad istanza delle parti, nel caso in cui si alleghi la scoperta
di un fatto di natura tale da costituire un evento decisivo per la revisione (art 61
[Link]). L’ignoranza del fatto non deve essere attribuibile alla negligenza della parte
richiedente la revisione, fermo restando che quest’ultima deve essere richiesta
entro sei mesi dalla scoperta del fatto nuovo, e che in ogni caso la richiesta di
revisione non può più essere presentata una volta trascorsi dieci anni dalla data
dell’emanazione della sentenza.
La ICJ ha anche una competenza consultiva (artt 65-68 [Link]): può esserle richiesto
un parere consultivo su qualsiasi questione giuridica, dall’AG e dal Cds (art 96.1 NU),
cosi come anche gli altri organi specializzati delle NU, seppur limitati alle questioni
che insorgano nell’ambito della propria attività, previa autorizzazione dell’AG (art
96.2 NU). A differenza della sentenza, il parere della ICJ è per definizione non
vincolante.
Gli stati non sono legittimati a chiedere pareri alla corte, ma possono sempre
presentare un progetto di risoluzione in AG affinché questa chieda un parere (come
avvenuto per il parere sulla legalità del muro in Palestina). Tuttavia mediante
trattati, le parti possono vincolarsi a considerare come obbligatorio il parere della
Corte. La ratio della procedura del “parere vincolante” trae motivo dal fatto che le
organizzazioni internazionali non possono essere parti di un procedimento
contenzioso dinanzi alla ICJ: per esse questo è l’unico modo di risolvere la
controversia ricorrendo ai servigi della corte.
8.L’esecuzione delle sentenze internazionali
Nella comunità internazionale manca un organo accentrato che possa assicurare la
realizzazione coercitiva del diritto. Tale considerazione vale anche per le sentenze
della ICJ. Attualmente, l’art 2.4 NU (astensione dall’uso della forza) esclude che si
possa ricorrere alla forza armata per costringere lo stato soccombente ad adempiere,
ma è ammissibile l’esercizio di una contromisura che non comporti l’uso della forza
armata. La Carta detta un particolare meccanismo all’art 94:
1. Ciascun Membro delle Nazioni Unite si impegna a conformarsi alla decisione della Corte
Internazionale di Giustizia in ogni controversia di cui esso sia parte.
2. Se una delle parti di una controversia non adempie agli obblighi che le incombono per effetto di
una sentenza resa dalla Corte, l’altra parte può ricorrere al Consiglio di Sicurezza, il quale ha
facoltà, ove lo ritenga necessario, di fare raccomandazioni o di decidere circa le misure da
prendere perché la sentenza abbia esecuzione.
È da notare che la delibera del Cds deve essere presa con il voto positivo dei 5 membri
permanenti.
Tra i casi di inadempimento delle sentenze della ICJ vanno ricordate la sentenza sugli
ostaggi detenuti a Teheran (1980) e la sentenza Nicaragua-Stati Uniti (1986).
9. Corte internazionale di giustizia e Consiglio di sicurezza delle NU
Il problema dei rapporti tra ICJ e Cds ha due aspetti. Il primo riguarda la
litisdipendenza, cioè la contemporanea presenza della questione di fronte alla ICJ e al
Cds; il secondo la competenza della ICJ a pronunciarsi sulla legittimità delle risoluzioni
del Cds.
Quanto al primo punto (che trova un esempio pratico nella vicenda degli ostaggi a
Teheran) la questione è stata affrontata dalla ICJ che ha osservato come non esista
nessuna disposizione della Carta delle NU che precluda alla ICJ di rendere sentenza
qualora il Cds sia contemporaneamente investito della questione. L’art 12 NU asserisce
una preclusione simile all’AG nei confronti della Corte, ma non esiste una disposizione
che affermi viceversa. D’altra parte la litisdipendenza non è disciplinata in diritto
internazionale.
Pertanto il conflitto allo stato potenziale rimane e, mancando un meccanismo formale
che consenta di risolverlo, non è soluzione soddisfacente la constatazione secondo
cui il Cds si colloca su un piano (quello politico) diverso da quello della ICJ (che
giudica secondo diritto). Tra l’altro vi può essere una sfasatura temporale, poiché
mentre il Cds delibera celermente, i tempi della ICJ sono necessariamente più lunghi,
e ciò fa venir meno l’utilità del criterio di opportunità (es: il Cds si astiene aspettando
la decisione della Corte).
Peraltro non mancano nella prassi esempi in cui i due organi hanno agito in modo
complementare e non conflittuale (Attività armate sul territorio del Congo).
Altra questione riguarda l’ipotesi per cui la ICJ sia competente a esaminare la validità
delle risoluzioni del Cds; la ICJ non si è ancora espressa sul punto. Dovendo il Cds
rispettare il diritto internazionale, buona parte della dottrina ritiene che alla Corte,
purchè ne sussista competenza, non sia inibito pronunciarsi sulla validità delle relative
risoluzioni, almeno incidenter tantum. Naturalmente la ICJ non potrà pronunciarsi sulla
validità delle determinazioni che coinvolgono questioni politiche.
10.I poteri del Cds delle NU in materia di soluzione delle controversie
Il Consiglio esercita funzioni di natura non giurisdizionale nel campo della soluzione
delle controversie internazionali, che gli sono assegnate dal Capitolo VI della Carta.
Oltre a muoversi motu proprio, il Cds può essere attivato da qualsiasi membro delle
NU, dal Segretario Generale ex art 99 o dalla stessa AG in caso di controversie la
cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo la pace e la sicurezza
internazionale. Il Cds ha innanzitutto un potere di inchiesta ai sensi dell’art 34 NU,
allo scopo di determinare se la continuazione della controversia possa mettere in
pericolo la pace e la sicurezza collettive. Più concretamente può invitare le parti a
risolvere pacificamente la
controversia ricorrendo a un metodo indicato dall’art 33 NU; se l’invito non viene
raccolto il Cds può suggerire un metodo specifico (art 36.1 NU). Qualora la
controversia sia ancora pendente, l’art 37.1 NU obbliga le parti a deferirla di nuovo al
Cds. Questi può raccomandare il ricorso ad un altro metodo di soluzione della
controversia o addirittura entrare nel merito, raccomandando una soluzione concreta e
svolgendo pertanto una funzione conciliativa.
[Link] giurisdizione penale internazionale
I tribunali penali internazionali sono una novità abbastanza recente. Essi hanno
giurisdizione su individui accusati di aver commesso un crimine internazionale. Sono
stati
istituiti su risoluzione del Cds ONU due tribunali internazionali ad hoc: uno, con sede
all’Aja, per giudicare i crimini commessi nella ex-Jugoslavia (ris 808-1993) a partire
dal 1991 e l’altro per giudicare i crimini commessi in Ruanda nel 1994 (ris 995-1994).
Entrambi i tribunali dispongono di un doppio grado di giurisdizione, in quanto è
possibile l’appello contro la sentenza della Camera di prima istanza. Questi tribunali
hanno giurisdizione concorrente con i tribunali di diritto interno, che abbiano
competenza a perseguire i colpevoli dei crimini commessi in ex-Jugoslavia e in
Ruanda; tuttavia i due tribunali internazionali hanno giurisdizione prioritaria nel senso
che in qualsiasi stadio del processo in un tribunale interno essi possono avocare il
caso.
Lo statuto della Corte Penale Internazionale è stato adottato a Roma il 17 luglio 1998
ed è entrato in vigore il 1 luglio 2002.
La CPI si compone di un corpo di 18 giudici, un procuratore (prosecutor) e un ufficio di
cancelleria (art 34). Lo statuto dispone l’istituzione di camere di appello, una Trial
Divison, e una Pre-Trial division. I giudici sono eletti dall’assemblea degli stati parti; il
procuratore è eletto a scrutinio segreto dalla stessa assemblea. Per essere eletto un
candidato deve ottenere la maggioranza assoluta. Il procuratore ha poteri non
trascurabili (motivo della mancata firma degli USA che temevano procuratori troppo
politicizzati). Lo statuto non ammette riserve.
La CPI ha giurisdizione, secondo l’art 5, sui seguenti crimini: genocidio, crimini contro
l’umanità, crimini di guerra aggressione.
A differenza dei tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda, la CPI non ha
giurisdizione prioritaria rispetto ai tribunali nazionali. La sua competenza è fondata sul
principio di complementarietà: la CPI può giudicare solo nei casi in cui un tribunale
nazionale non intenda o sia effettivamente incapace di svolgere correttamente
l’indagine o di iniziare il processo. Il principio accolto è quello per cui coloro che hanno
commesso crimini internazionali non debbono godere d’impunità. L’art 17 dello
statuto elenca tra i casi di “non volontà” l’ingiustificato ritardo dei procedimenti o la
mancanza di imparzialità; tra i casi di “incapacità” sono ricordati il collasso delle
strutture statali o la mancanza di un sistema giudiziario.
La CPI non ha giurisdizione universale. Essa può giudicare solo quando: a) il
crimine sia commesso da un cittadino di uno stato parte; b) il crimine sia commesso
nel territorio di uno stato parte; oppure c) una situazione in cui uno o più crimini
siano stati commessi è deferita alla CPI (tramite il Procuratore) dal Cds dell’ONU.
La CPI ha giurisdizione solo per i crimini commessi dopo l’entrata in vigore del suo
statuto.
Un procedimento dinanzi alla CPI può essere messo in moto da uno stato parte, dal
Cds o dal Procuratore (art 13) cui spetta il potere di condurre le necessarie indagini.
Egli agisce in piena indipendenza e sarà più disponibile ad avviare la procedura
rispetto al Cds (in cui calcoli politici possono consigliare di non iniziare un
procedimento), benché la sua azione (del Procuratore) possa essere paralizzata dalla
Pre-Trial Chamber, che costituisce un potente filtro. Processi in contumacia non sono
ammessi e la cattura e la consegna dell’imputato costituiscono uno dei nodi
fondamentali della CPI.
Le prerogative del Cds restano però incisive. Quest’organismo ha il potere di investire
la corte anche quando lo stato nel cui territorio è stato commesso un crimine non è
parte dello statuto o la persona accusata non sia cittadino di uno stato parte, venendo
praticamente a supplire alla mancanza di giurisdizione universale della CPI. Inoltre il
Cds può bloccare l’inizio del procedimento o sospenderne la prosecuzione per un
anno (rinnovabile), qualora venga inoltrata un richiesta alla CPI mediante una
risoluzione adottata nel quadro del Capitolo VII della Carta delle NU (art 16 dello
statuto CPI). Ciò significa che i membri permanenti del Cds che non hanno ratificato
lo statuto della CPI, grazie al loro potere di veto esercitano comunque un controllo
sull’attività della stessa CPI. Un conflitto tra Cds e CPI non è quindi escluso.
[Link] Corte di Giustizia delle Comunità Europee
Il sistema giurisdizionale dell’ordinamento comunitario è composto da una Corte e da un
Tribunale di primo grado, con sede a Lussemburgo, cui possono essere affiancate delle
camere specializzate per settori specifici.
Vi sono varie differenze strutturali tra giurisdizione comunitaria e giurisdizioni
internazionali. Tranne il caso in cui la Corte esercita una competenza arbitrale e
risolve una controversia che le sia stata deferita mediante un compromesso dagli stati
membri del Trattato CE (art 239 CE), la giurisdizione comunitaria ha natura
obbligatoria, è generalmente caratterizzata dal doppio grado di giurisdizione ed è
aperta anche ai ricorsi individuali (persone fisiche e giuridiche).
La Corte si compone, dopo l’allargamento dell’UE, di 27 giudici (uno per ogni
stato membro), ed è assistita da 8 avvocati generali (il cui numero può essere
aumentato su richiesta della Corte). L’avvocato generale presenta le sue
conclusioni prima della fine della procedura, ma non fa parte della camera di
consiglio e quindi non partecipa all’adozione della sentenza. La durata del
mandato è di 6 anni.
Anche il Tribunale di primo grado è composto da 27 giudici, ma non ha un corpo di
avvocati generali.
L’art 225 CE attribuisce al Tribunale la competenza a conoscere in primo grado tutti i
ricorsi diretti, ad eccezioni di quelli devoluti ad una camera giurisdizionale e di quelli
che lo statuto riserva alla Corte di Giustizia. Lo statuto attribuisce tuttora alla Corte di
Giustizia la competenza a conoscere taluni ricorsi proposti dagli stati membri e dalle
istituzioni comunitarie. Alla Corte compete anche il ricorso per infrazione (artt 226-
228 CE). Contro le sentenze del tribunale è ammesso il ricorso alla corte per i soli
motivi di diritto.
La Corte e, nei limiti sopra esposti, il Tribunale esercitano competenze in materia di:
a) controversie in materia di impiego tra personale e Comunità (devolute
dal 1 gennaio 2006 al Tribunale della funzione pubblica dell’UE).
b) legittimità degli atti comunitari che abbiano natura vincolante e non siano
pertanto raccomandazioni o pareri (art 230 CE). Si tratta di una classica
giurisdizione di legittimità ed il ricorso è volto ad annullare l’atto. Legittimati
attivamente sono gli stati membri, il Consiglio, la Commissione, il Parlamento
(BCE e corte dei conti hanno una legittimazione più limita, solo per
salvaguardare le proprie prerogative). Anche le persone fisiche e giuridiche
possono presentare un
ricorso, purchè esso sia rivolto all’annullamento di una decisione presa nei
confronti del proponente l’impugnazione. I vizi per cui un atto può essere
impugnato sono tipici del diritto amministrativo: incompetenza, violazione di
forme sostanziali, violazione del trattato CE o di qualsiasi regola relativa alla
sua applicazione, sviamento di potere. Un ricorso in annullamento può avere
come oggetto anche una decisione-quadro o una decisione rientranti nel III
pilastro dell’UE, ma in questo caso la legittimazione attiva spetta solo agli
stati membri e alla commissione.
c) ricorso in carenza. In questo caso il ricorso è volto ad accertare un’omissione
dell’organo ed obbligarlo ad agire (art 232 CE). Tale ricorso è proponibile dagli
stati membri e dalle istituzioni della comunità. La legittimazione spetta anche
alle persone fisiche o giuridiche ma solo qualora riguardi l’omessa emanazione
nei loro confronti di un atto giuridicamente vincolante.
d) Inadempimento del Trattato (giudizio di infrazione). È un ricorso operato dalla
Commissione o dagli stati membri. Lo stato membro è obbligato a prendere i
provvedimenti necessari per l’esecuzione della sentenza. Qualora lo stato
soccombente non adempia, può essere iniziato un nuovo giudizio di
infrazione. Lo stato inadempiente, su proposta della Commissione, può essere
costretto a pagare una penalità di mora o una somma forfettaria.
e) Competenza a titolo pregiudiziale (art 234 CE). È volta ad assicurare l’uniforme
applicazione del diritto comunitario all’interno degli stati membri, sebbene le
sentenze della Corte non siano fonte di diritto e non valga nel diritto
comunitario la regola stare decisis. Il diritto comunitario deve essere applicato
dal giudice interno, con la conseguenza che può essere sollevata una
questione di interpretazione del Trattato CE o di interpretazione o validità di un
atto comunitario. Qualora la questione sia sollevata dinanzi ad un tribunale di
ultima istanza il giudice ha l’obbligo di rinvio pregiudiziale alla giurisdizione
comunitaria; in altro caso il giudice può, ma non è obbligato, a rinviare la
questione alla Corte di giustizia europea. In ogni caso, il giudice a quo è
obbligato a decidere la controversia secondo l’interpretazione che del diritto
comunitario è stata data dal giudice comunitario.
f) Azioni in materia di responsabilità extracontrattuale della Comunità (art 288
CE). Si tratta di azioni per danni causati dalle istituzioni comunitarie o dai
suoi agenti. Legittimati attivi sono le persone fisiche o giuridiche oppure gli
stati membri; legittimati passivi sono le istituzioni della comunità europea.
Da ricordare che la Corte comunitaria ha anche una competenza consultiva, sia pure
limitata, e può adottare pareri. A norma dell’art 300 CE la Corte, su richiesta del
Consiglio, della Commissione o di uno stato membro, può rendere un parere sulla
compatibilità di un accordo che le istituzioni comunitarie vogliono stipulare, con il
Trattato CE. Qualora la corte si esprima negativamente l’accordo non può essere
concluso. In questo caso il parere ha un’efficacia che va oltre la mera natura consultiva.
[Link] controversie di carattere commerciale
Le controversie di carattere commerciale sono risolte nell’ambito dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio (OMC) con un sistema autosufficiente (self-contained regime).
Tale sistema è diventato quasi internazionale, con l’importante eccezione della
Federazione Russa, che ancora non ne fa parte. Il sistema di soluzione delle
controversie è regolato dall’Intesa sulle norme e sulle procedure che disciplinano la
soluzione delle controversie (DSU). Essa è contenuta in un allegato all’Accordo di
Marrakesh e quindi ha natura vincolante. L’Intesa è amministrata dall’OMC e pertanto i
suoi organi incidono a vario titolo sul sistema di soluzione delle controversie.
Gli organismi addetti a questa funzione sono i Panels, costituiti di volta in volta, e
l’organo di appello permanente, composto di sette membri che siedono a titolo
individuale e sono eletti dall’Organo per la soluzione delle controversie (DSB).
Le parti della controversia devono esperire una fase obbligatoria di consultazioni che
vengono avviate a richiesta di una parte. Se entro 60 giorni dalla data di ricezione
della richiesta la controversia non è risolta, è diritto della parte che ha presentato il
reclamo l’istituzione di un Panel. La relazione del Panel è definitivamente adotta dal
DSB e acquista efficacia vincolante, tranne che la parte soccombente (ma anche
l’altra parte è legittimata) non intenda proporre appello oppure che il DSB decida per
consensus di nona dottare l’atto. L’Organo di appello esamina la relazione solo sotto
il profilo della legittimità e non del merito. Anche questa relazione viene vagliata dal
DSB, che può respingerla solo per consensus.
Con l’adozione da parte del DSB della relazione del panel o dell’Organo di appello si
apre la fase esecutiva, che ha luogo sotto l’egida del DSB. Se la parte soccombente non
adempie, l’altra parte può chiedere al DSB di emanare una contromisura, consistente
nel sospendere l’applicazione di concessioni o altri obblighi derivanti dallo statuto
dell’OMC. Anche l’irrogazione di una contromisura può essere oggetto di controversia:
in questo caso la questione è sottoposta ad arbitrato, senza possibilità di appello.
Capitolo 12. L’individuo e la tutela internazionale dei diritti dell’uomo
1. Premessa
La tutela dei diritti dell’uomo nella prima metà del ‘900 è ben poca cosa se paragonata
allo sviluppo che i è avuto dopo l’entrata in vigore della Carta delle NU.
La tutela dei diritti umani viene realizzata mediante accordi che disciplinano sia i diritti
che gli stati devono accordare agli individui che si trovino sotto la loro giurisdizione,
sia gli strumenti di garanzia. Numerosi sono anche gli atti di soft law che hanno
successivamente ispirato il contenuto degli accordi internazionali. Non mancano
peraltro norme consuetudinarie e di diritto imperativo poste a tutela dei diritti umani: il
divieto di genocidio è divenuto ius cogens, come affermato dalla ICJ nella
controversia Congo c.
Ruanda del 2006.
2. Le Nazioni Unite
La Carta delle NU contiene alcuni articoli dedicati ai diritti dell’uomo. Vi sono due
disposizioni, gli artt 55-56 NU che sono state alla base degli sviluppi successivi.
Mentre
l’art 55.c NU afferma il rispetto e l’osservanza dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali senza discriminazione, l’art 56 NU obbliga gli stati ad agire,
collettivamente o singolarmente, in cooperazione con l’organizzazione, per
raggiungere i fini stabiliti dall’art 55, tra cui la protezione dei diritti umani. Gli artt 13 e
62 NU attribuiscono all’AG e all’ECOSOC la competenza ad occuparsi delle questioni
relative ai diritti dell’uomo.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’AG nel 1948
rappresenta uno dei primi strumenti (peraltro solo di soft law e quindi non
giuridicamente vincolante) in cui si prendono in considerazione i diritti degli
individui.
Nel 1948 è stata conclusa la Convenzione per la prevenzione e repressione del delitto
di genocidio. Il genocidio è qualificato come un crimine internazionale, tante se commesso
in tempo di guerra quanto in tempo di pace. Affinché un atto possa essere qualificato
come genocidio occorre un elemento materiale (es: l’uccisione di elementi del gruppo)
e un elemento psicologico, cioè l’intenzione di distruggere il gruppo in quanto tale (dolo
specifico).
Va inoltre ricordata: la Convenzione del 1951 relativa allo status del rifugiato, il cui obbligo
più significativo a carico degli stati contraenti è il dovere di non refoulement,cioè
l’obbligo di non respingere il richiedente asilo verso frontiere di uno stato ove la sua
vita o la sua libertà sarebbero minacciate; la Convenzione contro la tortura e altri
trattamenti crudeli, inumani o degradanti (1984).
Uno dei maggiori risultati conseguiti dalle NU è stata la conclusione nel 1966 di due
Patti o Covenants, il Patto sui diritti civili e politici e il Patto sui diritti economici,
sociali e culturali. Essi traducono in gran parte, a livello di norme giuridicamente
vincolanti, le disposizioni contenute nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Mentre i diritti civili e politici sono contenuti in norme generalmente self-executing, quelli
economici, sociali e culturali sono contenuti in norma programmatiche; nei Patti non
sempre tale regola è seguita (es: il diritto di sciopero è un diritto soggettivo perfetto).
L’art 4 del Patto sui diritti civili e politici ammette la deroga dei diritti protetti in caso
di pericolo pubblico eccezionale, anche se vi sono taluni diritti non derogabili, come il
divieto di tortura e di trattamenti inumani (art 7).
L’art 1 dei due patti garantisce il diritto all’autodeterminazione, un diritto spettante solo
ai popoli e non agli individui. Le minoranze trovano una loro tutela all’art 27 ma non
vengono tuttavia attribuiti diritti collettivi: i diritti sono attributi degli individui
appartenenti alla minoranza, che possono esercitarli individualmente o in comune con
gli altri membri del gruppo.
Quanto ai meccanismi di garanzia, è previsto l’invio di rapporti periodici da parte degli
stati parte al Segretario generale delle NU circa l’attuazione dei Patti all’interno degli
ordinamenti statali. Tali rapporti sono esaminati dal Comitato per i diritti economici,
sociali e culturali per l’omonimo patto, e dal Comitato per i diritti dell’uomo per ciò
che concerne il Patto sui diritti civili e politici; entrambi sono organi di individui e non
degli stati. Il Comitato dei diritti dell’uomo stabilisce un meccanismo di controllo più
avanzato: oltre al sistema dei rapporti periodici, è prevista la sua competenza a
esaminare i reclami di uno stato che lamenti la violazione dei diritti dell’uomo da parte
di un altro stato parte del Patto. Il Comitato si mette a disposizione delle parti per
pervenire ad una soluzione
della controversia; se ciò non è possibile il Comitato può istituire con il consenso degli
interessati una Commissione di conciliazione. La procedura dinanzi alla Commissione è
disposta agli artt 41-44 del Patto ed è una procedura opzionale, nel senso che uno
stato parte, per essere obbligato, deve aver espressamente accettato le competenze del
Comitato.
Nel 2006 alla Commissione dei diritti dell’uomo è succeduto il Consiglio dei diritti
umani,
organismo di stati creato con risoluzione dell’AG delle NU.
La Commissione aveva il compito di controllare il rispetto dei diritti umani all’interno
degli stati membri e di esaminare le questioni sollevate al riguardo dagli stati. Poteva
inoltre esaminare reclami di singoli individui nel caso di violazioni massicce di diritti
umani. L’inefficienza dell’organo ha spinto ha creare il Consiglio dei diritti umani. I 47
membri del Consiglio sono eletti dall’AG a scrutinio segreto, ma i seggi vengono
distribuiti secondo il criterio di un’equa ripartizione geografica, il mandato è di tre anni
ed un membro non è immediatamente rieleggibile. La maggioranza è quindi composta
dai paesi afro-asiatici (nonostante la non esemplarità nel rispetto dei diritti umani). Per
essere eletti occorre avere uno standard elevato in materia di diritti umani che dovrà
continuare ad essere osservato, pena la sospensione dal Consiglio con un voto dei
due terzi dei membri presenti e votanti dell’AG delle NU. La sospensione è però uno
strumento conflittuale e raramente viene usato; più percorribile è la non rielezione di
coloro che si siano macchiati di gravi violazioni (serious violation).
Il Consiglio potrà indirizzare raccomandazioni all’AG ma non al Cds che comunque
potrà tenerne conto. Inoltre il Consiglio dovrà riunirsi più frequentemente della
Commissione, e una sessione speciale può essere sempre convocata ad iniziativa di
un membro e con il voto di un terzo dei membri. Da sottolineare la procedura di
esame periodico universale (Universal Periodic Review, UPR): mediante tale procedura il
Consiglio dovrà esaminare lo stato di applicazione dei diritti umani nei 192 membri
delle NU.
3. Il Consiglio d’Europa e la Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti umani e delle libertà fondamentali
Il Consiglio d’Europa è un’organizzazione internazionale nata nel 1949 con il Patto di
Londra. Per diventare membro del CDE occorre essere uno stato europeo e rispettare
i diritti fondamentali. La perdita dello status di membro avviene per recesso o per
espulsione: lo stato che violi i principi dei d.u. viene prima sospeso dal CDE e invitato
a ritirarsi; se non si ritira lo stato viene espulso.
Il CDE si compone di un’Assemblea Consultiva (organo rappresentativo di II
grado); il Comitato dei ministri (composto dai ministri degli esteri degli stati membri); il
Segretario Generale.
Uno dei maggiori risultati del CDE è stata l’adozione della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali entrata in vigore nel 1953.
essa si compone di due parti: nella prima, di natura sostanziale, sono elencati i diritti
garantiti; nella seconda, di natura procedurale vengono stabiliti i meccanismi di
garanzia. Con il tempo la Convenzione ha subito modifiche ed integrazioni. In primo
luogo sono aumentati i diritti garantiti. La tecnica seguita è stata quella di redigere dei
Protocolli
addizionali (l’ultimo è il numero 14). In secondo luogo è stato trasformato il
meccanismo di garanzia: originariamente tale meccanismo era incentrato sulla
Commissione e sulla Corte europea dei diritti dell’uomo; con il Protocollo n.11, entrato
in vigore nel 1998 è stata istituita una corte unica. In terzo luogo è stato generalizzato
il diritto di ricorso individuale, ora esperibile nei confronti di qualsiasi stato parte della
Convenzione.
Possono divenire stati parti della Convenzione solo i membri del Consiglio d’Europa.
La Convenzione istituisce vincoli solidali o obblighi erga omnes (dove gli omnes
sono gli stati parti, quindi vincoli erga omnes partes), con la conseguenza che
ciascun stato parte può presentare un ricorso contro un altro stato parte, che abbia
violato la Convenzione, anche se esso non sia materialmente leso dalla violazione.
Per quanto riguarda l’applicazione della Convenzione, l’art 1 della Convenzione stessa
ammette l’applicazione agli individui, cittadini o stranieri, presenti nel territorio di uno
stato parte, ma anche agli individui su navi o aeromobili battenti la bandiera di uno stato
parte. Nel corso della sua giurisprudenza, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha
affermato che l’applicazione extraterritoriale della Convenzione ha luogo in circostanze
eccezionali, come l’estradizione o l’espulsione in connessione con l’art 3 della
Convenzione (es: se l’individuo corre il rischio di essere sottoposto nello stato ricevente
ad un trattamento inumano o degradante) oppure il controllo effettivo di un territorio (es:
occupazione militare).
I diritti garantiti dalla Convenzione possono essere suddivisi nelle seguenti categorie:
- libertà delle persone fisiche: diritto alla vita (art 2), divieto di trattamenti
inumani e degradanti (art 3),divieto della schiavitù o del lavoro forzato
obbligatorio, diritto alla libertà e alla sicurezza.
- Diritto ad un processo equo: ha per oggetto il diritto alla tutela giurisdizionale e
la regolarità del processo, sia in materia civile che in materia penale. Anche
l’eccessiva lentezza dei processi è considerata come una violazione della
Convenzione. Appartiene a questa categoria di diritti l’art 7 che stabilisce
l’irretroattività dell’azione penale. Da osservare che non costituisce violazione
del principio di irretroattività la condanna per un reato che era considerato un
crimine secondo il diritto internazionale, anche se l’evento non era qualificato
come reato dal diritto interno.
- Libertà di pensiero: libertà di pensiero, coscienza, religione, nonché la
libertà di espressione e informazione.
- Diritto al rispetto della vita privata, familiare, della corrispondenza e
del domicilio
- Protezione dell’attività sociale e politica: sono diritti che hanno per oggetto
la libertà di riunione e di associazione e il diritto a libere elezioni
legislative; il diritto non viene però compreso ma resta salvaguardato dalla
Carta sociale europea.
- Diritto al rispetto dei beni: questo diritto è sancito dall’art 1 del Protocollo
addizionale alla Convenzione (1952). Titolari di tale diritto sono le persone
fisiche e giuridiche; per beni debbono intendersi non solo i beni materiali,
mobili o immobili, ma anche quelli immateriali, come i brevetti o i diritti di
credito. L’art 1 non vieta le espropriazioni, ma la loro legittimità è
assoggettata a determinati requisiti. Un
provvedimento di espropriazione è legittimo se: a) è effettuato per causa di
pubblica utilità; b) avvenga alle condizioni previste dalla legge; c)sia
accompagnato da un indennizzo; d) avvenga in conformità a i principi
generali del diritto internazionale (in riferimento alle nazionalizzazioni di
beni stranieri).
In casi di eventi eccezionali, tassativamente stabiliti, uno stato può sospendere
l’applicazione di taluni diritti (art 15).I casi in questione sono quelli della “guerra” o di
“altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”. La giurisprudenza ha
affermato che tali espressioni “designano…una situazione di crisi o di pericolo
eccezionale e imminente che sovrasta l’insieme della popolazione e costituisce una
minaccia per la vita organizzata della comunità che compone lo Stato”.
Vi è però un nucleo di diritti inderogabili: diritto alla vita, divieto della tortura,
divieto della schiavitù, principio della legalità; (Art 7). Non costituisce una violazione
del diritto alla vita l’uccisione in seguito ad un atto legittimo di belligeranza.
L’art 15 infine impone un obbligo procedurale per lo stato che si avvale di tale deroga.
Questi deve tener informato il Segretario Generale del CDE sulle misure prese e i
motivi che le hanno determinate. La comunicazione della deroga al Segretario
costituisce una condizione necessaria per l’adozione della relativa misura; lo stato
peraltro non deve chiedere alcuna autorizzazione.
4. La Corte europea dei diritti dell’uomo
La Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, si compone di un numero
di giudici uguale a quello degli Stati parti, anche se i giudici sono indipendenti: la Corte è
un organo di individui e non di stati. La Corte funziona in permanenza ed è articolata in
Comitati (3 giudici) Camere (7 giudici) ed una Grande Camera (17 giudici).
I comitati operano come una specie di filtro a livello preliminare per i ricorsi
presentati da individui; il comitato può dichiarare all’unanimità irricevibile il ricorso
individuale, in tal caso la decisione è definitiva. Altrimenti il ricorso individuale
viene esaminato dalla Camera, che si pronuncia sia sulla ricevibilità che sul
merito; qualora si tratti di un ricorso presentato da uno stato l’affare è esaminato
dalla Camera che decide sia sulla ricevibilità sia sul merito.
Una volta dichiarato ricevibile il ricorso la Camera esamina l’affare in contraddittorio fra
le parti, venendo a svolgere un ruolo di conciliazione. Se un’intesa è raggiunta, i termini
della soluzione adottata costituiscono l’oggetto di una decisone e il ricorso è stralciato
dal ruolo. Se invece non si raggiunge una soluzione amichevole la Camera decide nel
merito con sentenza, che diviene effettiva dopo tre mesi dalla sua emanazione, a
meno che l’affare venga portato davanti alla Grande Camera. Ciò può avvenire per
iniziativa della Camera (art 30) o di parte (stato o individuo, art 43), nel caso venga
sollevata una questione relativa all’interpretazione o all’applicazione della
Convenzione di particolare gravità o si corra il rischio di dare una soluzione in
contrasto con la giurisprudenza precedente. La sentenza della Grande Camera è
definitiva.
Secondo l’art 46 della Convenzione, la sentenza definitiva della Corte è obbligatoria.
Lo Stato membro si impegna ad eseguire la sentenza; quest’ultima non ha forza
esecutiva all’interno dell’ordinamento statale; è una sentenza di puro accertamento.
Pertanto lo stato
è in linea di principio libero di scegliere le misure ritenute opportune per dare
esecuzione alle sentenze della Corte.
Recentemente la Corte ha modificato l’indirizzo precedente: essa non si limita a
stabilire se le misure adottate dallo stato parte abbiano violato le disposizioni della
Convenzione, ma indica gli ostacoli che negli ordinamenti interni impediscono di
evitare una violazione della Convenzione, in special modo per quegli ostacoli
legislativi di natura strutturale.
Qualora la Corte constati che ha avuto luogo una violazione della Convenzione e il
diritto interno non consenta di rimediare a tutte le conseguenze dell’illecito, la Corte può
accordare alla parte lesa una “soddisfazione equa”, che consiste in una somma in
denaro; l’ammontare di tale somma è stabilito dalla Corte secondo equità. Ormai è
invalsa la prassi di stabilire, nella stessa sentenza che constata la violazione, la somma
a titolo di soddisfazione.
Spetta al Comitato dei Ministri del CDE sorvegliare l’esecuzione della sentenza. Al
limite, una persistente inesecuzione da parte dello stato soccombente potrebbe
condurre ad una sua sospensione dal CDE, ai sensi dell’art 3 dello Statuto.
Le categorie di ricorsi che possono essere presentati alla Corte sono di due tipi:
individuali e statali. Non è invece attribuita alcuna competenza agli organi del CDE.
I ricorsi individuali
Secondo l’art 34 della Convenzione, il ricorso può essere presentato da una persona
fisica, da una ONG (in cui sono compresi anche i sindacati e le società commerciali) o
gruppo di individui. Condizione per presentare il ricorso è che il ricorrente sia “vittima”
di una violazione della Convenzione da parte dello Stato.
I ricorsi di Stati
Secondo l’art 33 della Convenzione uno stato membro può presentare un ricorso contro
un altro stato membro accusandolo di aver violato la convenzione. Non è necessario
che lo stato si materialmente danneggiato dalla violazione
Condizioni di ricevibilità dei ricorsi
Occorre distinguere tra condizioni comuni ai ricorsi individuali e statali e condizioni che
hanno ad oggetto solo i ricorsi individuali.
La condizione comune ai due ricorsi è l’esaurimento dei ricorsi interni: il ricorrente
deve aver esaurito tutti i gradi di giudizio prima di presentare il ricorso. Questo deve
essere presentato, a termini di decadenza, entro sei mesi dalla data in cui la
decisione interna è definitiva.
Per quanto riguarda le condizioni specifiche ai ricorsi individuali, il ricorso è considerato
irricevibile secondo l’art 35.2 e 35.3 quando: a) è anonimo; b) si tratta dello stesso
ricorso proposto ad un’altra istanza internazionale (es: Comitato dei diritti dell’uomo); c)
non è compatibile con la Convenzione (es: non riguarda uno dei diritti garantiti dalla
Convenzione), è manifestamente infondato o abusivo (es: il ricorso è volto ad infamare
lo stato, o a sollevare artificiosamente una questione).
Alla corte è stata attribuita una nuova competenza: l’adozione di pareri consultivi su
richiesta del Comitato dei Ministri del CDE. I pareri, resi dalla Grande Camera, hanno
ad
oggetto questioni giuridiche relative all’interpretazione della Convenzione e dei suoi
Protocolli.
L’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei d.u. nell’ordinamento italiano
Problematica è la questione dell’esecuzione delle sentenze della Corte europea
negli ordinamenti interni degli Stati parte. Con particolare riferimento all’Italia, le
iniziative legislative, volte a disciplinare organicamente la materia non sono finora
andate a buon fine.
La L. n.12/2006 attribuisce al presidente del consiglio il compito di promuovere gli
adempimenti di competenza governativa conseguenti alle sentenze della Corte europea
dei d.u. emanate nei confronti dell’Italia. In realtà si tratta di ben poca cosa.
Una considerazione a parte merita poi l’esecuzione delle sentenze della Corte europea
che abbiano accertato una violazione delle regole stabilite all’art 6 della Convenzione
in merito al giusto processo. Per poter dare esecuzione alla sentenza, in alcuni casi,
non resta che consentire la revisione della sentenza passata in giudicato.
Di fronte all’inerzia del legislatore, la nostra giurisprudenza ha tenuto in un primo
tempo un atteggiamento conservatore. La Corte di Cassazione ha escluso (sent. 2
agosto 2002, n.11573) che le sentenze della Corte europea abbiano efficacia diretta
nell’ordinamento italiano, negando la diretta vincolatività delle sentenze della Corte
europea dei d.u per il giudice interno. Successivamente però ha dato segni di apertura.
Secondo la Cassazione (sez. I pen., 3 ottobre 2006, n.32678, ric. Somogyi) il combinato
disposto delle L. n.280/2005 di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione del Protocollo
n.14 (non ancora in vigore), e della L. n.12/2006 avrebbero comportato l’obbligo per il
giudice interno di eseguire la sentenza della Corte di Strasburgo anche s ciò dovesse
comportare il riesame o la riapertura del procedimento e la messa in discussione del
principio di intangibilità del giudicato. In un altro pronunciamento (Cass. Sez. I pen., 27
gennaio 2007, n.2800, ric.
Dorigo), la Cassazione ha affermato che il giudice deve considerare inefficace il
titolo esecutivo formatosi in seguito ad un processo dichiarato dalla Corte Europea
dei d.u in contrasto con l’art 6 della Convenzione ed ha disposto la immediata
liberazione del ricorrente. Il nuovo indirizzo giurisprudenziale non può però supplire
all’inerzia del legislatore e non può essere fondato a stretto rigore sulla legge di
esecuzione del Procollo 14 o sulla L. n.12/2006.
Il Protocollo 14
Con l’aumento dei membri del CDE la gestione dei ricorsi è diventata problematica. Il
Protocollo n.14 alla Convenzione Europea dei d.u. rende più snello il sistema di
controllo. Quest’atto entrerà in vigore tre mesi dopo che tutti gli stati della Convenzione
lo avranno ratificato (manca solo la Federazione Russa, il che ne rende incerta l’entrata
in vigore).
Queste le linee essenziali della riforma. Viene istituito il giudice unico: questi può
dichiarare irricevibile il ricorso proposto da individui e la sua decisione è definitiva. In
caso contrario il ricorso è trasmesso a un Comitato o a una Camera. A sua volta il
Comitato, se non respinge il ricorso, può dichiararlo ricevibile e decidere nel merito,
qualora si tratti dei c.d “ricorsi ripetitivi”.
Per i ricorsi individuali viene stabilito un nuovo motivo di irricevibilità: il ricorso viene
dichiarato irricevibile qualora il ricorrente non abbia subito un pregiudizio significativo,
tranne che la salvaguardia dei diritti dell’uomo non richieda un esame nel merito e
purché la questione sia stata adeguatamente esaminata da un tribunale competente.
Viene inoltre potenziato il procedimento conciliativo, poiché una
composizione amichevole della controversia può avvenire in qualsiasi
stadio della procedura.
La procedura di esecuzione delle sentenze viene migliorata mediante l’istituzione di
una sorta di “giudizio per inadempimento”: qualora lo stato soccombente non
adempia, il Comitato dei Ministri del CDE può portare la questione davanti alla
Corte. Se viene constatata la non adempienza la questione viene di nuovo
rimessa al Comitato che deciderà le misure da prendere (espressamente
indicate nel Protocollo).
Da notare infine, che è stata inserita una clausola ad hoc per consentire all’UE l’adesione
alla Convezione europea dei d.u.
5. L’unione Europea
La tutela dei d.u. nell’ordinamento comunitario si è affermata in via giurisprudenziale
ed è stata successivamente consacrata nelle disposizioni convenzionali.
Il Trattato di Maastricht sull’UE (art 6.2) ha stabilito che l’Unione rispetta i
seguenti diritti fondamentali: a) quelli garantiti dalla Convenzione europea sui diritti
del’uomo; b) quali risultano dalle tradizioni costituzionali degli stati membri, in
quanto principi generali del diritto comunitario.
L’art 6.1 del Trattato di Amsterdam stabilisce che “l’Unione Europea si fonda sui
principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
e dello stato di diritto”. Tra l’altro, il rispetto dei principi così stabiliti costituisce uno dei
prerequisiti per l’adesione del nuovo stato all’UE (art 49 Trattato UE); inoltre la
violazione grave e persistente di tali principi può essere causa di sospensione di
alcuni diritti connessi alla qualità di membro dell’Unione. Il Trattato di Amsterdam (art
136) fa riferimento ai diritti sociali fondamentali quali risultano dalla Carta sociale
europea (1961) e dalla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori
(1968). Con il trattato di Maastricht, la competenza della corte di giustizia delle
comunità europee si è estesa alla tutela dei diritti dell’uomo, ma soltanto in relazione
alle attività delle istituzioni e non a quelle degli stati membri. Tale ripartizione
dovrebbe essere idonea a scongiurare eventuali conflitti di competenza tra Corte di
giustizia e Corte europea dei diritti dell’uomo. Sennonché la suddetta corte si è
dichiarata competenze a giudicare dei provvedimenti interni attuativi di atti comunitari,
contrari alla Convenzione europea dei
d.u. peraltro la Corte europea dei d.u. ha affermato che l’ordinamento comunitario
garantisce una protezione dei diritti fondamentali equivalente a quella stabilita dalla
Convenzione europea dei d.u.
Parlamento europeo, Consiglio e Commissione hanno proclamato solennemente nel 2000
la Carta dei diritti fondamentali del’UE (adattata nel 2007) che contiene un catalogo
esteso di diritti civili, politici economici e sociali. Il trattato di Lisbona del 2007 non
incorpora la Carta ma attribuisce ad essa lo stesso valore dei trattati comunitari. Inoltre
dispone che l’UE aderisca alla Convenzione europea dei d.u.
6. L’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (OSCE)
Le fondamenta e gli atti dell’OSCE poggiano su strumenti di soft law, in particolare
l’Atto Finale della CSCE di Helsinki del 1975. il sistema di protezione dei diritti
dell’uomo nell’OSCE merita una disamina mediante una descrizione degli strumenti e
delle misure previste.
La dimensione umana
Nel sistema OSCE la tutela dei d.u. si configura come dimensione umana. Questa
espressione attualmente è più ampia di quella di “diritti dell’uomo” poiché è
applicabile non solo ai diritti dell’uomo in senso stretto (rapporti tra individuo e stato),
ma anche ai rapporti tra le istituzioni: nozione di democrazia, istituzioni democratiche
e stato di diritto. Il catalogo dei diritti attribuiti nel quadro della dimensione umana è
contenuto nel Documento di Copenaghen (1990), che elenca anche i diritti da
accordare alle minoranze. La nozione di dimensione umana è ormai indipendente da
quella dei diritti umani, infatti:
- la nozione di dimensione umana è più ampia
- gli impegni OSCE sono di natura politica, mentre i diritti dell’uomo sono
tutelati a livello giuridicamente vincolante
- gi impegni OSCE divengono (politicamente) vincolanti per gli stati non
appena il documento è stato adottato; non c’è bisogno di ratifica e si evita il
relativismo convenzionale
- gli impegni OSCE non comportano un processo formale di esecuzione
negli ordinamenti interni, a differenza dei trattati in materia di d.u.
- la dimensione umana è da inquadrare nel concetto di sicurezza cooperativa
- gli individui, nel quadro OSCE, non possono mettere in moto meccanismi di
tutela dei loro diritti; i meccanismi restano a livello interstatale
- nel quadro OSCE non si applica il meccanismo del previo esaurimento dei
ricorsi interni
esistono peraltro delle similitudini tra dimensione umana e diritti umani: i diritti vengono
tutelati mediante appositi meccanismi di garanzia; le questioni relative alla dimensione
umana così come quelle relative ai d.u. non fanno parte del dominio riservato degli
stati.
Il meccanismo della dimensione umana
È una procedura volta ad assicurare il rispetto delle disposizioni sui d.u. contenute nei
documenti OSCE. Il meccanismo si articola in 4 fasi: denuncia dell’inosservanza da
parte di uno stato partecipante nei confronti di un altro; risposta dello stato richiesto e
eventuale incontro a livello bilaterale; trasmissione della questione all’attenzione di
tutti gli stati partecipanti; discussione della questione in occasione delle riunione della
Conferenza sulla dimensione umana dell’OSCE. L’individuo non ha alcun potere di
azionare il meccanismo. Con la riunione di Mosca sulla dimensione umana dell’OSCE
(1991) la procedura è stata perfezionata mediante la partecipazione del “terzo”, cioè
di esperti e raporteurs, al meccanismo e la previsione che il suo intervento diventi
obbligatorio.
Ma ormai il meccanismo ha perso di importanza, con l’istituzione del Consiglio
Permanente.
L’Alto commissario per le minoranze nazionali
Alla conferenza al vertice di Helsinki del 1992 si è creato l’ufficio di Alto Commissario
per Minoranze Nazionali, allo scopo di far fronte ai nuovi compiti richiesti dalla mutata
situazione internazionale del contesto europeo.
L’Alto commissario, che ha sede all’Aja, è nominato per consensus dal Consiglio dei
Ministri ed ha una funzione indipendente e dinamica. Le sue funzioni consistono nel
preallarme e nell’azione preventiva di conflitti. Egli interviene (con il consenso dello
stato territoriale) quando le tensioni legate alle questioni minoritarie minacciano la pace
e la sicurezza internazionale. Non interviene in relazione a casi individuali ma solo
quando vi siano tensioni coinvolgenti una minoranza nazionale; deve pure astenersi
quando il conflitto armato comporti la commissione di atti organizzati di terrorismo.
Nella prassi il ruolo dell’Alto commissario si è trasformato, nel senso che svolge un
ruolo di mediatore e non si limita a redigere rapporti.
La Corte di arbitrato e conciliazione
È stata istituita dalla Convenzione di Stoccolma del 1992 ma non tutti gli stati
dell’OSCE vi hanno aderito. La sua competenza ha per oggetto le controversie che
possano insorgere tra gli stati membri dell’OSCE, incluse quelle relative alla tutela dei
d.u. Mentre la corte di arbitrato applica solo il diritto internazionale, quella di
conciliazione applica anche gli impegni OSCE. Esiste un raccordo tra conciliazione e
organi politici dell’OSCE: se le parti non accettano il rapporto della commissione di
conciliazione, questo è trasmesso al Consiglio ministeriale dell’OSCE. La corte
d’arbitrato non ha il potere di emettere pareri consultivi.
Le missioni di lunga durata
Le missioni di lunga durata sono una creazione della prassi. Mandato,
consistenza e durata sono stabiliti dagli organi politici dell’OSCE. Esse possono
avere compiti molteplici, dal monitoraggio del peace-keeping alla sorveglianza
sull’attuazione delle disposizioni sui d.u.
7. Il principio di autodeterminazione dei popoli
Si è soliti distinguere tra autodeterminazione interna ed esterna. Mentre
l’autodeterminazione interna conferisce ad ogni popolo il diritto di avere un
ordinamento rappresentativo e democratico (ed investe i rapporti tra popolo e
organizzazione statale), l’autodeterminazione esterna comporta il diritto di ogni
popolo ad avere la forma statale che desidera nell’ambito della comunità
internazionale. Vi sono tre modi per la sua realizzazione: la nascita di uno stato
indipendente; la libera associazione ad uno stato indipendente, l’integrazione in uno
stato indipendente. La ris. 2625 (XXV) dell’AG delle NU ha aggiunto anche
l’acquisizione di ogni altro status politico liberamente deciso dal popolo. In
particolare l’integrazione, come ha precisato la ICJ, deve essere il risultato della
volontà del popolo liberamente espressa mediante un procedimento democratico
imparziale condotto tramite suffragio universale.
Buona parte della dottrina considera il principio di autodeterminazione come
appartenente allo ius cogens. La ICJ ha affermato che esso è uno dei principi
essenziali di diritto internazionale e ne ha statuito la natura di norma istitutiva
obblighi erga omnes.
Il principio dell’integrità territoriale, come eccezione al principio di autodeterminazione
è affermato dal par.7 della ris.2625-XXV; eguali considerazioni valgono per la Carta di
Parigi del 1990 adottata nel quadro OSCE. Il diritto internazionale quindi non favorisce
la secessione, anzi ammette che il governo al potere possa reprimere un movimento
secessionista. Tuttavia se la secessione ha luogo essa non è indifferente per il diritto
internazionale. Gli insorti debbono svolgere le loro operazioni belliche in conformità
del diritto umanitario; al territorio oggetto della secessione,una volta acquisita
l’indipendenza, si applica il principio dell’uti possidetis.
Il principio di autodeterminazione dei popoli è caratterizzato da irretroattività,
Universalità e permanenza. Come si desume dall’art 1 dei due Patti delle NU del
1966, il principio di autodeterminazione ha portata universale, nel senso che si applica
a tutti i popoli e non solo a quelli sotto dominazione coloniale. Ha carattere
permanente nel senso che non si consuma una volta esercitato.
Inteso come audeterminazione esterna, l’autodeterminazione è un diritto che fa a capo
innanzitutto ai popoli dotto dominazione coloniale o razzista e che si trovano in una
situazione assimilabile a un regime coloniale. In uno stato federale, in cui coesistono
più popoli, l’autodeterminazione, anche in senso esterno, può essere esercitata da quel
popolo che sia discriminato per razza, credo o colore, e non si senta quindi
rappresentato dal governo al potere.
Le minoranze non sono “popoli” e non sono titolari di un diritto
all’autodeterminazione esterna. Per le minoranze la dimensione interna
dell’autodeterminazione può attuarsi mediante la concessione dell’autonomia. La
tematica dei popoli indigeni stanziati in stati indipendenti è da inquadrare nell’ambito
della protezione delle minoranze piuttosto che in quella dell’autodeterminazione. A
questo proposito il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU è riuscito ad adottare una
Dichiarazione nel 2006 (con il voto contrario di Canada e Federazione Russa).
Questa dichiarazione riconosce ai popoli indigeni il diritto all’autodeterminazione
precisando tuttavia che la sua attuazione comporta l’autonomia e l’autogoverno. Ad una
simile conclusione è giunta la Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni adottata
dall’AG nel 2007.
Il principio di autodeterminazione dei popoli, ponendo limiti alla condotta degli stati,
protegge quei popoli stanziati in stati che vivono in una situazione di anarchia dove non
esiste un governo effettivo che abbia autorità sull’intero paese (es: Somalia).
In relazione all’uso della forza, anche se questo è conforme alle NU (es: legittima
difesa), il popolo il cui stato sia stato debellato resta al riparo dall’annessione da parte
del vincitore grazie al principio di autodeterminazione.
8. I crimini internazionali
vengono definiti crimini internazionali attività individuali lesive di beni particolarmente
protetti dal diritto internazionale. La gravità della lesione è tale che essa arreca un
grave pregiudizio all’intera comunità internazionale, con la conseguenza che tutti gli
stati
membri sono in linea di principio interessati alla repressione dei crimini internazionali. Si
pensi alle violazioni di vincoli istituiti da norme istitutive di obblighi erga omnes.
Gli atti lesivi, anche quando siano compiuti da individui organi e quindi
ulteriormente imputabili a uno stato restano in qualche modo propri degli individui
che li hanno commessi: viene cioè meno la c.d. immunità funzionale; tale principio
è espressamente sancito dallo statuto della CPI.
L’attuale distinzione dei crimini internazionali va fatta risalire all’Accordo di Londra del
1945, istitutivo del tribunale di Norimberga. Esso distingueva in: crimini contro la pace;
crimini di guerra; crimini contro l’umanità. Tale distinzione ha trovato conferma nella
prassi, sebbene le figure criminose previste siano notevolmente accresciute.
Appartiene alla categoria dei crimini contro la pace l’aggressione: attualmente la sua
definizione può essere rintracciata nella risoluzione 3314-XXIX dell’AG: “costituisce
aggressione l’uso della forza armata da parte di uno stato contro la sovranità, integrità
territoriale o indipendenza politica di un altro stato o in qualunque maniera
incompatibile con la Carta delle NU”. Va ricordato che la determinazione circa la
commissione di un atto di aggressione spetta, a norma dell’art 39 NU, al Cds e che la
definizione adottata dall’AG serve solo da guida al Cds.
L’aggressione è uno dei crimini rientranti nella competenza giurisdizionale della CPI, ma
essa potrà esercitare la sua giurisdizione solo quando il crimine sarà stato definito
mediante la procedura di emendamento dello statuto.
I crimini di guerra consistono in violazioni gravi delle leggi e delle consuetudini di
guerra: deve trattarsi cioè di una lesione particolarmente grave di beni protetti dal
diritto bellico, che può avere ad oggetto sia norme che disciplinano la condotta delle
ostilità (es: uso di armi vietate) sia norma a carattere umanitario (es: la presa di
ostaggi). Un elenco di crimini di guerra si può trovare all’art 6 dell’Accordo di Londra
del 1948. più precise sono sul punto le Convenzioni di Ginevra del 1949 e il I
Protocollo addizionale del 1977. Le Convenzioni identificano come infrazioni gravi gli
atti commessi contro le persone protette che sono sotto il potere del nemico: malati,
prigionieri, naufraghi, civili dei territori occupati. Il I protocollo definisce come crimini di
guerra sia le violazioni commesse ai danni di persone cadute nelle mani del nemico
sia le gravi violazioni commesse sul campo di battaglia.
Tradizionalmente i crimini di guerra erano crimini internazionali tipici dei conflitti armati
internazionali. Oggi è un fatto acquisito che essi possano essere compiuti anche in
caso di un conflitto interno, come si evince dalla giurisprudenza del Tribunale ad hoc
per la ex- Jugoslavia.
Un elenco dei crimini contro l’umanità è contenuto nell’art 6 dell’Accordo di
Londra. Sono citati come tali lo sterminio o la riduzione di popolazioni in
schiavitù. Tali crimini venivano dichiarati punibili in quanto fossero perpetrati in
esecuzione a crimini di guerra e dei crimini contro la pace. Oggi i crimini contro
l’umanità hanno assunto un’autonoma configurazione nell’ordinamento
internazionale (come si deduce dallo statuto del Tribunale per il Ruanda).
Appartiene sicuramente a questa categoria il genocidio, come asserito dalla Convenzione
sull’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità del 1968,benché negli statuti dei
tribunali penali internazionali tale crimine sia tenuto distinto.
Gli statuti dei due tribunali ad hoc indicano una serie di atti (omicidio, sterminio,
riduzione in schiavitù, espulsione, imprigionamento, tortura, stupro, persecuzione per
ragioni politiche, razziali e religiose, altri atti inumani) che costituiscono crimini contro
l’umanità qualora siano diretti contro la popolazione civile. Deve trattarsi di atti
compiuti su vasta scala ed in maniera diffusa, che coinvolgono una pluralità di autori e
di vittime. Tra i crimini contro l’umanità viene anche fatto rientrare la pirateria iuris
gentium, la cui definizione può essere trovata all’art 101 della Convenzione delle NU
sul diritto del mare del 1982.
Controverso è se il terrorismo possa essere considerato come crimine internazionale;
manca infatti a livello di diritto convenzionale una definizione generale di terrorismo.
Uno dei punti più controversi riguarda lo status dei movimenti di liberazione nazionale e
il ricorso alla violenza nei territori sotto occupazione, che i paesi afro-asiatici non
intendono qualificare tra gli atti di terrorismo.
Capitolo 14. La responsabilità internazionale.
1. Premessa
Con il termine di responsabilità internazionale si indicano le relazioni giuridiche
che vengono ad esistere come conseguenza della commissione del fatto illecito. Tali
relazioni consistono di regola in un rapporto giuridico tra lo stato autore dell’illecito e
lo stato leso: il primo ha l’obbligo di effettuare la riparazione, il secondo il diritto di
pretenderla. Lo stato leso ha anche il diritto di comminare una contromisura
(rappresaglia) nei confronti dello stato autore dell’illecito; tale diritto sorge al
momento in cui l’illecito è commesso.
A seconda della norma violata, il comportamento può essere dovuto nei confronti di
una pluralità di soggetti o perfino della comunità internazionale nel suo insieme.
In diritto internazionale non si ha la distinzione tra responsabilità civile e penale: la
responsabilità è unica.
La responsabilità internazionale degli stati è disciplinata dal diritto internazionale
consuetudinario. Nel 1949 la responsabilità internazionale fu inserita nella lista dei
temi della CDI. I lavori che condussero al progetto attuale acquistarono particolare
vigore a partire dal 1969. Nel 1997, la CDI, su indicazione degli stati, decise di
snellire il progetto, eliminando alcune norme. Il progetto fu approvato e adottato il 9
agosto 2001. L’AG si è limitata a “prendere nota” del progetto di articoli, cosicché
questo rimane in una sorta di limbo. Tuttavia alcune disposizioni sono state
considerate dalla ICJ come dichiarative del diritto internazionale consuetudinario.
2. Gli elementi costitutivi del fatto illecito
Secondo l’art 2 del Progetto, gli elementi costituivi del fatto illecito sono due e
consistono in un elemento oggettivo, ovvero la violazione della norma, e in un
elemento soggettivo cioè
l’attribuzione della condotta ad uno stato. Non rientrano nella definizione né il danno né la
colpa.
Il danno, inteso come pregiudizio materiale o morale conseguente alla violazione
della norma è espressamente escluso come elemento costitutivo del fatto illecito. Vi
sono casi in cui la violazione della norma non arreca un danno materiale o morale ad
uno stato (es: la violazione dei d.u. da parte di uno stato nei confronti dei propri
sudditi). È difficile dire quanto questa concezione sia aderente al diritto
consuetudinario.
Anche la colpa, comprensiva sia del dolo che della colpa in senso stretto (omissione
delle misure necessarie per evitare il prodursi dell’evento) non rientra tra gli elementi
costitutivi del fatto illecito. Il Progetto è orientato verso un regime di responsabilità
oggettiva; l’assenza di colpa viene in considerazione nel progetto proprio quando si
elencano le cause di esclusione del fatto illecito, in special modo la forza maggiore.
Diverso è il caso in cui sia la stessa norma a richiedere per la sua violazione
l’esistenza della colpa.
Tornando all’elemento soggettivo, è innanzitutto imputabile allo stato la condotta di un
suo organo (art 4 [Link]); si considerano non solo gli organi del potere esecutivo, ma
anche quelli del legislativo e giudiziario. È inoltre irrilevante la posizione dell’organo
nell’organizzazione dello stato, in particolare la sua natura di organo del governo
centrale o di unità territoriale dello stato. La ICJ nella sentenza nel caso di Genocidio
ha stabilito che, ai fini della responsabilità internazionale, è possibile equiparare a
organi dello stato anche persone che non hanno tale qualifica secondo il diritto interno,
ma occorre dimostrare che lo stato ritenuto responsabile eserciti su di esse un
significativo grado di controllo, sottoponendoli ad una completa dipendenza.
Di regola la condotta di semplici individui non è imputabile allo stato; diverso è il caso
in cui la condotta dell’individuo vena fatta propria dagli organi dello stato (come
accaduto nell’affare degli ostaggi a Teheran). In tal caso lo stato risponde
direttamente della condotta dell’individuo; lo stesso è da dirsi nel caso in cui l’individuo
si comporta in fatto come un organo statale poiché agisce su istruzione o sotto la
direzione o il controllo dello stato. La CDI ha optato per la teoria secondo cui il
controllo deve essere effettivamente esercitato su ogni specifico atto lesivo,
prospettata dalla ICJ nel caso Nicaragua c. USA, ripudiando la tesi del controllo
globale, secondo cui è sufficiente un controllo generale sul comportamento del gruppo
di individui affinché la condotta sia imputabile a uno stato.
Azioni commesse da privati individui a danno di individui od organi stranieri non
impegnano la responsabilità dello stato, tranne che lo stato tolleri o sia complice del
comportamento dei privati: in tal caso lo stato non risponde direttamente dell’azione
individuale ma del proprio comportamento omissivo.
Qualora un organo sia posto a disposizione di un altro stato, la sua condotta sarà
imputabile allo stato a disposizione del quale è posto (es: i consiglieri militari); ciò
non vale invece per un organo di un’organizzazione internazionale, del cui
comportamento ne risponderà l’organizzazione.
Se l’organo agisce ultra vires, cioè al di fuori delle istruzioni ricevute o commette un
abuso di potere, la CDI ha sposato la teoria dell’apparenza ed ha attribuito allo stato il
comportamento dell’organo che abbia agito eccedendo i propri poteri, purché abbia
agito nella sua qualità di organo.
Lo stato non risponde dei danni provocati dagli insorti; qualora l’insurrezione sia
vittoriosa ne risponderà il nuovo governo.
L’elemento oggettivo del fatto illecito consiste in una condotta omissiva o
commissiva, contraria ad una norma di diritto internazionale. Non rileva a questo
riguardo la natura della norma violata. Quello che importa è che la norma sia in
vigore per lo stato al momento in cui la condotta è stata posta in essere, in base al
principio tempus regit actum. La CDI ha distinto tra illecito istantaneo e illecito
continuato. Nell’illecito istantaneo la violazione si produce nel momento in cui l’atto è
compiuto; nell’illecito continuato, la violazione si estende per tutto il periodo durante
il quale perdura la condotta contraria al diritto internazionale (es: una occupazione
illegale). Tale distinzione è utile soprattutto in relazione all’obbligo di cessazione
dell’illecito e all’entità della riparazione.
Si può infine distinguere tra obbligo di condotta, in cui la violazione si perfeziona nel
momento in cui il comportamento dovuto non sia posto in essere e obbligo di risultato
in cui la violazione si perfeziona solo se il risultato voluto dalla norma non venga
conseguito. Qualora il conseguimento di tale risultato sia possibile mediante un
comportamento successivo la violazione ha luogo solo se mediante il comportamento
successivo non viene assicurato il risultato richiesto dall’obbligo.
3. La responsabilità indiretta e la partecipazione nell’illecito altrui
si intende per responsabilità indiretta la responsabilità dello Stato per un’azione od
omissione commessa da un altro stato in violazione del diritto internazionale. Si è
quindi in presenza di tre soggetti: lo stato leso, lo stato che ha materialmente
compiuto l’illecito e lo stato che è ritenuto responsabile.
La CDI ha elencato tre fattispecie della responsabilità indiretta: a) aiuto o assistenza
nella commissione dell’illecito (es: la stato facilita il rapimento di persone), lo stato
cioè non è responsabile della violazione commessa dal secondo stato in quanto non
vi ha preso parte;
b) direzione e controllo nella commissione dell’illecito (es: le forze del governo di uno
stato la cui effettività dipende dallo stato presente militarmente sul territorio,
commettono un crimine internazionale); c) coercizione a commettere l’illecito,
trattandosi di coercizione armata ma anche economica.
4. Le cause di esclusione del fatto illecito
Le cause di esclusione del fatto illecito possono essere invocate per evitare la
responsabilità internazionale conseguente ad una violazione: l’azione del soggetto è di
per sé contraria al diritto internazionale, tuttavia interviene una circostanza che ne
esclude la illiceità. Queste circostanze non possono essere invocate per escludere
l’illiceità di un atto contrario ad una norma di ius cogens. Inoltre la circostanza
funziona come esimente e quindi non libera dal dovere di osservare l’obbligo violato,
non appena la circostanza venga meno.
Nel progetto della CDI le cause di esclusione del fatto illecito sono le seguenti.
Il consenso dell’avente diritto (art 20): è una causa di esclusione anche nel diritto
interno secondo il principio volenti non fit iniuria; si tratta di una causa di esclusione
del fatto illecito operante in relazione a qualsiasi violazione del diritto internazionale,
ad esclusione dello ius cogens (vedi dopo).
Legittima difesa (art 21),(vedi dopo).
Le contromisure (art 22) sono atti in sé illeciti, che divengono leciti come reazione
all’illecito compiuto dallo stato nei cui confronti sono comminate. A titolo di
contromisura può essere effettuata la stessa violazione commessa dallo stato contro
cui si reagisce oppure una violazione diversa. Nella prassi meno recente si utilizzava il
termine rappresaglia, distinguendo tra rappresaglie comportanti l’uso della forza armata
rappresaglie comportanti misure diverse. Attualmente le contromisure comportanti l’uso
della forza armata sono proibite (vedi dopo). La contromisura è distinta dalla ritorsione:
questa è un atto inamichevole (es: rottura relazioni diplomatiche e commerciali) che
non comporta una violazione del diritto.
La forza maggiore (art 23) è una causa di esclusione del fatto illecito presente in molti
ordinamenti interni. L’atto dovuto a forza maggiore deve essere la conseguenza del
sopravvenire ad una forza irresistibile o di un avvenimento imprevedibile che rende
materialmente impossibile agire in conformità dell’obbligo. Questa definizione
ricomprende la fattispecie del caso fortuito (“avvenimento imprevedibile”).
La forza maggiore è talvolta riconosciuta come esimente dalla stessa norma di diritto
internazionale che prescrive un dato comportamento (es: la nave in passaggio
inoffensivo nel mare territoriale può fermarsi per cause di forza maggiore o estremo
pericolo art 18.2 Convenzione NU sul diritto del mare). L’esimente della forza
maggiore non può essere invocata qualora la situazione sia dovuta al
comportamento dello stato che la invoca oppure nel caso in cui lo stato abbia
accettato il rischio che quella situazione si verificasse.
L’estremo pericolo (art 24) costituisce causa di esclusione del fatto illecito qualora
l’autore della violazione non aveva a disposizione altro mezzo per “salvare la propria
vita o quella di persone affidate alle sue cure” (es: art 18.2 prima citato). L’esimente
non può essere invocata qualora la situazione sia dovuta allo stato che la invoca o se
l’atto posto in essere sia suscettibile di creare un pericolo ancora più grave.
Lo stato di necessità (art 25) è considerato come causa di esclusione del fatto illecito
dalla giurisprudenza internazionale; anche recentemente la ICJ si è pronunciata per la
sua positiva esistenza.
Nello stato di necessità si agisce contro uno stato che non ha commesso alcun illecito
internazionale; secondo la CDI devono sussistere due condizioni: a) l’atto necessitato deve
essere il solo mezzo per salvaguardare un interesse essenziale di fronte ad un pericolo
grave e imminente; b) l’atto necessitato non deve compromettere gravemente un interesse
essenziale dello stato o degli stati nei cui confronti l’obbligo è dovuto o della comunità
internazionale nel suo insieme. Lo stato di necessità non può essere invocato se la
stessa
norma della cui violazione si tratta lo esclude oppure se lo stato che lo invoca ha
contribuito al verificarsi della situazione necessitata.
L’interesse invocato per giustificare l’azione necessitata deve essere essenziale,
riguardante cioè l’esistenza stessa dello stato, ma anche di un interesse della
Comunità internazionale: l’art 25 non specifica infatti la titolarità dell’interesse.
L’emergenza economica, come causa di esclusione del fatto illecito, può essere
ammessa in linea di principio, purché sia assoggettata alle condizioni dettate
dall’art 25.
5. Le conseguenze del fatto illecito
Tradizionalmente le conseguenze del fatto illecito consistevano nell’obbligo
dell’autore di effettuare la riparazione e nel diritto dello stato leso di comminare una
contromisura (rappresaglia).
Con il nuovo progetto della CDI, oltre alla persistenza del dovere, per l’autore
dell’illecito, di conformarsi all’obbligo violato, le conseguenze derivanti dall’illecito
sono:
a) Cessazione dell’illecito: si tratta di un obbligo che viene in considerazione in
un illecito a carattere continuato. Si può fare l’esempio dell’obbligo di liberare
il personale diplomatico e consolare detenuto in ostaggio a Teheran, come
stabilito dalla ICJ.
b) Assicurazioni e garanzie di non reiterazione: tale obbligo è considerato come
appartenente al diritto consuetudinario dalla ICJ. L’obbligo sussiste qualora
permanga il rischio di una reiterazione dell’illecito; misure appropriate possono
consistere nell’abrogazione di una legislazione contraria al diritto
internazionale oppure in misure più drastiche, come il disarmo dello stato
aggressore. Quanto alla distinzione fra assicurazioni e garanzie la CDI, nel
commentario, afferma che le prime possano anche essere verbali, mentre le
seconde postulino misure più concrete.
c) Riparazione: lo stato che ha subito il torto ha il diritto di ottenere dallo stato che
ha commesso l’illecito una riparazione integrale per il pregiudizio subito (art 31
[Link]); deve essere riparato ogni danno, sia materiale che morale. Non rileva
neppure il diritto interno dell’autore dell’illecito, che non può essere invocato per
giustificare in tutto o in parte il mancato adempimento dell’obbligo di riparazione
integrale. Ovviamente deve sussistere un nesso di causalità tra l’illecito e il
danno, nel senso che il secondo deve essere conseguenza del primo. La
riparazione può assumere la forma di restituzione, risarcimento o soddisfazione,
anche in forma combinata tra loro. In linea di principio spetta allo stato leso
scegliere tra le differenti modalità di riparazione. La restituzione è la classica
forma di riparazione, com’è statuito nella giurisprudenza internazionale; nella
restituzione si deve ristabilire lo status quo ante, cioè occorre ripristinare la
situazione esistente prima che l’illecito fosse stato commesso. L’obbligo non
può essere seguito quando la restituzione sia materialmente impossibile oppure
essa comporti un onere sproporzionato rispetto al beneficio derivante dalla
restituzione a paragone di quello che deriverebbe dal risarcimento (non è certo
che il principio di proporzionalità nella restituzione sia conforme al diritto
consuetudinario). Il risarcimento è dovuto quando la restituzione non sia
materialmente possibile o quando la restituzione non
riesca a riparare completamente il danno. La somma a titolo di risarcimento
dovrà coprire ogni danno suscettibile di valutazione economica, quindi tanto il
danno emergente quanto il lucro cessante. La soddisfazione è in genere una
forma di riparazione di quella categoria di illeciti che provocano danni,
generalmente di natura morale, non quantificabili (es: offesa alla dignità, al
prestigio e all’onore dello stato). Essa è dovuta quando l’illecito non può
essere riparato mediante restituzione o risarcimento, e può consistere in una
manifestazione di rincrescimento, scuse formali, riconoscimento della
violazione, o il versamento di una somma simbolica di denaro o la punizione
degli individui materialmente responsabili. L’art 37.3 stabilisce che la
soddisfazione non può essere sproporzionata rispetto al pregiudizio subito e
non può assumere una forma umiliante per l’autore dell’illecito.
6. Le contromisure come rimedio per ottenere l’adempimento degli
obblighi derivanti dall’illecito.
La commissione del fatto illecito fa sorgere in capo al soggetto leso il potere di
comminare una contromisura nei confronti dell’offensore. La contromisura consiste
nella violazione, da parte dello stato offeso, di un obbligo di natura consuetudinaria o
pattizia, che questi deve nei confronti dello stato offensore, come reazione all’illecito
compiuto da questo secondo stato. La contromisura tuttavia non ha un carattere
afflittivo, volto a punire l’offensore o a dissuaderlo dal commettere di nuovo l’illecito.
Da ciò deriva che non possono essere adottate contromisure che comportino l’uso
della forza armata, e che la contromisura ha lo scopo di ottenere l’adempimento degli
obblighi derivanti dall’illecito e, in particolare, la riparazione. Perciò le contromisure,
non essendo volte alla punizione, devono avere natura temporanea ed essere per
quanto possibile reversibili nei loro effetti, allo scopo di non pregiudicare
definitivamente le relazioni fra gli stati.
Prima di comminare una contromisura, lo stato leso deve invitare l’offensore ad
adempiere ai propri obblighi e comunicargli le contromisure che intende
intraprendere, offrendogli al tempo stesso di negoziare; si deve cioè tentare di
risolvere pacificamente la controversia (fatto riconosciuto come appartenente alla
consuetudine internazionale dalla ICJ). Ciò non toglie che in caso di urgenza lo stato
leso possa prendere delle contromisure per salvaguardare i propri diritti.
Le contromisure devono obbedire al principio di proporzionalità (anch’esso riconosciuto
dalla ICJ come principio conforme al diritto consuetudinario). Le contromisure devono
essere sospese qualora l’atto illecito sia cessato e la controversia penda davanti ad
una corte o un tribunale arbitrale. Le contromisure hanno poi un termine finale, nel
senso che debbono cessare nel momento in cui l’autore dell’illecito abbia adempiuto
agli obblighi che gli incombono.
L’art 50 [Link] elenca una serie di contromisure vietate. Esse non possono:
- violare l’obbligo di astenersi dalla minaccia e dall’uso della forza (art 2.4 NU).
- Pregiudicare gli obblighi di tutela dei d.u. fondamentali.
- Pregiudicare gli obblighi di carattere umanitario che vietano le
rappresaglie (convenzioni di Ginevra del 1949 e I Protocollo
addizionale del 1977)
- Essere contrarie a norme imperative del diritto internazionale.
- Ledere gli obblighi connessi all’inviolabilità di agenti, locali, archivi e
documenti diplomatici e consolari.
7. La distinzione fra crimini dello stato e delitti
Nel primo progetto della CDI tale distinzione era fondata sulla natura dell’obbligo
violato. Il crimine internazionale veniva definito come “un atto internazionalmente
illecito, che risulta dalla violazione da parte di uno stato di un obbligo internazionale
tanto essenziale per la protezione di interessi fondamentali della comunità
internazionale che la sua violazione è riconosciuta come un crimine da tale volontà nel
suo insieme”. Tra i crimini internazionali venivano citati: l’aggressione, l’istituzione o il
mantenimento di una dominazione coloniale; la schiavitù, il genocidio , l’apartheid;
l’inquinamento massiccio dell’atmosfera o dei mari.
Nel progetto definitivo la distinzione fra crimini internazionali e semplici delitti è
scomparsa. È stata introdotta la nozione di violazione grave di obblighi derivanti da
una norma imperativa del diritto internazionale. Per essere grave la violazione deve
essere commessa su larga scala (gross violation) o attuata in modo sistematico, cioè
organizzato e deliberato. Oltre alle normali conseguenze dell’illecito, l’art 41 [Link]
stabilisce a carico degli stati un dovere di cooperazione per porre fine con mezzi
leciti, alla violazione grave e l’obbligo di non riconoscere come legittima la situazione
creata dalla violazione grave.
Questo secondo obbligo è certamente conforme al diritto consuetudinario. Inoltre gli
stati non dovrebbero prestare assistenza o aiuto per mantenere tale situazione.
8. La nozione di stato leso e il diritto di invocare la
responsabilità internazionale
In linea di principio solo lo stato leso ha diritto di invocare la responsabilità
internazionale. Tale principio deve però essere rivisitato alla luce del riconoscimento
dell’esistenza di norme internazionali valide erga omnes. In questo caso infatti la
violazione da parte di uno stato rileva nei confronti di tutta la comunità internazionale.
In tal caso si potrà fare una distinzione fra lo stato specificamente leso e gli stati che
hanno solo un interesse giuridico al rispetto della norma violata. Una distinzione cioè
tra interesse giuridico al rispetto di un diritto (in senso soggettivo) e interesse giuridico
al rispetto del diritto (in senso oggettivo). Vi sono casi in cui è impossibile individuare
uno stato immediatamente leso, come quando è violato un trattato sui diritti umani: in
tal caso viene in considerazione solo l’interesse giuridico degli stati al rispetto del
diritto.
La CDI ha tenuto conto di questa evoluzione distinguendo tra stato leso e stato
diverso dallo stato leso. Solo lo stato leso ha diritto di chiedere allo stato che ha
violato l’obbligo l’adempimento di tute le conseguenze derivanti dall’illecito, ivi
compresa la riparazione. È da considerare Stato leso, lo stato individualmente
danneggiato, oppure tutti gli stati nei cui confronti l’obbligo è dovuto, quando si tratti di
obblighi di natura integrale, la cui non esecuzione pregiudica la struttura del trattato o
l’esecuzione degli obblighi da parte degli altri stati.
L’art 48 ha determinato la posizione degli Stati diversi dallo stato leso, che vengono
comunque toccati dalla violazione. Essi possono chiedere la cessazione dell’illecito e
assicurazioni e garanzie di non ripetizione e inoltre che sia eseguito l’obbligo di
riparazione in favore dello stato leso. Addirittura potrebbe essere richiesta la
riparazione a favore dei beneficiari dell’obbligo violato qualora non ci sia uno stato
direttamente leso (es: genocidio contro una parte della popolazione dello stato). Ma si
tratta probabilmente di sviluppo progressivo del diritto internazionale. Infine l’art 54
accorda a questi stati il diritto di adottare misure lecite contro lo stato responsabile per
costringerlo a cessare l’illecito e ad effettuare la riparazione nell’interesse dello stato
leso o dei beneficiari dell’obbligo. Tuttavia la CDI lascia non specificato il contenuto di
tali misure, viste le reazioni negative al precedente progetto.
9. La responsabilità da fatto lecito
Il progetto di articoli sulla responsabilità internazionale non si occupa della
responsabilità per fatto lecito, cioè della responsabilità derivante da azioni conformi al
diritto internazionale ma che possono causare danni a un soggetto di diritto
internazionale.
Quando si fa riferimento a queste eventualità si prende normalmente in considerazione
un pregiudizio di carattere economico e quindi l’eventuale obbligo di indennizzo posto ha
carico di chi ha intrapreso quella data attività.
Esistono delle convenzioni (in realtà poche) che disciplinano espressamente la
responsabilità per danni per attività non contrarie a diritto, ma rischiose. L’art 110
della Convenzione di Montego Bay consente la visita, da parte di una nave da guerra,
di una nave mercantile sospettata di esercitare la tratta degli schiavi o la pirateria o
altre attività proibite ivi elencate. Tuttavia se il sospetto si rivela infondato dovrà
essere risarcito il danno provocato alla nave fermata.
La stessa CDI ha lasciato impregiudicata la questione dell’eventuale risarcimento di
danni causati in seguito ad un’azione la cui illiceità è esclusa da una causa di
esclusione del fatto illecito (es: forza maggiore).
Inoltre esistono alcune pronunce di tribunali internazionali che hanno confermato il
principio che lo stato territoriale deve tenere indenni i terzi per attività rischiose
esercitate nel suo territorio.
La manifestazione più incisiva è un passo del parere consultivo sulla liceità delle armi
nucleari (1996) ribadita in altri pronunciamenti della ICJ. Essa statuì che “l’esistenza di un
obbligo generale degli stati di assicurare che le attività compiute nei limiti della loro giurisdizione o
sotto il loro controllo rispettino l’ambiente degli stati o le zone oltre la giurisdizione nazionale è ora
parte del corpo del diritto internazionale relativo all’ambiente”. Obblighi più precisi possono essere
naturalmente contratti a livello convenzionale.
Connessa a questo tema è la questione della rilevanza del principio di
precauzione. Questo comporterebbe l’obbligo di agire preventivamente o di non
porre in essere una determinata condotta per evitare il rischio di provocare un
danno, sebbene non sia certo che esso si verifichi. Tale principio è stato affermato
in merito al diritto internazionale dell’ambiente e al diritto umanitario, ma è incerto
se tale principio possa essere
considerato come appartenente al diritto consuetudinario e vincoli gli stati
indipendentemente da una precisa stipulazione convenzionale.
10. La responsabilità delle organizzazioni internazionali
In linea di principio, qualora la o.i. sia dotata di personalità internazionale, essa sarà
responsabile per la violazione delle norme di diritto internazionale imputabile
all’organizzazione stessa. Qualora invece si neghi, nel caso concreto che la o.i. sia
soggetto di diritto internazionale, è giocoforza ritenere responsabili gli stati parti del
trattato istitutivo collettivamente considerati. La CDI ha optato per la prima soluzione
stabilendo che ogni illecito dell’organizzazione comporta la sua responsabilità
internazionale.
Tuttavia la soluzione di queste problematiche può essere stabilita a livello
convenzionale. Un principio, ritenuto conforme alla prassi internazionale, è quello
per cui uno stato non può essere ritenuto responsabile per le attività delle
organizzazioni internazionali compiute nel suo territorio.
Il problema della responsabilità delle NU è sorto in particolare per le operazioni di
peace- keeping. In tal caso determinante è il criterio del controllo sulle forze di pace.
Le Nu hanno accettato la responsabilità per violazioni commesse dagli appartenenti
ad una forza di pace quando questa operava sotto il loro controllo (es: 1960
operazione in Congo). Qualora invece la forza non agisca sotto il controllo delle NU,
ma sia da queste semplicemente autorizzata, la responsabilità internazionale fa capo
allo stato che controlla la forza o agli stati partecipanti.
In merito a tali argomenti la CDI ha affermato che qualora un organo sia messo a
disposizione dell’o.i., il comportamento illecito dell’organo sarà considerato come un
comportamento dell’organizzazione, se questa esercita un controllo effettivo sull’organo.
Inoltre, l’art 15 [Link] afferma che l’o.i. è responsabile qualora lo stato commetta una
violazione di un obbligo internazionale per dar esecuzione ad un atto giuridicamente
vincolante o autorizzato da una raccomandazione dell’organizzazione. Tuttavia
l’illecito commesso durante un’operazione coercitiva autorizzata dalle NU non
costituisce un illecito dell’organizzazione, qualora l’operazione sia interamente sotto
comando e controllo nazionale.
Infine l’art 29 [Link] statuisce la responsabilità dell’o.i. per il fatto illecito della
stessa, tranne che lo stato membro abbia accettato di essere responsabile nei
confronti del terzo danneggiato o abbia lasciato che questi facesse affidamento
sulla sua responsabilità.
Capitolo 15. Il divieto dell’uso della forza
1. La disciplina dell’uso della forza armata prima dell’entrata in vigore
della Carta delle Nazioni Unite
Gli stati godevano di un’ampia libertà di ricorrere alla forza armata: la Carta delle NU ha
quasi abolito questa libertà.
Anteriormente al Patto della Società delle Nazioni, gli stati godevano di un illimitato ius
ad bellum: la guerra era ammessa dall’ordinamento internazionale, che ne disciplinava
le modalità di esecuzione con le regole del c.d. diritto bellico.
Accanto alla guerra esistevano procedimenti di autotutela implicanti l’uso della forza,
ma diversi dalla guerra in quanto non implicavano la sospensione del diritto
internazionale di pace. Per poter ricorrere a questi strumenti (rappresaglia armata,
intervento, blocco pacifico) occorreva dimostrare l’esistenza di un titolo giuridico.
Il Patto della Società delle Nazioni (entrato in vigore nel 1920) sanciva il dovere di
risolvere pacificamente le controversie internazionali, obbligando gli stati a sottoporre
le controversie a regolamento arbitrale o giudiziale o al Consiglio della SdN. Veniva
sancito un divieto generale di muovere guerra ad uno stato che si conformasse al lodo
arbitrale o alla sentenza della corte permanente. Il Patto quindi non escludeva
totalmente la guerra, essendo possibile ad es. quando la parte soccombente non si fosse
adeguata alla sentenza della Corte.
L’accordo di Londra del 1945, istitutivo del Tribunale di Norimberga definì all’art 6
la guerra di aggressione u crimine internazionale, in particolare un crimine contro
la pace.
2. Il contenuto della proibizione stabilita dall’art 2.4 della Carta delle NU
L’architettura disposta dalla Carta delle NU entrata in vigore il 24 ottobre 1945)
prevede un divieto generale di ricorso alla forza armata, contenuto all’art 2, par 4, e
un’eccezione,
costituita dalla legittima difesa individuale e collettiva, all’art 51.
Il divieto dell’uso della forza è un principio fondamentale, da qualificare ormai come
norma imperativa del diritto internazionale, almeno nel suo nucleo essenziale
relativo al divieto di aggressione. La ICJ, nel caso Nicaragua-Usa ha affermato che
il principio del divieto dell’uso della forza, consacrato all’art 2.4 NU, appartiene al
diritto consuetudinario.
L’art 2.4 NU afferma che:
I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della
forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in
qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.
Tale disposizione proibisce solo la minaccia e l’uso della forza armata. Ciò è provato
da un’interpretazione sistematica del testo ed è confermato dai lavori preparatori.
Negli altri luoghi della Carta in cui viene usato il termine “forza”, esso è accompagnato
dalla precisazione che si tratta di forza armata, oppure dove non compare il testo
induce chiaramente ad escludere che si sia inteso far riferimento alla coercizione
economica (art 44). L’art 2.4 vieta anche la semplice minaccia: non è facile
determinare cosa possa costituire minaccia della forza, tranne alcuni esempi
macroscopici come l’ultimatum. La ICJ ha inoltre escluso che la costituzione e messa
punto di un notevole armamento da parte di uno stato possa essere considerata una
minaccia della forza nei confronti dei vicini.
Un problema particolare è sorto in merito alle armi nucleari. Nel parere del 1996 la
ICJ distingue tra il mero possesso delle armi nucleari e la dissuasione nucleare
(detenzione di armamenti per difendersi da un attacco nucleare nemico). Il semplice
possesso non costituisce una minaccia della forza, ma neppure la dissuasione: la
corte ha affermato che la liceità della dissuasione (cioè la minaccia dell’uso
dell’arma nucleare) va commisurata alla liceità dell’uso della forza programmata. Se
questo è lecito (es: reazione di legittima difesa) sarà pure lecita la dissuasione
nucleare.
Non costituisce minaccia della forza l’esercizio di un diritto (es: uno stato che
attraversa uno stretto internazionale con navi da guerra non commette illecito).
La proibizione contenuta nell’art 2.4 NU non ha per oggetto qualsiasi minaccia o uso
della forza ma solo quelli esercitati dagli stati nelle loro relazioni internazionali.
Sicuramente è oggetto della proibizione la forza esercitata al di là del territorio statale,
sia nell’ambito territoriale di un altro stato sia in uno spazio non soggetto alla sovranità
di alcuno stato, come l’alto mare e lo spazio aereo sovrastante. È sicuramente coperta
dall’art 2.4 la forza usata contro corpi di truppa lecitamente stanziati all’interno del
territorio statale.
Le misure prese dal governo legittimo per reprimere un’insurrezione non costituiscono
un esempio di forza impiegata nelle relazioni internazionali. Un problema a parte è
rappresentato dalla forza impiegata per reprimere il diritto all’autodeterminazione di un
popolo soggetto a dominazione coloniale o razzista: in questo caso, il divieto dell’uso
della forza,più che all’art 2.4, fa riferimento ad una norma formatasi parallelamente in
merito ai popoli sotto dominazione coloniale.
L’art 2.4 NU precisa come il divieto abbia per oggetto la forza usata sia contro l’integrità
territoriale sia contro l’indipendenza politica, sia in qualunque altra maniera contrastante
con i fini della carta. Si tratta quindi di un divieto di carattere assoluto, che ha ormai
assunto il rango di norma di diritto consuetudinario.
Peraltro solo uno stretto nucleo di questa norma può essere qualificato come ius cogens.
Tal precisazione è importante poiché le cause di esclusione del fatto illecito sono
operanti nei confronti di una norma di diritto internazionale consuetudinario, ma non
operano in relazione alle norme di ius cogens.
3. Le eccezioni al divieto: a) la legittima difesa
La legittima difesa è espressamente prevista nell’art 51 della Carta delle NU
come eccezione alla proibizione dell’uso della forza nelle relazioni
internazionali.
Va determinato innanzitutto il momento a partire dal quale tale diritto può essere
azionato. L’art 51 afferma che:
“Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o
collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite,
fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e
la sicurezza internazionale.
Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente
portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il
compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi
momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza
internazionale.”
Quest’articolo lascia spazio a due interpretazioni opposte. Vi è infatti una minoranza
che sostiene la liceità della legittima difesa preventiva, facendo leva sull’aggettivo
“naturale” che qualifica il diritto di legittima difesa, e portando in rilievo il fatto che il
diritto consuetudinario pre-Carta ammetteva la legittima difesa preventiva: questa
sarebbe stata fatta propria dalla carta e mantenuta dopo la sua entrata in vigore. Vi è
invece chi, soprattutto la dottrina continentale europea, sottolinea come la Carta
faccia riferimento ad un “attacco armato”, considerato come requisito essenziale per
l’esercizio del diritto di
legittima difesa. La liceità di questa si avrebbe quindi solo dopo che un attacco armato
sia stato scagliato.
Questa seconda impostazione non è più condivisibile nella sua assolutezza. In primis
la ICJ si è pronunciata in favore della natura consuetudinaria della norma in questione,
ma nulla ha detto in merito a se esita un coincidenza o una scollatura tra Carta delle
NU e diritto consuetudinario. In secondo luogo un’interpretazione letterale dell’art 51
potrebbe portare ad risultato manifestamente assurdo o irragionevole, per dirla con
l’art 32 CV (es: in caso di attacco nucleare si dovrebbe aspettare che la bomba sia
esplosa per reagire).
In terzo luogo, tra le due versioni ci sono significativi punti di contatto punti di contatto.
Per esempio è ammissibile, anche secondo i teorici che restringono il diritto di
legittima difesa, che questa possa essere attuata quando l’attacco sia in corso
d’opera o sia stato sferrato, ma non abbia ancora colpito il territorio altrui. Sembra che
gli stessi organi incaricati per la riforma della Carta propendano a favore della
legittima difesa sia dopo che abbia avuto luogo un attacco armato sia nell’imminenza
dello stesso. Ovviamente la nozione di “imminenza di un attacco armato” deve essere
intesa in senso restrittivo per evitare abusi.
In ogni caso, affinché il diritto di legittima difesa sussista deve trattarsi di una violazione
dell’art 2.4 particolarmente qualificata, ossia un attacco armato. Non esiste infatti uno
stretto parallelismo tra art 2.4 e art 51 NU, nel senso che non ogni violazione della
prima disposizione legittima l’esercizio dei termini della seconda.
La nozione di attacco armato è complicata dall’identificazione dei beni che debbono
essere oggetto di violenza affinché si possa reagire in legittima difesa. Tra tali
beni rientrano in primis il territorio e gli altri beni che sono manifestazione degli
attributi di sovranità, quali i corpi di truppa lecitamente stanziati all’estero e navi o
aeromobili militari.
Nella risoluzione sulla definizione di aggressione non vengono menzionati né i cittadini
all’estero né altri organi dello stato, come gli agenti diplomatici.
Ai fini della legittima difesa è importante determinare le caratteristiche e le modalità
dell’attacco armato, nonché la sua entità. Un attacco armato può essere condotto
anche con gruppi armati non riconducibili all’organizzazione politico-militare di uno
stato, ma
agenti secondo le sue direttive (es: mercenari), di modo che gli atti compiuti siano a
questo stato imputabili: si tratta della c.d. aggressione indiretta. La ICJ nell’affare
Nicaragua-USA ha altresì escluso dalla nozione di attacco armato la fornitura d’armi e
l’assistenza logistica agli insorti, e azioni similari, che tuttavia costituiscono una
violazione dell’art 2.4 della Carta.
L’art 51 non specifica se l’attacco armato, che da diritto a reagire in legittima difesa
debba provenire da uno stato oppure possa provenire anche da un’entità non statale.
Dopo l’attentato del 11 settembre, gli USA hanno reagito in legittima difesa contro
l’Afghanistan (lo stato che ospitava il movimento terroristico). L’azione degli USA è
stata in qualche modo avallata dal Cds ONU con due risoluzioni (1368 e 1373 del 2001)
le quali, seppur nel preambolo, fanno riferimento al diritto di legittima difesa individuale
e collettiva. Su questa posizione si sono immediatamente allineate l’UE, l’OSCE e la
Nato.
La reazione di legittima difesa, come ogni altro uso lecito della forza, deve essere
esercitata nei limiti posti dai due criteri nella necessità e della proporzionalità. Tali
condizioni non
sono espresse nell’art 51 NU ma trovano riscontro nel diritto consuetudinario.
Recentemente è stato proposto anche il criterio dell’immediatezza. Nel caso si abbia
una parte del territorio di uno stato occupata da un altro stato, la situazione va
valutata in connessione con il dovere di risolvere pacificamente le controversie, con la
conseguenza di ammettere la liceità dell’uso della forza quando lo stato, il cui territorio
sia stato occupato ha tentato inutilmente di risolvere la controversia senza ricorrere a
mezzi violenti. Il criterio di immediatezza, probabilmente, impedisce di invocare la
legittima difesa quando l’occupazione si è consolidata nel tempo, specialmente se
essa risalga ad un’epoca in cui l’uso della forza armata era considerato lecito.
La legittima difesa ha un termine finale nel senso che essa deve cessare non appena il Cds
abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. In
ogni caso lo stato che agisce in legittima difesa ha l’obbligo di notificare al Cds le misure
intraprese, cosicché esso possa vigilare e accertare che l’azione intrapresa sia
effettivamente legittima difesa e non mascheri invece un’aggressione. Nello stesso tempo,
l’adempimento di quest’obbligo esclude la possibilità di azioni di legittima difesa segrete.
4. b) L’uso della forza autorizzato dal Consiglio di Sicurezza ONU.
La prassi ormai prova l’esistenza di una norma secondo cui gli Stati possono usare la
forza su autorizzazione del Cds. In tal caso essa dovrebbe essere impiegata
nell’interesse della sicurezza collettiva. (vedi dopo).
5. c) Le misure contro stati ex-nemici
Gli artt 107 NU afferma che:
Nessuna disposizione del presente Statuto può infirmare o precludere, nei confronti di uno Stato che
nella seconda guerra mondiale sia stato nemico di uno dei firmatari del presente Statuto, un’azione
che venga intrapresa od autorizzata, come conseguenza di quella guerra, da parte dei Governi
che hanno la responsabilità di una tale azione.
Si tratta di un’ulteriore eccezione al principio del divieto della forza armata di cui godono
i membri delle NU individualmente, ma anche collettivamente, associati in
un’organizzazione regionale, ai sensi dell’art 53:
1. Il Consiglio di Sicurezza utilizza, se del caso, gli accordi o le organizzazioni regionali per azioni
coercitive sotto la sua direzione. Tuttavia, nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad
accordi regionali o da parte di organizzazioni regionali senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza,
eccezion fatta per le misure contro uno Stato nemico, ai sensi della definizione data dal paragrafo 2 di
questo articolo, quali sono previste dall’articolo 107 o da accordi regionali diretti contro un rinnovarsi
della politica aggressiva da parte di un tale Stato, fino al momento in cui l’organizzazione potrà, su
richiesta del Governo interessato, essere investita del compito di prevenire ulteriori aggressioni da
parte del detto Stato. 2. L’espressione “Stato nemico” quale è usata nel paragrafo 1 di questo articolo si
riferisce ad ogni Stato che durante la seconda guerra mondiale sia Stato nemico di uno dei firmatari
del presente Statuto.
Le due disposizioni sono volte a salvaguardare gli stati firmatari contro un ritorno
della politica aggressiva delle Potenze dell’Asse. Tuttavia è opinione comune che il
ricorso alle misure contro stati ex nemici non sia possibile nei confronti degli ex
nemici che siano divenuti membri delle NU: si tratta di un’applicazione del principio
di uguaglianza
stabilito dall’art 2.1 (L’Organizzazione è fondata sul principio della sovrana eguaglianza di tutti i
suoi Membri.)
Tali clausole sono ormai ritenute obsolete dalla ris. 49/58 dell’Assemblea Generale (1994),
adottata con la sola astensione della Corea del Nord.
6. d) Il consenso dell’avente diritto
In sé preso il consenso dell’avente diritto opera come una clausola di
esclusione dell’illiceità poiché si applica il principio volenti non fit iniuria
Il consenso può venire prestato oralmente oppure essere cristallizzato in un
accordo internazionale in forma scritta.
I requisiti cui l’ordinamento internazionale subordina l’operatività del consenso sono:
a) il consenso deve provenire da un ente, la cui manifestazione di volontà
sia imputabile allo stato in cui l’intervento ha luogo; il consenso deve
cioè essere prestato dal governo effettivamente rappresentativo.
b) La manifestazione di volontà del sovrano territoriale deve essere una
manifestazione valida, non affetta dai c.d. vizi di volontà. Il consenso non deve
essere dato per errore, carpito con dolo o estorto con violenza. Inoltre deve
essere espresso in conformità alle disposizioni del diritto interno del sovrano
territoriale di importanza fondamentale (es: autorizzazione del parlamento).
c) L’azione dello stato interveniente non deve violare norme che l’obbligano a
tenere un determinato comportamento nei confronti dello stato territoriale e di
altri (o tutti) membri della comunità internazionale. Pertanto se lo stato
interveniente è obbligato a non entrare in territorio altrui in virtù di un patto
regionale, il consenso del sovrano territoriale funziona come causa di
esclusione del fatto illecito nei rapporti stato interveniente-sovrano territoriale,
ma l’intervento costituisce un fatto illecito nei confronti degli altri membri del
patto.
d) Il consenso non deve essere contrario ad una norma di ius cogens. La
contrarietà comporta la nullità del consenso, con la conseguenza che l’uso
della forza in territorio altrui resta illecito.
Va precisato che il consenso dell’avente diritto opera nei limiti entro cui è stato dato.
Perciò l’uso della forza resta illecito se ha luogo con modalità diverse da quelle stabilite
o oltre i limiti temporali. Parimenti un consenso dato dopo l’ingresso in territorio altrui
non può essere considerato come una causa di esclusione del fatto illecito, ma solo
come una rinuncia a far valere le conseguenze dell’illecito; effetti che il consenso ex
post non può produrre quando sia stata violata una norma imperativa.
7 e) L’intervento a protezione dei cittadini all’estero
Gli stati occidentali ammettono la liceità dell’uso della forza a protezione dei cittadini
all’estero, ma i paesi del terzo mondo ne affermano la contrarietà al diritto
internazionale. La prassi attesta come l’intervento a protezione dei cittadini all’estero
sia stato effettuato più volte dagli stati occidentali. Dopo la fine della guerra fredda
anche i paesi dell’Est europeo si sono portati su questa linea. Gli ordinamenti interni
di alcuni stati (Francia, Federazione Russa) citano espressamente questo diritto di
tutela dei cittadini. L’uso della forza per salvare i cittadini all’estero costituisce
un’autonoma eccezione al divieto generale
dell’uso della forza. Naturalmente per poter agire lecitamente occorre che si verifichino
determinati presupposti, quali l’esistenza di un serio pericolo di vita per i cittadini dello
stato interveniente e la mancanza di volontà o incapacità da parte dello stato territoriale
di salvarli. È ovvio che un problema di liceità viene in considerazione quando
l’intervento ha luogo senza il consenso del sovrano territoriale, altrimenti il consenso
funziona come causa di esclusione del fatto illecito.
8. f) L’intervento di umanità
Viene definito intervento di umanità l’uso della forza per proteggere i cittadini dello stato
territoriale da trattamenti inumani e degradanti. Esso è da considerare illecito e la sua
illegittimità è stata ribadita dalla ICJ nella sentenza sul caso Nicaragua-USA (1986).
È stata prospettata la tesi di un dovere di ingerenza umanitaria come una sorta di
obbligo facente capo alla comunità internazionale per far fronte a gravi violazione dei
d.u.
Il c.d dovere di ingerenza umanitaria come dovere di uno stato o di un gruppo di stati di
intervenire in territorio altrui senza il consenso del sovrano territoriale allo scopo di
porre fine ad una grave violazione di diritti umani non ha nessuna base giuridica
nell’ordinamento internazionale. L’ingerenza umanitaria per essere giuridicamente
ammissibile, deve essere basata sulle tradizionali cause di esclusione del fatto illecito,
oppure essere decisa e autorizzata dal Cds delle NU.
Comunque l’intervento di umanità non costituisce aggressione, purchè si tratti
effettivamente d’intervento volto a salvaguardare la popolazione dello stato territoriale
da trattamenti inumani da parte del governo al potere. Per questo motivo l’illiceità
dell’intervento può essere sanata da una risoluzione successiva del Cds dell’ONU,
come è avvenuto per l’intervento della NATO in Kosovo.
Quello che ormai sembra acquisito è che l’emergenza umanitaria costituisce una
minaccia alla pace e quindi l’intervento può aver lecitamente luogo in virtù del
Capitolo VII della carta delle NU, con la conseguenza che gli stati possono
intervenire su autorizzazione delle NU o che operazioni di mantenimento della pace
possono essere intraprese dell’organizzazione mondiale. Rimane comunque aperta
la possibilità di uno stallo nel processo decisionale, in quanto i membri permanenti
non hanno rinunciato al loro potere di veto neanche in caso di gravi violazioni dei d.u.
9. g) Il problema della rilevanza di altre cause di esclusione del fatto
illecito L’art 2.4 non prevede espressamente un divieto di ricorso alle rappresaglie
armate, ma tale divieto è espressamente sancito in strumenti ufficiali posteriori, come
la Dichiarazione
sulle relazioni amichevoli o l’Atto finale di Helsinki. Riferendosi alla Dichiarazione sulle
relazioni amichevoli la ICJ, nel caso Nicaragua-USA si è pronunciata per
l’appartenenza al diritto internazionale consuetudinario del divieto di rappresaglie
armate. Anche la CDI nel suo progetto di articoli sulla responsabilità internazionale
degli stati si è espressa contro la possibilità di contromisure implicanti l’uso della
forza armata.
Altra tradizionale causa di esclusione del fatto illecito è lo stato di necessità. La CDI si è
espressa in favore della permanente validità di tale causa di esclusione, così come la
ICJ. Tuttavia è stato escluso che lo stato di necessità possa essere invocato per
giustificare la violazione di una norma imperativa. Ma l’operatività dell’esimente in
esame può
probabilmente essere ammessa, seppure con cautela, in relazione ai divieti che non hanno
natura imperativa.
Nella forza maggiore, un evento esterno induce l’individuo-organo alla violazione di
una norma giuridica (es: una nave in avaria che sconfina nelle acque interne). A
differenza del caso fortuito dove l’individuo non è cosciente della condotta illecita,
nella forza maggiore la violazione è cosciente ma l’individuo-organo non può
comportarsi altrimenti poiché la situazione di forza maggiore è irresistibile, imprevista
ed esterna, cioè al di fuori della sua volontà.
Nella situazione di estremo pericolo (distress) l’individuo organo è costretto a violare
una norma giuridica allo scopo di salvare sé o altri a lui affidati da un pericolo grave.
In questo caso il bene da salvare è la vita umana e non un interesse essenziale dello
stato (nave da guerra che si rifugia in un porto estero a causa del maltempo). Nel
caso di violazioni di obblighi erga omnes (es: divieto di genocidio) gli stati potrebbero
intervenire per prevenire la violazione o per impedire che essa si protragga nel tempo.
La CDI ha seguito sul punto un approccio molto cauto. L’art 48 [Link] stabilisce che lo
stato non direttamente leso possa invocare la responsabilità del trasgressore qualora
sia violato un obbligo dovuto nei confronti dell’intera comunità internazionale. Tuttavia
lo stato non direttamente leso può chiedere solo la cessazione della violazione e
l’esecuzione dell’obbligo di riparazione.
Azioni armate nell’interesse della comunità internazionale rimangono di competenza
del Cds dell’ONU, che eventualmente autorizzerà gli stati a farlo.
10. La legittima difesa collettiva
L’art 51 attribuisce agli stati il diritto alla legittima difesa anche collettiva. Ciò significa
che uno stato, benché non sia oggetto di un attacco armato può intervenire a favore di
uno stato che abbia subito un tale attacco. La ICJ, nel caso Nicaragua-USA ha
espressamente statuito l’appartenenza al diritto consuetudinario del diritto di legittima
difesa collettiva. Affinché questo diritto possa essere esercitato devono verificarsi le
stesse condizioni della legittima difesa individuale (deve essere stato sferrato un
attacco armato, che abbia colpito o sia nell’imminenza di colpire lo stato). Nel caso di
legittima difesa collettiva occorre aggiungere un’ulteriore limitazione al terzo che
intende intervenire: l’imminenza dell’attacco deve essere di una gravità tale che
l’intervento del terzo è assolutamente necessario, non potendo lo stato oggetto della
minaccia far fronte al futuro attacco con i propri mezzi.
Uno stato non può intervenire a favore di un altro contro un terzo stato, senza che la
vittima abbia constatato di essere stata oggetto di un attacco armato e abbia
richiesto l’assistenza a suo favore. Debbono quindi sussistere effettivamente le
condizioni per l’esercizio della legittima difesa e l’esistenza di queste condizioni deve
essere determinata dallo stato vittima. Ovviamente questa determinazione non esime
lo stato da un giudizio di verifica: se infatti le condizioni in questione non
sussistessero lo stato interveniente commetterebbe un illecito internazionale,
nonostante la richiesta dello stato vittima.
[Link] militari per l’organizzazione della difesa collettiva
La mancata attuazione del Capitolo VII della Carta delle NU ha portato gli stati a
mettersi al riparo con patti di difesa collettiva, conformi all’art 51 NU. Di regola tale
disposizione
viene espressamente richiamata insieme agli obblighi procedurali che essa dispone
(notifica delle misure prese al Cds).
I due casi emblematici di patti militari di sicurezza collettiva sono il Patto
Atlantico istitutivo della NATO, il Patto di Varsavia e il Trattato di Rio (Trattato
interamericano di assistenza reciproca).
[Link] divieto dell’uso della forza nella Costituzione italiana.
Nella Costituzione italiana vengono in considerazione due disposizioni per
determinare quando lo stato italiano possa ricorrere legittimamente alla forza armata:
gli artt 10.1 e 11. L’art 10.1 Cost dispone l’adattamento del diritto interno al diritto
consuetudinario e al diritto cogente. Ne consegue che nel nostro ordinamento sono
proibite tutte quelle azioni vietate dal diritto consuetudinario e cogente. Di particolare
rilevanza è la norma cogente sul divieto di aggressione; saranno vietate le
rappresaglie armate, ma sarà consentita la legittima difesa individuale e collettiva.
Mediante l’art 11 Cost la Costituzione italiana contiene inoltre un’autonoma
disposizione sul divieto dell’uso della forza e di apertura alle o.i. competenti nel
campo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La disposizione
costituzionale peraltro non vieta qualsiasi guerra, ma solo quella volta ad offendere la
libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
In altri termini l’art 11 Cost vieta una guerra di aggressione ma non ad esempio una
guerra in legittima difesa. L’art 11 vieta solo la “guerra”, cioè i conflitti caratterizzati da
un uso macroscopico della forza armata. È quindi consentita la partecipazione
italiana alle operazioni di peace- enforcement decise dalle NU e, in combinato con
l’art 10 Cost, alle azioni comportanti l’uso della forza armata autorizzate dal Cds
dell’ONU (es: un intervento umanitario).
Capitolo 16. La sicurezza collettiva
1. Il Capitolo VII della Carta delle NU e il sistema di sicurezza collettiva
Nella Carta bisogna distinguere le disposizioni relative all’uso della forza che
riguardano gli stati individualmente considerati da quelle relative al sistema di
sicurezza collettiva che fa capo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Al primo gruppo appartengono le disposizioni che stabiliscono un divieto
generale di usare la forza nelle relazioni internazionali e relative eccezioni (art 2.4
NU, art 51 sulla legittima difesa, art 107 e 53.1 secondo inciso, sulle misure
contro stati ex nemici). Tali disposizioni (tranne quelle relative agli ex nemici)
fanno ormai parte del diritto consuetudinario.
Il sistema di sicurezza collettiva, di cui al Capitolo VII della Carta delle NU, fa perno
sugli artt 39 e ss, che prevedono un’azione del Cds per mantenere o ristabilire la pace e la
sicurezza internazionale. Tra le misure previste dal Capitolo VII rientra il ricorso alla
forza direttamente da parte del Cds (art 42 NU).
Hanno per oggetto l’uso della forza anche alcune disposizioni del Capitolo VIII,
relative ad azioni coercitive intraprese dalle organizzazioni regionali. Tali azioni,
dovendo essere autorizzate dal Cds o svolte sotto la sua direzione, possono essere
inquadrate nel sistema di sicurezza collettiva delle NU.
Il Cds ha competenza esclusiva in materia di mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale. Le sue delibere possono consistere in raccomandazioni (di
natura non vincolante) e in decisioni, che hanno natura obbligatoria. Non avendo
natura procedurale, le delibere di entrambi i tipi sono adottate con il voto favorevole di
nove membri su quindici (inclusi i membri permanenti). Di regola l’assenza di un
membro permanente nella seduta del Consiglio equivale a veto, ma non la sua
astensione.
Per quanto riguarda misure coercitive per il mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale, la procedura prevista dall’art 39 NU afferma che:
Il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della
pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazioni o decide quali misure debbano essere prese in
conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.
Una minaccia alla pace può derivare dal pericolo di ostilità tra due stati, ma anche da
una situazione all’interno di uno stato (es: guerra civile). Una violazione della pace è
generalmente costituita dallo scoppio di ostilità fra stati. Il Cds non opera
necessariamente un accertamento formale della situazione. Talvolta qualifica la
situazione come minaccia o comunque fa riferimento al Capitolo VII; talaltra la
qualificazione della situazione è assente e la riconducibilità al Capitolo VII può essere
desunta implicitamente dalla risoluzione.
Secondo quanto previsto dall’art 41 NU, il Cds può raccomandare o decidere
l’adozione di misure coercitive non implicanti l’uso della forza.
Il Consiglio di Sicurezza può decidere quali misure, non implicanti l’impiego della forza armata,
debbano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i membri delle Nazioni
Unite ad applicare tali misure. Queste possono comprendere un’interruzione totale o parziale delle
relazioni economiche
e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la
rottura delle relazioni diplomatiche.
Tale elenco non è tassativo. Tali misure dovranno essere obbligatoriamente eseguite dagli
stati membri solo se siano state oggetto di una decisione (es: le sanzioni decise nel 1992-
93 contro la Libia). Normalmente tali misure non hanno un termine finale e possono
essere revocate (o sospese) con una decisione del Cds.
A partire dall’ 11 settembre 2001, il Cds ha iniziato ad adottare risoluzioni obbligatorie
che impongono agli stati misure da applicare nel loro ordinamento interno in materia
di lotta al terrorismo internazionale, sollevando tuttavia perplessità sotto il profilo della
loro legittimità statutaria, poiché il Cds si è praticamente attribuito “poteri legislativi”,
competenza che non gli spetta, secondo la Carta.
Altra tipica azione del Cds è l’adozione di misure provvisorie sancita dall’art 40 NU
Al fine di prevenire un aggravarsi della situazione, il Consiglio di Sicurezza prima di fare le
raccomandazioni o di decidere sulle misure previste all’articolo 41, può invitare le parti
interessate ad
ottemperare a quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie o desiderabili. Tali misure provvisorie
non devono pregiudicare i diritti, le pretese o la posizione delle parti interessate. Il Consiglio di
Sicurezza prende in debito conto il mancato ottemperamento a tali misure provvisorie.
La prassi del Cds conferma tuttavia che, nell’adottare una misura provvisoria, l’organo
ha fatto riferimento agli effetti giuridici vincolanti da essa prodotti.
I poteri del Cds, quando si renda necessario intraprendere azioni coercitive sono
esclusivi, come si deduce da un coordinamento tra l’art 24, che affida al Cds la
responsabilità principale per il mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale, e l’art 11.2 che impone all’AG l’obbligo di deferire al Cds qualsiasi
questione relativa al mantenimento della pace e della sicurezza per cui si renda
necessaria un’azione.
Le delibere con cui si constata un atto di aggressione, minaccia o violazione della
pace e si adottano le misure di cui agli artt 40 e 41, o si decide addirittura di
intraprendere azioni coercitive implicanti l’uso della forza rientrano tra quelle
contemplate dall’art 27.3 NU e possono essere oggetto di veto da parte dei membri
permanenti del Cds.
I poteri di intervento di cui al Capitolo VII spettano non solo in caso di conflitto
internazionale, ma anche in caso di guerra civile, qualora quest’ultima risulti mettere in
pericolo la pace (es: intervento di un terzo nella guerra civile), o in presenza di altre
situazioni interne, come il genocidio. Come specificato dall’art 2.7 NU, il principio di non
intervento nel dominio riservato degli stati (tra cui rientra il caso di guerra civile) non
preclude la possibilità di applicare le misure coercitive previste dal Capitolo VII.
Sulla base delle disposizioni della Carta e della prassi, possono essere distinte tre
categorie che comportano la dislocazione di truppe in territorio altrui: l’intervento armato
da parte del Cds; le operazioni di mantenimento della pace (peace-keeping) e l’uso della
forza autorizzato dal Cds. È da premettere che le operazioni appartenenti alla prima
categoria non hanno mai trovato attuazione. Inoltre, accade spesso che ad un’operazione
di peace- keeping si accompagnino elementi di peace-enforcement, in concomitanza con
l’istituzione dell’operazione o successivamente.
2. L’intervento armato da parte del Cds
L’art 42 NU prevede che:
Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si
siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione
che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può
comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di
Membri delle Nazioni Unite.
Si tratta delle cosiddette operazioni di polizia internazionale. L’adozione di misure ex art
41 NU non è preliminare all’intervento armato, poiché il Cds potrebbe ritenere che
l’urgenza della situazione richieda immediatamente un’azione coercitiva implicante l’uso
della forza.
Secondo il disposto della Carta, il Cds avrebbe potuto intraprendere direttamente
azioni coercitive contro uno stato responsabile di un atto di aggressione, mediante
truppe messe a disposizione dagli stati membri e coordinate da un Comitato di Stato
Maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti (art 47 NU).
Inoltre secondo l’art 48 NU:
1. L’azione necessaria per eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace
e della sicurezza internazionale è intrapresa da tutti i Membri delle Nazioni Unite o da alcuni di essi
secondo quanto stabilisca il Consiglio di Sicurezza.
2. Tali decisioni sono eseguite dai Membri delle Nazioni Unite direttamente o mediante la loro
azione
nelle organizzazioni internazionali competenti di cui siano Membri.
Subito dopo l’entrata in vigore della Carta, gli stati membri avrebbero dovuto stipulare
accordi ad hoc, in cui sarebbero stati indicati in dettaglio i contingenti che ciascuno
stato avrebbe messo a disposizione del Cds (art 43 NU). Addirittura, per le misure
militari più urgenti, i membri avrebbero dovuto tenere immediatamente a disposizioni
contingenti di forze aeree (art 45 NU). Ma questi accordi nono sono mai stati stipulati,
con la conseguenza che le operazioni di polizia internazionale effettuate dalle NU
hanno finito per assumere una fisionomia differente. Né ha mai trovato applicazione
l’art 106 NU:
In attesa che entrino in vigore accordi speciali, previsti dall’articolo 43, tali, secondo il parere del
Consiglio di Sicurezza, da rendere ad esso possibile di iniziare l’esercizio delle proprie funzioni a
norma
dell’articolo 42, gli Stati partecipanti alla Dichiarazione delle Quattro Potenze, firmata a Mosca il
30 Ottobre 1943, e la Francia, giusta le disposizioni del paragrafo 5 di quella Dichiarazione, si
consulteranno tra loro e, quando lo richiedano le circostanze, con altri Membri delle Nazioni Unite
in vista di quell’azione comune necessaria al fine di mantenere la pace e la sicurezza
internazionale.
3. Le operazioni per il mantenimento della pace
Nonostante la parziale attuazione del Capitolo VII, le NU sono riuscite a istituire
operazioni per il mantenimento della pace, che sono divenute più numerose dopo la
fine della guerre fredda e dell’impasse che caratterizzava il Cds. A queste vanno
aggiunte le operazioni connesse al processo di decolonizzazione che hanno avuto
come compito la temporanea amministrazione di territori.
Le operazioni per il mantenimento della pace si distinguono dalle azioni coercitive per il
fatto di essere attuate con il consenso dello stato territoriale. Ma il Cds, nell’istituire una
missione di peace-keeping ha sempre fatto riferimento al Capitolo VII e mai al Capitolo
VI. Queste operazioni possono avvenire sia in caso di conflitti internazionali
(assumendo generalmente l’aspetto di una forza di interposizione), oppure nel contesto
di conflitti interni. In questo caso le forze di pace possono aiutare il governo legittimo a
mantenere la “legge e l’ordine”, garantire la distribuzione di aiuti umanitari o operare
come forza d’interposizione fra le varie fazioni.
Di regola le operazioni di peace-keeping sono effettuate sotto la direzione del
Segretario generale, dietro apposita delega (prorogabile) del Cds. Al Segretario è
affidato il compito di costituire la forza; rientra nella sua discrezionalità politica
individuare gli stati che intendono fornire volontariamente i contingenti. Le operazioni
di peace-keeping fanno riferimento ad un dipartimento apposito (DPKO) istituito
nell’ambito del segretariato generale delle NU.
Per rendere più stabile e meno occasionale la partecipazione ad operazioni di peace-
keeping sono stati messi in atto due meccanismi, che non costituiscono un’attuazione
degli accordi previsti dall’art 43 NU, ma solo un imperfetto surrogato.
Mediante gli Stand by arrangement gli stati membri tengono a disposizione dei
contingenti addestrati per compiti di peace-keeping. Il Cds e per esso il Segretario
generale, può fare affidamento sulle forze stand-by ma non può disporne fino a quando
non sia stato stipulato un accordo tra Stato fornitore e NU.
Una variante di questo strumento è costituita dalla Shirbrig (Standby Forces High
Readiness Brigade) che comporta una stretta cooperazione tra stati fornitori e Cds.
La Brigata è una forza di intervento rapida che dovrebbe intervenire sollecitamente.
Anche in questo caso però i contingenti restano sotto comando nazionale prima di
assumere servizio sotto comando ONU. Più che una forza di intervento rapida essa è
diventata una struttura cui vengono affidati compiti di addestramento dei contingenti
militari dei paesi in via di sviluppo.
Secondo il Segretario generale (Agenda per la Pace, 1992) le operazioni di peace-
keeping dovrebbero avere le seguenti caratteristiche: svolgersi con il consenso delle
parti interessate; essere imparziali; non comportare l’uso della forza salvo in legittima
difesa. Tale razionalizzazione si scontra però con le necessità dettate dalla realtà
delle relazioni internazionali, come dimostra il caso della Somalia, in cui l’UNOSOM
dovette impiegare la forza armata, o quello della ex-Jugoslavia in cui l’UNPROFOR fu
affiancata da azioni di natura coercitiva (peace enforcement) affidate agli stati e alla
Nato in particolare.
Oltre alle vere e proprie operazioni di peace-keeping sono da annoverare in questo
contesto altre misure, quali l’invio di osservatori militari, sempre sotto la direzione del
Segretario generale e dietro mandato del Cds.
In questo quadro si collocano anche le azioni di “diplomazia preventiva” volte
a rassicurare una o più parti interessate nel contesto di una situazione che
potrebbe diventare pericolosa per la pace e la sicurezza internazionali.
Una missione di peace-keeping può svolgere le sue funzioni anche quando sono
cessate le ostilità, operando in vari ambiti e spesso in cooperazione con altri organismi
delle NU, e di istituzioni internazionali coordinate dalle NU.
4. L’uso della forza autorizzato dal Consiglio di Sicurezza
Nonostante la fine della guerra fredda, gli artt 43 e ss NU non sono stati attuati.
Tuttavia, la raggiunta unanimità in seno al Cds ha consentito, almeno per un
decennio, l’adozione di delibere, non proprio ortodosse secondo le disposizioni della
Carta, con cui i membri delle NU sono stati autorizzati ad usare la forza per conto
dell’Organizzazione o su sua delega. In effetti, l’unico punto in cui la Carta fa
riferimento all’autorizzazione dell’uso della forza riguarda l’art 53, cioè le
organizzazioni regionali.
Va ricordato che il Cds può autorizzare gli Stati ad usare la forza, ma non può obbligarli
a farlo; almeno così finora è avvenuto. Talvolta si è trattato di operazioni effettuate in
sostituzione di operazioni di peace-keeping (dimostratesi inefficaci) o parallelamente ad
azioni di peace-keeping; ne sono un esempio la Somalia e la ex-Jugoslavia.
Altre volte l’intervento degli stati membri viene autorizzato in attesa che sia costituita la
forza di pace ONU; è questo il caso dell’intervento in Ruanda. Uno sviluppo analogo
ebbero le operazioni effettuate ad Haiti dagli USA e da altri stati americani.
Trattandosi di delega delle funzioni del Cds agli stati, questi dovrebbero operare nei
limiti della delega o dell’autorizzazione ricevuta, anche sotto il profilo temporale. Ma la
delega, come dimostra la prassi delle azioni a sostegno dell’UNPROFOR, è stata
intesa in maniera piuttosto elastica. In realtà si tratta spesso di operazioni che non
avvengono sotto il
controllo strettamente politico e, tanto meno militare del Cds, ma che ciò nonostante
sono inquadrabili nel contesto della sicurezza collettiva, poiché perseguono i fini che il
Cds si prefigge. Tra gli esempi recenti di autorizzazione all’uso della forza da parte del
Cds nei confronti degli stati sono da ricordare le risoluzioni di contrasto alla pirateria, in
relazione alla Somalia.
L’autorizzazione a posteriori dell’uso della forza costituirebbe una sorta di sanatoria di
un atto che, preso di per sé, sarebbe contrario alla Carta delle NU. Dal punto di vista
logico non c’è però alcun ostacolo: se il Cds ha il potere di autorizzare, potrà anche
regolarizzare a posteriori un’azione che avrebbe dovuto essere preventivamente
autorizzata. La ris 1244/1999 con cui si è posto fine al conflitto del Kosovo, ha
regolarizzato a posteriori l’azione della NATO contro la Repubblica federale di
Iugoslavia.
Da respingere è la tesi per cui il Cds possa autorizzare implicitamente gli stati ad
usare la forza. Condicio sine qua non per tale forma di autorizzazione è che il Cds
abbia comunque qualificato la situazione come uno degli atti ricadenti nell’art 39
NU.
Completamente diverso dagli esempi finora elencati, è il caso, della cui ortodossia
statutaria non è da dubitare, in cui il Cds raccomandi di intervenire in legittima difesa
collettiva a favore del membro che sia stato aggredito. Infatti la legittima difesa per
poter essere esercitata non necessita di alcuna autorizzazione. Ad es. con la ris 546 (1984)
il Cds raccomandò di intervenire a favore dell’Angola, che era stata attaccata dal
Sudafrica.
5. Il problema della liceità delle operazioni per il mantenimento della
pace intraprese al di fuori delle Nazioni Unite
Un esempio operazione per il mantenimento della pace intraprese al di fuori delle
Nazioni Unite è da individuare nella Forza Multinazionale in Libano, che ha avuto luogo
con il consenso dello stato libanese.
L’istituzione di tali forze multinazionali è stata a suo tempo criticata dal Segretario
generale delle NU, il quale ha ricordato come il compito di mantenere la pace e la
sicurezza internazionale spetti all’ONU e al suo Cds.
Sennonché, sotto il profilo giuridico, è da precisare come tali operazioni siano, in linea
di principio, lecite, purché abbiano luogo con il consenso dello stato territoriale. Il
consenso dell’avente diritto infatti funziona come causa di esclusione del fatto illecito,
purchè ovviamente il consenso del sovrano territoriale abbia tutti i requisiti per poter
funzionare come causa di esclusione.
È ovvio che operazioni per il mantenimento della pace, condotte al di fuori delle NU,
mettano a nudo la crisi dell’Organizzazione per quanto riguarda il suo ruolo primario.
Tali forze sono state create proprio per supplire all’impossibilità di funzionamento, in
determinate occasioni, delle NU.
6. Le organizzazioni regionali
L’art 52 NU salvaguardia le funzioni degli accordi o organizzazioni regionali nel
campo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
Per poter essere qualificata come regionale ai sensi del Capitolo VIII della Carta,
l’organizzazione deve aver i seguenti requisiti: deve essere un’organizzazione regionale,
avere competenza nel campo del mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale, essere conforme, anche per quanto riguarda le attività esercitate, ai fini
delle NU. Tra le più importanti ci sono l’OSA, la Lega Araba, L’Unione Africana.
Anche l’UE, dopo l’evoluzione istituzionale che le ha consentito di dotarsi di strumenti
nel campo della difesa, è inquadrabile tra le organizzazioni regionali di cui al Capitolo
VIII della Carta. La qualifica di organizzazione regionale inquadrabile nel Capitolo VIII
della Carta delle NU non è scontata nell’ottica dell’organizzazione regionale. Ad
esempio la Nato, pur avendone i requisiti, rifiuta di essere qualificata come tale, per
non dover essere subordinata alle disposizioni della Carta che richiedono uno stretto
collegamento con le NU.
Le organizzazioni regionali possono funzionare come patto per l’organizzazione
della legittima difesa collettiva. In tal caso l’autorizzazione del Cds non è necessaria,
poiché gli stati membri agiscono in virtù dell’art 51 NU.
L’organizzazione regionale può effettuare operazioni di peace-keeping. In tal caso
un’autorizzazione del Cds non sarebbe strettamente necessaria: l’art 54 NU prevede solo
che: Il Consiglio di Sicurezza deve essere tenuto, in ogni momento, pienamente informato
dell’azione intrapresa o progettata in base ad accordi regionali o da parte di organizzazioni
regionali per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
Ma tale autorizzazione può essere richiesta dall’atto istitutivo dell’organizzazione
(es: OSCE).
Infine le organizzazioni regionali possono effettuare operazioni coercitive su delega o su
autorizzazione del Cds. Nel primo caso l’operazione è effettuata sotto la direzione del Cds,
come stabilito dall’art 53 NU e dall’art 48.2 NU (Tali decisioni sono eseguite dai Membri delle
Nazioni Unite direttamente o mediante la loro azione nelle organizzazioni internazionali competenti di cui
siano Membri)
Nel secondo caso l’azione coercitiva deve essere autorizzata dal Cds, ai sensi dell’art 53
NU, anche se tale articolo non esplicita se vi sia o meno la necessità che anche le
operazioni “autorizzate” siano effettuate sotto la direzione del Cds. Questo però, nella
risoluzione autorizzativa, può porre delle condizioni, tra cui una stretta supervisione
dell’operazione.