11_Villani ALLE ORIGINI DEL CONFLITTO RUSSO-UCRAINO
11_Villani ALLE ORIGINI DEL CONFLITTO RUSSO-UCRAINO
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Dopo la guerra fredda: gli anni della collaborazione fra Federazione Russa e
Occidente. – 3. Dall’ascesa di Putin all’annessione della Crimea. - 4. Conclusioni
1. Introduzione
Un tema che ha occupato molto spazio nel dibattito pubblico sin dall’avvio del
conflitto russo-ucraino – e che rimane alla base della posizione russa – ha riguardato la
responsabilità dell’Occidente che, attraverso il processo di allargamento della NATO ad Est,
avrebbe esposto la Russia ad una vulnerabilità strategica sul suo confine occidentale. Il punto
di partenza di tale narrazione riguarda l’impegno preso nei confronti di Gorbachev dai leader
politici occidentali, che fra il 1989 e il 1990 seguirono il processo di riunificazione tedesca, di
non allargare il sistema di difesa occidentale verso Est1. Quell’impegno verbale, come è noto,
non fu rispettato per ragioni legate all’evoluzione delle relazioni internazionali ed in
particolare alle trasformazioni seguite al crollo dell’Unione sovietica in Europa centro-
orientale e nella ex-Jugoslavia2. Di tale processo anche l’Ucraina fu parte, essendo divenuta
*
Professore ordinario di Storia delle relazioni internazionali, Università degli Studi di Messina.
1 Il riferimento è alle posizioni espresse da James Baker, Segretario di Stato statunitense, a Gorbachev. Cfr. P.
ZELIKOW, C. RICE, Germany Unified and Europe transformed. A Study in Statecraft, Cambridge, 1995, p. 182. Sulla
fine della guerra fredda in Europa la letteratura dell’ultimo ventennio ha fatto luce sulle dinamiche principali e
sul ruolo degli attori più rilevanti. In tal senso, si rimanda a S. PONS, F. ROMERO (eds.), Reinterpreting the end of
the cold war: issues, interpretations, periodizations, London-New York, 2005; F. BOZO, M.- P. REY, N. P. LUDLOW, L.
NUTI (eds.), Europe and the End of the Cold War. A reappraisal, Abingdon-New York, 2008; N. A. GRAEBNER, R.
D. BURNS, J. M. SIRACUSA, Reagan, Bush, and Gorbachev: Revisiting the End of the Cold War, Westport, 2008; S. R.
DOCKRILL, The End of the Cold War Era: the transformation of the global security order, London-New York, 2005; B.
BLUMENAU ET ALII (eds.), New Perspectives on the End of the Cold War: Unexpected Transformations?, London-New
York, 2018; A. BROWN, The Human Factor: Gorbachev, Reagan, and Thatcher, and the End of the Cold War, New York,
2022. Sul processo di riunificazione tedesca si vedano, in particolare, L. NUTI (ed. by), The Crisis of Détente in
Europe: From Helsinki to Gorbachev, 1975-1985, London-New York, 2009; A. VON PLATO The End of the Cold War?
Bush, Kohl, Gorbachev, and the Reunification of Germany, New York, 2015.
2 Su questo passaggio si vedano, ad esempio, i saggi di J. LÉVESQUE, The East European revolutions of 1989, e di
A. PRAVDA, The collapse of the Soviet Union, 1990–1991, entrambi in M. P. LEFFLER, O. A. WESTAD (eds.), The
Cambridge History of the Cold War, vol. III, Cambridge, 2010, p. 311 ss. e p. 356 ss. Sul crollo dell’Urss si veda A.
indipendente nel 1991, nel clima di euforia che nell’Europa centro-orientale accompagnò la
fine del sistema sovietico e l’avvento della c.d. transizione democratica. Questo processo
coincise con la richiesta di adesione alla NATO e all’UE da parte degli Stati appartenuti al
blocco socialista3. Per i paesi entrati nell’UE fra il 2004 e il 2008 e a più riprese nella NATO
la Russia accettò tale evoluzione, sulla base di una collaborazione con gli Stati Uniti e con i
paesi della NATO avviata sin dai primi anni Novanta. Nel caso dell’Ucraina, si posero invece
questioni che non la resero possibile e che tutt’ora permangono alla base dell’attuale
situazione di conflitto fra Mosca e Kiev4.
In tale contesto, questo contributo intende ripercorrere – sulla base della letteratura
esistente – alcuni aspetti e momenti della politica estera della Federazione Russa dalla sua
istituzione all’intervento in Crimea nel 2014, con particolare riferimento alle relazioni con
l’Occidente. L’obiettivo è quello di fornire alcune chiavi di lettura che, in una prospettiva di
lungo periodo, possano contribuire a chiarire le ragioni di tale conflitto e il ruolo dei principali
attori coinvolti.
2. Dopo la guerra fredda: gli anni della collaborazione fra Federazione Russa e Occidente
Più volte, nel dibattito pubblico che ha accompagnato la narrazione del conflitto russo-
ucraino sin dal febbraio del 2022, si è fatto riferimento ad un passaggio del discorso che ad
aprile del 2005 Putin tenne all’Assemblea federale russa: la fine dell’URSS – affermò il leader
russo in quell’occasione – ha rappresentato «uno dei più grandi disastri geopolitici del secolo»,
la cui conseguenza più grande è stata la scomparsa della Russia come attore internazionale di
primo piano e come potenza euroasiatica5. Il riferimento era al periodo in cui, con la fine
della guerra fredda e per circa un decennio, la nuova Federazione Russa dovette
ridimensionare le antiche ambizioni dell’impero sovietico, stretta fra una profonda crisi
economica e sociale legata alla transizione all’economia di mercato e alla difficoltà di avviare
riforme politico-istituzionali, da una parte, e una serie di spinte indipendentiste che
l’attraversarono, specie nell’area del Caucaso, dall’altra6. L’avvio della transizione ad un
sistema che, nelle dichiarazioni di Boris Eltsin, puntava alla nascita di una democrazia di
mercato e di un sistema pluralistico generò una forte instabilità politica interna, alimentò un
costante malcontento popolare e una crescente opposizione all’interno della Duma nei
confronti delle scelte presidenziali, spesso espressione delle tensioni fra il centro e la periferia
della Federazione. La riforma costituzionale del 1993 aveva tentato di arginare questa
instabilità, concedendo ampi poteri al Presidente, ma la promessa transizione alla democrazia
GRAZIOSI, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, Bologna, 2010, p. 581 ss. Sul conflitto
nella ex Jugoslavia si veda J. PIRJEVEC, Le guerre jugoslave 1991-1999, Torino, 2014.
3 V. MASTNY, Eastern Europe and the early prospects for EC/EU and NATO membership. Ending the Cold War in Europe,
in Cold War History, 2009, n. 2, p. 203 ss. Sui rapporti tra Russia e Ucraina dal 1991 si veda anche A. GRAZIOSI,
L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia, Roma-Bari, 2022, prima parte.
4 Sulla storia dei rapporti fra Russia e Ucraina si rimanda alla sintesi offerta da S. A. BELLEZZA, Il destino
politica della Russia nel nuovo contesto internazionale, Roma, 2018, p. 85.
6 Sulle sfide poste alla Federazione Russa dopo la dissoluzione dell’Urss si veda A. GRAZIOSI, L’Unione Sovietica,
Bologna, 2011, p. 760 ss. Sulla politica estera russa in quella fase si veda, fra gli altri, P. J. S. DUNCAN, Russian
foreign policy from Eltsin to Putin, New York, 2009.
in Russia, di cui Boris Eltsin si era fatto promotore, non giunse mai a compimento7. Le
difficoltà del sistema politico e istituzionale si affiancarono alle difficoltà dell’economia russa
nel passaggio all’economia di mercato, che scelse le misure da “shock therapy” definite dalle
Istituzioni finanziarie internazionali: un processo di destatalizzazione dell’economia,
privatizzazione e liberalizzazione, in sintonia con l’approccio neoliberista, che ebbe
conseguenze tragiche sull’economia reale e sulle condizioni sociali del paese. Il passaggio da
un sistema caratterizzato da una forte ed estesa sicurezza sociale e del lavoro all’economia di
mercato generò, infatti, povertà, divisione sociale, aumento della criminalità e della violenza.
Inoltre, nel corso del decennio, il processo di liberalizzazione e di privatizzazione che
smantellò il sistema statale comportò una concentrazione della ricchezza nelle mani di un
gruppo di oligarchi che iniziò a condizionare le scelte politiche oltre che economiche del
paese. Infine, ancora alla fine del decennio, i sacrifici imposti dalle politiche economiche
dell’era Eltsin non generarono il benessere sperato e nel 1998 una nuova crisi economico-
finanziaria indusse a richiedere l’intervento del Fondo monetario internazionale8.
Crisi economica e debolezza dei centri politico-istituzionali costituirono terreno fertile
per i nazionalismi che, specie nel Caucaso, alimentarono le tendenze separatiste storicamente
presenti in quell’area. La Cecenia fu la prima e più spinosa questione con cui la nuova
leadership russa dovette confrontarsi negli anni Novanta, seguita dalle rivendicazioni sorte
in particolare in Daghestan, Georgia e Tagikistan9.
In questo quadro problematico, la Federazione Russa scelse di concentrarsi sulle
questioni interne, occupandosi della transizione post-comunista e di spegnere i focolai di
guerra all’interno del suo perimetro piuttosto che di costruire una identità forte in politica
estera. In tal senso, intraprese la strada dell’integrazione nel sistema economico
internazionale, necessario complemento della politica economica prescelta in quegli anni e
legata al fabbisogno di capitali per affrontare la crisi interna. In questo contesto va inquadrata
anche la volontà di mantenere la collaborazione con l’Occidente che datava alla Grande
Distensione10. Ciò consentì alla Federazione russa di conservare la posizione di rilievo nel
panorama internazionale ereditata dal passato sovietico: poté contare sul seggio permanente
che fu dell’Urss nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, su un arsenale nucleare intatto e
sull’inserimento in vari organismi internazionali, fra cui l’OSCE, il Consiglio d’Europa e il
G7 (divenuto, dopo il suo ingresso, G8).
Anche sul piano militare e strategico, la Russia dopo il 1991 puntò a mantenere
continuità nei rapporti con gli USA e la NATO costruito nell’ultima fase della guerra fredda.
Come è noto, fino al 1989 il sistema internazionale si era fondato sul concetto di deterrenza
nucleare sul quale le superpotenze costruirono il c.d. equilibrio del terrore. La minaccia
7 E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali, t. 3: Dalla fine della guerra fredda a oggi, Roma-Bari, 2016, p. 85 s.
Sulla Russia negli anni di Eltsin si vedano, fra gli altri, L. SHEVTSOVA, Yeltsin's Russia: Myths and Reality, Washington
D.C., 1999; A. BROWN, L. SHEVTSOVA, Gorbachev, Yeltsin, and Putin: Political Leadership in Russia’s Transition,
Washington D.C., 2013; A. P. TSYGANKOV , Russia’s Foreign Policy. Change and Continuity in National
Identity, Lanham, 2022, chapter 3.
8 S. HARTER, G. EASTER (eds.), Shaping the economic space in Russia: Decision making processes, institutions and adjustment
to change in the Eltsin era, Aldershot, 2000. Sulla shock therapy e sul dibattito sorto in merito al suo possible impatto
si veda: R. JOLLY, L. EMMERIJ, D. GHAI, F. LAPEYRE, UN Contributions to Development Thinking and Practice,
Bloomington, 2004, p. 156 ss.
9 R. C. NATION, Russia and the Caucasus, in Connections, 2015, n. 2, pp. 1-12. G. M. YEMELIANOVA, L. BROERS
(eds.), Routledge Handbook of the Caucasus, London-New York, 2020, part IV.
10 Sul legame fra la distensione e la fine della guerra fredda si vedano L. NUTI (ed. by), The Crisis of Détente in
Europe, cit. W. LOTH, Overcoming the Cold War. A History of Détente, Basingstoke-New York, 2002.
dell’uso dell’arma nucleare, scandito secondo livelli di allerta crescenti, consentì di evitare
uno scontro diretto fra Est e Ovest e spostò la conflittualità verso le periferie del sistema
bipolare11. Con la fine della guerra fredda, entrambe le superpotenze conservarono i loro
arsenali nucleari, pur continuando a mantenere il dialogo sulla limitazione degli armamenti
avviato sin dagli anni Settanta. In questa linea di continuità, la Federazione russa accettò la
proposta dell’amministrazione Bush di riportare in Russia l’intero arsenale atomico presente
nei siti del Kazakistan e dell’Ucraina (quest’ultima fino al 1993 era sede del terzo arsenale al
mondo per importanza). Gli accordi START (Strategic Arms Reduction Treaty) I e II furono
firmati rispettivamente a luglio del 1991 e a gennaio del 1993 da Stati Uniti e Russia. Nel
1992 ad essi si aggiunse il protocollo di Lisbona, con il quale Ucraina, Bielorussia e
Kazakistan accettarono di trasferire gli arsenali presenti sul loro territorio alla Federazione
russa, come successore dell’URSS. Nel 1994 un accordo fra Stati Uniti, Russia e Ucraina
definì questo passaggio e, di seguito, i rappresentanti di Mosca, Washington e Londra si
impegnarono a garantire la sicurezza dell’Ucraina negli anni a venire. Nel 2009 questo
accordo fu rinnovato, legandolo al trattato START II, in vigore fino al 2009 e poi sostituito
nel 2010 dal NEW START (Treaty on Measures for the Further Reduction and Limitation of Strategic
Offensive Arms), per limitare le testate nucleare e attivare sistemi di controllo reciprochi12.
In linea con la collaborazione fra Federazione Russa e Occidente fu anche
l’accettazione dell’allargamento ad Est della NATO, che Mosca accolse contando di poter
negoziare con gli USA e i paesi occidentali i passaggi successivi e mantenere la propria area
di sicurezza. A bilanciare l’ampliamento ad Est sostenuto dall’amministrazione Clinton – che
vide l’ingresso della Repubblica Ceca, dell’Ungheria e della Polonia nel 1999 –
l’amministrazione Clinton e i suoi alleati europei proposero un rafforzamento della
cooperazione con la Federazione Russa, da cui nacque l’accordo Partnership for Peace, firmato
nel 1994 fra Mosca e i paesi della NATO13. Parallelamente, la Federazione Russa firmò un
accordo di cooperazione con UE nel 1994, poi ratificato solo nel 1997 a causa della guerra
in Cecenia, e accettò l’avvio del processo di adesione all’UE dei paesi appartenuti al patto di
Varsavia, che si sarebbe completato fra il 2004 e il 2008 con l’esclusione di Ucraina,
Bielorussia, Moldavia e delle repubbliche caucasiche14.
L’Ucraina, in particolare, restò fuori da questo percorso seppure al suo interno le forze
favorevoli a questa apertura si rafforzarono sin dall’indipendenza. Fra anni Novanta e
Duemila il paese visse una forte instabilità interna in larga parte dovuta alla storica
contrapposizione fra correnti filo-russe, che chiedevano una stretta dipendenza da Mosca, e
correnti filo-occidentali, che invece invocavano un’apertura all’Occidente. Quest’ultima
istanza, analoga a quella emersa nei paesi dell’ex Patto di Varsavia, risultò sin dagli anni
Novanta estremamente problematica nel caso dell’Ucraina (così come per Bielorussia e
Moldavia) e delle repubbliche caucasiche. La permanenza di questi paesi nello spazio di
11 Su questo aspetto si rimanda a D. HOLLOWAY, Nuclear weapons and the escalation of the Cold War, 1945–1962, in
M. P. LEFFLER, O. A. WESTAD (eds.), The Cambridge History of the Cold War, vol. I, Cambridge, 2010, p. 376 ss.
12 Sugli accordi seguiti alla dissoluzione dell’Urss in materia di armamenti nucleari si veda, ad esempio, M.
BUDJERYN, Non-Proliferation and State Succession: The Demise of the USSR and the Nuclear Aftermath in Belarus,
Kazakhstan, and Ukraine, in Journal of Cold War Studies, 2022, n. 2, p. 46 ss.
13 H. BRANDS, From Berlin to Baghdad: America's Search for Purpose in the Post-Cold War World, Lexington, 2008, p.
171-182. J. GOLDGEIER, NATO Enlargement and the Problem of Value Complexity, in Journal of Cold War Studies,
2020, n. 4, p. 146 ss.
14 S. A. BELLEZZA, Stretti fra il diavolo e il profondo mare blu. L’incompiuta transizione dell’Europa orientale, in ID (a cura
sicurezza russo e fuori dalla NATO rappresentava una priorità per la Russia, che gli alleati
occidentali in quella fase compresero e appoggiarono15.
La collaborazione fra Mosca e le capitali occidentali iniziò ad incrinarsi nel corso dei
conflitti nella ex Jugoslavia16 e arrivò ad un punto di alta tensione nel 1999 nel contesto
dell’intervento militare della NATO in Kosovo, quando la Federazione Russa si oppose –
insieme alla Cina popolare – al bombardamento della Serbia17. Quella presa di distanza
avvenne alla vigilia del rilancio della politica estera russa, che all’inizio del nuovo millennio
fu possibile grazie al miglioramento delle condizioni economiche e sociali del paese, e
coincise con l’ascesa di Vladimir Putin.
Eletto capo del governo ad agosto del 1999 e Presidente ad interim a dicembre dello
stesso anno (confermato dall’esito elettorale del 2000), dopo il ritiro – e con il sostegno - di
Eltsin e della Duma, Vladimir Putin avviò subito una decisa svolta politica. All’interno, operò
per riportare l’ordine pubblico e per ricondurre i gruppi di potere nati negli anni di Eltsin
sotto il controllo statale; in Cecenia, diede una prova di forza contro i separatisti che gli valse
il plauso degli ambienti politici russi, da una parte, e la dura condanna delle opposizioni e
della stampa libera, dall’altra. Il contesto economico in cui furono condotte queste iniziative
fu particolarmente favorevole: fino alla crisi economica mondiale del 2007-2008, la
Federazione Russa registrò una crescita annua del PIL che si avvicinò in media all’8%
indicato da Putin come obiettivo nazionale. Ciò riportò la disoccupazione a livelli fisiologici
e contribuì al riassesto dei conti pubblici richiesto dal FMI. Inoltre, lo Stato assorbì la
proprietà dei media e dell’industria petrolifera e il valore del commercio estero su PIL passò
dal 17 al 50%. Il boom economico di quegli anni fu trainato dagli enormi ricavi derivanti
dell’esportazione di risorse energetiche (petrolio e gas), i cui prezzi in quegli anni – insieme
a quelli delle altre commodity – salirono vertiginosamente, spinti al rialzo dalla crescente
domanda globale18. Questo boom economico contribuì a consolidare l’immagine di Putin e
a raccogliere consenso popolare intorno alla sua figura. Giunto con questi risultati alle nuove
elezioni parlamentari a dicembre del 2003, egli ottenne una maggioranza ancora più ampia
che gli consentì di modificare la Costituzione, permettendo una sua rielezione alla Presidenza
della Repubblica a marzo del 2004. Da lì in avanti, egli creò un vero e proprio sistema si
potere, composto da Ministeri che si occupavano di questioni internazionali, servizi segreti
civili e militari, gruppi economici pubblici e privati. Inoltre, occupò lo spazio pubblico nei
media, censurando di fatto la stampa indipendente19.
Con queste premesse e in questo contesto, la Russia inizia a recuperare buona parte
delle sue ambizioni geopolitiche, cominciando a riconquistare posizioni in due direzioni
precise dello spazio post-sovietico. In primo luogo, il Caucaso, a partire dall’intervento in
15 Sul tema della sicurezza nello spazio post-sovietico si rimanda agli approfondimenti contenuti in R. E.
KANET (ed. by), Routledge Handbook of Russian Security, Abingdon-New York, 2019.
16 J. HEADLEY, Sarajevo, February 1994: the first Russia-NATO crisis of the post-cold war era, in Review of International
Cecenia del 1999 che attraverso un’operazione militare durissima - denunciato dalla stampa
indipendente20 – fu ricondotta sotto il controllo di Mosca nel 2003. Presentandola come
un’operazione contro il terrorismo internazionale di matrice islamica, Putin ottenne anche il
plauso della comunità internazionale e soprattutto dell’amministrazione di G. W. Bush –
dopo l’11 settembre 2001 impegnata nella lotta al terrore su scala globale – che gli riconobbe
il merito di aver debellato una delle centrali della rete di al-Qaeda21. Fu poi la volta della
Georgia, che nel 2004 vide la vittoria del leader Mikhail Saakashvili, su posizioni
filooccidentali, e l’avvio della rivoluzione delle rose, contro la quale Mosca scatenò
un’offensiva mediatica e militare che culminò nell’intervento armato del 2008. In
quell’occasione, il presidente Medvedev giustificò l’intervento come azione di salvaguardia
della popolazione russa presente sul territorio22.
Parallelamente, si rivolse alle repubbliche nate ai confini occidentali – Ucraina,
Bielorussia e Moldavia – dove agì sostenendo le correnti filo-russe all’interno di quei paesi
intervenendo nelle competizioni elettorali e condizionandone l’esito. Nel 2004, in Ucraina,
la rivoluzione arancione portò alla ribalta Yulia Tymoshenko, divenuta primo ministro un
anno dopo e rimasta alla guida del paese fino al 2010 con l’obiettivo di avviare un processo
di riforma interna che preparasse l’adesione all’UE. Mosca, tuttavia, riuscì a condizionarne
l’azione politica, anche attraverso la nota guerra del gas del 2006, determinando il suo
insuccesso politico e l’elezione di Viktor Yanukovych nel 2010 alla Presidenza della
Repubblica23.
Garantire la permanenza delle Repubbliche caucasiche e delle Repubbliche al confine
occidentale nel proprio perimetro di sicurezza (anche con l’intervento militare) costituì una
priorità della politica estera russa nella prospettiva di ritornare sulla scena mondiale come
grande potenza euroasiatica senza tuttavia allontanarsi dalla linea di collaborazione con
l’Occidente24. In tal senso, fino alla vigilia della guerra in Crimea, la linea adottata da Putin –
l’uomo dell’ordine, della stabilizzazione interna e della ripresa economica russa – trovò
appoggio in Occidente soprattutto per l’impegno comune nella lotta al terrorismo
internazionale subito dopo l’11 settembre, che Mosca utilizzò per giustificare le operazioni
militari in Cecenia e nell’intero Caucaso25. Tutto ciò avveniva nel contesto del progressivo
disimpegno di Washington in politica estera – eccezion fatta per le operazioni in Afghanistan
e Iraq – e ciò diede nuovo spazio al dinamismo russo, che tuttavia non entrò mai in
competizione con l’Occidente in questa fase. Vanno interpretati in questo senso alcuni
passaggi che segnarono la collaborazione fra Russia e NATO negli anni Duemila e che, come
nel decennio precedente, avvennero parallelamente all’ingresso di Bulgaria, Romania,
Lettonia, Estonia, Lituania, Slovenia e Slovacchia nell’organizzazione militare atlantica. Fra
questi passaggi vi furono l’istituzione del consiglio NATO-Russia nel 2002 a Pratica di Mare
e l’accordo di cooperazione del 2002 contro il terrorismo internazionale26.
Non mancarono, tuttavia, posizioni di dissenso, specie nei confronti della politica
statunitense, come nel caso della presa di distanza dall’invasione dell’Iraq nel 2003 o delle
sanzioni contro l’Iran per il programma nucleare. Questa minore attitudine alla
collaborazione fu incrementata subito dopo l’elezione di Medvedev nel 2008. Gli effetti della
crisi economica globale sul paese – con il ritorno di alti tassi di inflazione e disoccupazione
– dimostrarono i limiti delle riforme fino ad allora attuate e la dipendenza dell’economia russa
dall’andamento dei mercati internazionali. Ciò comportò una perdita di consensi al partito di
Putin (“Russia Unita”), che a dicembre del 2007 ottenne il 63 % dei voti alla Duma; l’anno
successivo, alle elezioni presidenziali che videro l’affermazione del candidato designato da
Putin, Dmitrij Medvedev, questi ottenne il 70 % dei voti. Poco dopo, Putin ottenne la carica
di Primo ministro, costruendo una diarchia consolidata fino al 2020 – quando Medvedev
divenne Vice Presidente del Consiglio di Sicurezza russo – che gli consentì di contrastare le
prime forme di dissenso interno, sfociate nel 2011 in proteste di piazza. La politica estera più
assertiva portata avanti sin da allora fu fondata su principi più definiti, elaborati con il
contributo di Sergej Lavrov, già vice ministro degli Affari Esteri sotto la presidenza di Eltsin
fra il 1992 e il 1994 e dal 2004 senza soluzione di continuità alla guida di quello stesso
ministero. Lavrov fu il principale fautore dell’idea che in sistema internazionale policentrico,
come quello degli anni Duemila, la Russia dovesse seguire una politica di “alleanze variabili”
a seconda delle contingenze e degli interessi nazionali27.
Così, nonostante le condanne che gli Usa e la comunità internazionale espressero per
la nuova repressione in Cecenia nel 2008 e per l’intervento in Georgia nel 2008 a sostegno
delle province secessioniste di Ossezia del Sud e Abkhazia – per giustificare il quale Mosca
invocò ancora una volta il precedente del Kosovo28 – continuò la collaborazione con gli Stati
Uniti. Proprio nel 2008, infatti, Mosca e Washington si accordarono sul rinvio dell’ingresso
di Georgia e Ucraina nella NATO al Summit della NATO a Bucarest nel 2008, una reciproca
intesa fra Washington e Mosca per rassicurare quest’ultima dopo che le rivoluzioni colorate
del 2004 avevano risollevato il tema dell’ancoraggio delle ex Repubbliche sovietiche
all’Occidente e posto in evidenza l’opposizione ai governi filorussi all’interno di quei paesi.
Quell’intesa fu mantenuta e, per certi versi, rafforzata durante la prima amministrazione
Obama, che al Summit NATO di Lisbona nel 2010 riuscì a consolidare la collaborazione
militare NATO-Russia e si aggiudicò anche la collaborazione di Mosca in Afghanistan. Inoltre,
proprio nel 2010 Stati Uniti e Russia firmarono il già citato trattato NEW START, che
dovrebbe restare in vigore fino al 2026 e che fino ad oggi non è stato denunciato dalle parti.
A sostenere tale ruolo fu una nuova narrazione che si affermò nel discorso pubblico
in Russia e che puntò a consolidare l’immagine di una comune radice identitaria del popolo
russo: l’antica Rus’ di Kiev, un insieme di tribù slave, baltiche e finniche che nel Medioevo si
insediarono su parte dell’attuale territorio ucraino, bielorusso e russo, culla dei popoli slavi
dell’Est e del cristianesimo ortodosso e nell’immaginario del nazionalismo russo considerato
il luogo di origine dell’identità russa. In ragione di questo passato, Mosca intendeva
proteggere le popolazioni di lingua russa e religione ortodossa per preservarne l’identità29. Più
che di un retaggio storico, si trattava di un mito che Putin e il suo entourage alimentarono,
con il sostegno pieno della Chiesa ortodossa russa e il fondamento teorico della tesi della
“democrazia sovrana”, fornito nel 2005 da Vladislav Surkov, allora vicedirettore
dell’Amministrazione presidenziale della Federazione Russa30.
SALOMONI, Teorie della sovranità nell’età di Putin, in DPCE online, 2020, n. 3, p. 3983 ss.
Una serie di provvedimenti adottati negli stessi anni andò nella medesima direzione: si
riproposero le antiche effigi dell’Impero russo, inserendo le insegne degli zar nella bandiera
nazionale e sulle divise dell’esercito; si ripresero antichi paradigmi della politica estera
sovietica. Fra questi ultimi, furono costantemente richiamati nei documenti ufficiali e nel
dibattito pubblico – sempre più controllato e guidato dal governo – la priorità assegnata alla
difesa delle frontiere e alla sicurezza contro i nemici della Federazione e delle popolazioni
russofone (fossero il nazifascismo, il terrorismo islamico o l’Occidente decadente); la capacità
dei russi di rialzarsi dopo momenti di crisi – in primis dopo la sconfitta del nazifascismo e
dopo la ricostruzione post-bellica –; il ruolo della Chiesa ortodossa come elemento unificante
del popolo russo (dentro e fuori i confini della Federazione) sul piano culturale e religioso; il
richiamo costante alla guerra di liberazione contro il nazifascismo – il “giorno della vittoria”
celebrato il 9 maggio – come fattore identitario e la cancellazione delle ricorrenze legate alla
rivoluzione d’ottobre e al comunismo, considerate invece come momento divisivo31.
La conferma di Putin per un nuovo mandato presidenziale nel 2012 aprì la fase
successiva, segnata dal lancio di un nuovo concetto di politica estera varato un anno dopo.
Fra gli obiettivi, vi era anche quello di creare strumenti per influenzare il modo in cui la Russia
era vista nel mondo e per contrastare le minacce alla sua sovranità (anche finanziando gruppi,
associazioni, partiti o altri soggetti che, a vari livelli, potessero contribuire a diffondere la tesi
della democrazia sovrana e l’immagine forte della Russia rispetto, ad esempio, alla debolezza
e alla frammentazione dell’Unione europea e dei suoi stati membri)32. Sul piano delle relazioni
interstatali, il nuovo concetto di politica estera conteneva un riferimento al proposito di
contribuire a costruire l’architettura internazionale, valorizzando i legami con gli attori extra-
europei non occidentali.
Ad Est, si rafforzò la collaborazione con la Cina, già buona a partire dagli anni 2000,
quando una serie di passaggi contribuirono a rinsaldare quel legame. Nel 2006, l’ascesa di
nuove potenze economiche mondiali fu formalizzata con l’istituzione del gruppo dei BRIC
(nel 2010 con l’ingresso del Sud Africa BRICS), che per la Russia rappresentò un’occasione
per proporsi come parte del gruppo di punta dei paesi emergenti portatori di un modello di
valori alternativo a quello occidentale33. I punti di contatto con la Cina riguardarono l’aspetto
economico ma anche quello della sicurezza, dagli anni dell’assistenza militare alla Cina dopo
i fatti di Piazza Tienanmen fino alla nascita della Shanghai Cooperation Organization, nel 200134.
Un’altra direttrice dell’interesse russo si diresse verso i paesi dell’America latina, partner
commerciali interessanti e dal peso crescente a livello globale, specie negli anni del boom delle
commodity, e interlocutori sensibili non semplicemente alla vecchia retorica anti-imperialistica
di matrice sovietica (che fu rispolverata, ad esempio, nei rapporti con Cuba e Nicaragua) ma
anche rispetto alle prese di posizione anti-statunitense dei primi anni Duemila (ad esempio,
l’opposizione alla guerra in Iraq e più in generale agli interessi statunitensi nell’area, come nel
caso del Venezuela di Chavez)35.
of the BRICS and SCO summits, in Rivista di Studi Politici Internazionali, 2015, n. 3, p. 457 ss.
34 O. BONDARENKO, Oltre il passato. Una nuova fase delle relazioni sino-russe?, in S. E. BELLEZZA (a cura di), Atlante
geopolitico dello spazio post-sovietico, cit., p. 211 ss. F. BETTANIN, Putin e il mondo che verrà, cit., p. 261 ss.
35 G. PALAMARA, C. SCOCOZZA, La riscoperta di un interesse. Le relazioni russo-latinoamericane dopo la guerra fredda, in
R. NOCERA, P. WULZER (a cura di), L’America latina nella politica internazionale, Roma, 2020, p. 169 ss.
Infine, una presenza forte e dinamica si manifestò in Medio Oriente e nel continente
africano, soprattutto in coincidenza con le rivoluzioni arabe del 2011. È in questo scenario
di crisi che si deteriorarono i rapporti con l’amministrazione Obama, sostenitrice degli
oppositori di Bashar al-Assad – successore dello storico alleato di Mosca negli anni della
guerra fredda – con il quale Medvedev si schierò sin dall’inizio del conflitto in Siria. In quello
scenario, così come in Libia dopo la morte di Gheddafi, la Russia ebbe l’opportunità di
inserirsi come attore primario, anche a causa del progressivo disimpegno Occidentale36.
I legami con queste aree extra europee si accentuarono dopo il 2014, l’anno
dell’intervento russo in Ucraina e dell’operazione militare in Crimea37. Con l’elezione di
Janukovych nel 2010 le correnti filo-russe ebbero la meglio nel paese e tre anni dopo
riuscirono a bloccare la ratifica l’accordo di associazione con l’UE. Da lì nacquero le proteste
dell’Euromaidan che proseguirono fino al 2014, quando l’intervento russo in Crimea e il
referendum aprirono un nuovo elemento di conflitto non solo con la Russia ma anche
all’interno del paese fra separatisti filorussi nel Donbass e truppe ucraine. Gli interessi russi
nella penisola erano antichi e si legavano alla necessità di controllare il bacino del Mar Nero
e la navigazione verso il Mediterraneo (questione che aveva contrapposto l’Impero zarista
all’Impero ottomano e poi l’Urss alla repubblica turca)38.
I tentativi di concludere le ostilità condussero, a settembre del 2014, al primo
accordo di Minsk, con il quale Ucraina, Russia e i separatisti filorussi del Donbass, sotto
l’egida dell’OSCE, concordarono un cessate il fuoco, che prevedeva tra le altre cose lo
scambio di prigionieri, la distribuzione di aiuti umanitari, il ritiro di armi pesanti e una
maggiore autonomia per le regioni separatiste. L’accordo non fu attuato per la ripresa di
ostilità fra le parti e ancora, a febbraio del 2015, Russia e Ucraina firmarono un nuovo
accordo, stavolta insieme a Francia e Germania, che prevedeva la fine delle ostilità e il
monitoraggio dell’OSCE sulla tregua, il ritiro delle armi pesanti da entrambe le parti e
l’evacuazione di tutte le formazioni armate straniere. Inoltre, l’accordo c.d. di Minsk 2
ribadiva la necessità di consentire alle regioni Donetsk e Lugansk forme avanzate di
autogoverno e il riconoscimento di uno status speciale a livello costituzionale. Anche
quest’ultimo accordo non fu attuato per le tensioni persistenti fra le parti. Dal canto suo, il
governo di Kiev non raggiunse al suo interno un accordo sulla definizione di statuto speciale
al Donbass e un minimo riconoscimento delle rivendicazioni russe, ma piuttosto denunciò
che le forze armate stanziate in quel territorio provenivano da Mosca e che ciò comportava
una minaccia all’integrità territoriale del paese. Con l’occupazione della Crimea e il conflitto
nel Dombass, la dura presa di posizione dell’amministrazione Obama (che già un anno prima
era in rotta con Mosca per l’asilo concesso a Snowden) e della comunità internazionale e le
successive sanzioni occidentali, i rapporti fra Stati Uniti e Federazione Russa arrivarono ad
un punto di rottura. Da quel momento la collaborazione precedente si interruppe e iniziò
l’appoggio costante e sistematico dell’Occidente – sebbene non univoche – alle richieste
ucraine di ancoraggio alla NATO e alla UE39.
36 R. ALLISON, Russia and Syria: explaining alignment with a regime in crisis, in International Affairs, 2013, n. 4, p. 795
ss. Sull’avvio delle rivoluzioni arabe si rimanda a M. EMILIANI, Medio Oriente. Una storia dal 1991 a oggi, Roma-
Bari, 2012.
37 Sull’intervento in Crimea e sulle sue conseguenze si veda C. PLESHAKOV, The Crimean Nexus. Putin’s War and
Sin dal 2014, la prospettiva di una soluzione politica al conflitto fra Russia e Ucraina è
risultata estremamente complessa da realizzare. La contrapposizione, già presente
storicamente nel territorio, fra correnti filo-russe che volevano una stretta dipendenza da
Mosca e correnti filo-occidentali che invece invocavano una apertura all’Occidente, non è
mai venuta meno nonostante gli accordi di Minsk 1 e Minsk 2, tanto che dal 2014 e fino
alla vigilia della operazione militare russa del 24 febbraio 2022 il conflitto nell’area del
Dombass è andato avanti, benché definito a “bassa intensità”, mantenendo alta la tensione
nell’area40.
4. Conclusioni
40
A. GRAZIOSI, L’Ucraina e Putin, cit.
41 Sul concetto di sicurezza alla base della politica estera sovietica si veda V. ZUBOK, A Failed Empire: The Soviet
Union in the Cold War from Stalin to Gorbachev, University of North Carolina Press, 2007.
42 Una delle questioni spesso menzionate è quella dell’Alto Adige, che nel secondo dopoguerra poté essere
affrontata attraverso la concessione e l’attuazione da parte del governo italiano di forme avanzate di autonomia
costituzionalmente garantite. Si veda a proposito G. BERNARDINI, G. PALLAVER, Dialogo vince violenza. La
questione del Trentino-Alto Adige/Südtirol nel contesto internazionale, Bologna, 2015.
di giocare un ruolo di interlocutore autorevole per tutte le parti coinvolte, ruolo che sin
dall’inizio del conflitto si è rivelato estremamente rilevante rispetto a quello occidentale,
mostrando concretamente quanto le relazioni internazionali siano ormai transitate verso un
sistema lontano dall’ordine internazionale liberale costruito dopo la seconda guerra mondiale.
In tal senso, una soluzione politica del conflitto – e non una vittoria di un attore sull’altro,
come invece sembra trasparire dalle posizioni ufficiali espresse nel dibattito pubblico dai
maggiori paesi coinvolti, con l’unica eccezione della Santa Sede – potrebbe passare attraverso
i canali della diplomazia multilaterale, come ha indicato il piano italiano presentato all’ONU
pochi mesi dopo lo scoppio del conflitto43, per coinvolgere tutti gli attori in gioco, stabilire il
cessate il fuoco e affrontare la fase negoziale successiva. Il punto di approdo indicato da
molti leader politici, nonché da molti autorevoli osservatori, potrebbe essere una conferenza
multilaterale per la pace e la sicurezza in Europa – una nuova Conferenza di Helsinki – che
consentirebbe di collocare l’auspicato accordo fra le parti in un quadro più ampio di
cooperazione sull’insieme di questioni (economiche, politiche, militari) che questo conflitto
continua a porre all’intera comunità internazionale44.
43T. CIRIACO, La pace in 4 tappe. Sul tavolo dell'Onu arriva il piano del governo italiano, in Repubblica, 19 maggio 2022.
44A. GIOVAGNOLI, Una conferenza. Magari a Roma. Si pensi già il dopoguerra, in Avvenire, 21 maggio 2022. M. POLITI,
È l’ora di un nuovo patto di Helsinki, in Micromega, 23 gennaio 2023, https://www.micromega.net/e-lora-di-un-
nuovo-patto-di-helsinki/.