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Heidegger, Martin

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Filosofo tedesco (Messkirch, Baden, 1889 - Friburgo 1976). Compì gli studi universitari a Friburgo in Brisgovia, dove conseguì la laurea in filosofia nel 1913 con una tesi su Die Lehre vom Urteil in Psychologismus, pubblicata nel 1914, e la libera docenza con H. Rickert nel 1916 con lo scritto su Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, pubblicato nello stesso anno. Esercitò la libera docenza all'univ. di Friburgo dal 1915 al 1923 e fu assistente di Husserl, che era succeduto a Rickert nel 1916. Nel 1923 fu chiamato come professore straordinario all'univ. di Marburgo. Nel 1927 pubblicò Sein und Zeit, sicuramente la sua opera più importante. Nel 1928 tornò all'università di Friburgo quale successore di E. Husserl e come professore ordinario, e nel 1929 pubblicò la prolusione Was ist Metaphysik?; nello stesso anno comparvero Kant und das Problem der Metaphysik e lo scritto Vom Wesen des Grundes. Nel 1933 fu eletto rettore dell'università di Friburgo, e aderì al nazionalsocialismo pronunciando la prolusione dal titolo Die Selbstbehauptung der deutschen Universität. Ma già nell'anno seguente si dimise da rettore e si distaccò completamente dalla vita politica dedicandosi esclusivamente all'insegnamento. Di questo periodo è la conferenza romana del 1936 su Hölderlin und das Wesen der Dichtung, pubblicata nel 1937, a cui seguirono nel 1942 il saggio su Platons Lehre von der Wahrheit, nel 1943 Vom Wesen der Wahrheit e infine, nel 1944, Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung. Dal 1945 al 1951 gli fu vietato l'insegnamento dalle potenze occupanti e di questo periodo è l'importante Brief über den Humanismus (1946), dove prende le distanze dalle interpretazioni esistenzialistiche del suo pensiero e annuncia la "svolta" del pensiero in direzione del linguaggio come "dimora dell'essere"; molto importante pure la raccolta di saggi Holzwege (1950), in particolare per la concezione dell'arte come intrinseco accadere della verità e, quindi, per una concezione della verità diversa tanto dai modelli formali e scientificizzanti quanto dalle concezioni proprie delle forme correnti di storicismo. Nel 1951 H. poté riprendere l'attività di docente (dal 1952 come professore emerito) tenendo corsi e seminarî all'univ. di Friburgo e pubblicò una nutrita serie di scritti: nel 1953, l'Einführung in die Metaphysik, che riproduce il testo di lezioni tenute nel 1935; nel 1954, Vorträge und Aufsätze e Was heisst Denken?; nel 1956, Zur Seinsfrage; nel 1957, Der Satz vom Grund e Identität und Differenz; nel 1959, Unterwegs zur Sprache, l'opera forse più importante per le interpretazioni ermeneutiche della filosofia heideggeriana; nel 1961, Nietzsche, due importanti volumi che riprendono corsi universitari degli anni Trenta e Quaranta e che hanno avuto un ruolo determinante soprattutto in Francia e in Italia per la ripresa del problema del nichilismo in rapporto agli sviluppi della metafisica e della tecnica come "destino" dell'Occidente; nel 1962, Die Frage nach dem Ding e nel 1963, Kants These über das Sein; nel 1970, Phänomenologie und Theologie e nel 1971, Schellings Abhandlung vom Wesen der Freiheit, dove sono riprese le lezioni del 1936 sullo stesso tema. Dal 1975 è in corso l'edizione completa delle opere di Heidegger. La straordinaria risonanza avuta da Sein und Zeit può apparire a prima vista sorprendente soprattutto se si pensa a quello che è propriamente il suo tema: riprendere quel problema della molteplicità dei sensi dell'essere che era già stato avvertito e impostato da Aristotele e dal pensiero greco, e che poi era stato sempre più relegato, in quanto "metafisica", nell'oblio o nell'insignificanza. Tuttavia la peculiarità di quest'opera e il fatto che, anche contro le intenzioni del suo autore, sia stata intesa come un manifesto della filosofia dell'esistenza si spiegano in quanto la ripresa del problema dell'essere passa necessariamente attraverso lo studio di quell'ente che è l'uomo o, come H. preferisce dire, l'"esserci" (Dasein). L'"esserci" infatti non è un ente che si trova soltanto in mezzo agli altri come una cosa, ma è sempre caratterizzato da un rapporto di "comprensione" preliminare dell'essere degli enti con i quali si trova in rapporto e del proprio essere; così pure l'"esserci" è un ente che, a differenza degli altri, ha come propria dimensione la capacità di interrogarsi sull'essere, di tematizzare esplicitamente il problema del senso dell'essere. L'ontologia quindi deve necessariamente prendere le mosse dall'"analitica esistenziale", ossia dallo studio dei modi in cui l'"esserci" si rapporta all'essere, "esiste" (questo è il senso specifico che H. attribuisce alla parola "esistenza" per indicare l'essenza dell'"esserci", a differenza dell'uso tradizionale che vedeva nell'esistenza la semplice realizzazione, attualità di essenze a essa presupposte); infatti non solo non è possibile attingere altrimenti o in forma diretta l'essere, ma ogni comprensione dell'essere è già sempre collegata al modo in cui l'"esserci" è costitutivamente disposto verso il mondo e verso gli altri. Perciò a differenza della tradizione, dove spesso la metafisica è intesa come sforzo di trascendere la finitezza, per H. metafisica e finitezza sono inscindibili, poiché l'interrogazione sull'essere avviene sempre necessariamente all'interno di un "esserci" che è un "progetto gettato", ossia di un ente che si trova sempre nel mondo come rinviato a degli altri enti e perciò stesso è finito. L'importante però è cogliere il senso della traiettoria che l'interrogazione sull'essere descrive all'interno della finitezza, poiché l'"esserci" si trova inizialmente "gettato" nel mondo in condizioni di "deiezione", ossia in un rapporto di dispersione e di impersonalità, quel rapporto che è ben espresso dall'uso corrente di nozioni come "si dice", "si fa", ecc. Dallo stato di deiezione in cui l'essere è celato a sé stesso, l'"esserci" viene fuori attraverso l'angoscia che non è il timore di questa o quella cosa determinata, bensì il senso della nullità totale e fondamentale dell'essere del mondo; è l'angoscia dunque che dischiude all'"esserci" il vero senso del suo rapportarsi agli enti prendendone "cura" e, viceversa, la cura non è un rapporto agli enti puramente teoretico o puramente pratico, bensì qualcosa di più originario e fondamentale, quale anticipazione del possibile esito di tale rapporto, un esser-già-sempre-avanti-a-sé dell'"esserci" nel suo considerarsi come possibilità. Ciò che consente però all'"esserci" di superare la dispersione di tali rapporti e in tali rapporti è l'anticipazione della morte quale unica possibilità autentica e totalizzante delle diverse possibilità dell'"esserci", che ne manifesta l'interna storicità e temporalità. L'uomo infatti "esiste" storicamente e temporalmente non perché vive "nel" tempo o in una storia che lo condiziona dall'esterno, ma perché propriamente l'essenza dell'"esserci", la sua "ex-sistenza", è un "temporalizzare", un di spiegarsi nelle dimensioni temporali, il passato, il presente, il futuro nell'orizzonte delle quali si colloca e spiega la comprensione dell'essere. Attraverso l'analitica esistenziale si giunge così non solo a comprendere come decisivo per l'ontologia il rapporto tra essere e tempo, ma anche a gettare nuova luce sull'intera storia della metafisica e a scoprirne i limiti; le concezioni inadeguate dell'essere o, addirittura, l'occultamento del problema dell'essere si rivelano infatti risultato non di errori più o meno casuali, ma del privilegiamento di una dimensione del tempo, e cioè del presente, per cui l'essere degli enti è stato ridotto alla loro presenza e disponibilità. L'inizio di questo processo - su cui H. torna ripetutamente nelle opere successive a Sein und Zeit - si ha in Grecia e con Platone, quando la verità, anziché come disvelamento dell'essere, viene intesa come idea, come presenza visibile all'intelletto, quindi come esattezza. Come espressione adeguata della verità viene quindi considerata la proposizione o, meglio, quelle forme di proposizione e di giudizio che siano conformi alle regole della logica, mentre soltanto nell'arte e nel linguaggio permane ancora traccia e sentore del significato originario della verità, occultato dalla metafisica. A sua volta la metafisica non va intesa come una semplice dottrina o una semplice parte della filosofia, bensì come qualcosa che ha permeato e permea in modo decisivo l'intera civiltà occidentale, determinandone il destino, e sta ora estendendo il suo dominio sull'intero pianeta, poiché se è scomparsa o ha perso credito come dottrina, in effetti si è realizzata attraverso la scienza e la tecnica come calcolo e volontà di potenza. Di qui l'importanza del confronto con Nietzsche che, secondo H., sta in un certo senso al culmine dello sviluppo della metafisica, poiché ne ha individuato con lucidità il carattere di volontà di potenza; anche Nietzsche però rientra nella storia della metafisica poiché non è stato abbastanza radicale nella sua critica della metafisica, in quanto ha ancora pensato in termini di "valori", auspicando con il "superuomo" la sostituzione dei valori ormai consunti e rivelatisi ingannevoli con altri nuovi e più autentici. Occorre invece andare a fondo nella critica della metafisica, mettendo in luce quanto di metafisico vi è anche nella nozione di uomo quale si è tradizionalmente affermata: per questo H., nella celebre polemica contro Sartre nel Brief über den Humanismus prende decisamente posizione contro qualsiasi forma di umanismo considerandolo solidale alla metafisica e all'oblio della differenza ontologica, ossia della differenza tra l'essere e gli enti da cui la metafisica è scaturita ed è condizionata. Questo tema è essenziale per comprendere l'interpretazione heideggeriana del nichilismo che non può essere considerato come qualcosa di semplicemente storico-culturale, come una forma di decadenza a cui si può reagire con questa o quella terapia culturale (come in un certo senso anche Nietzsche auspicava). Perfino il nichilismo come decadenza, il nichilismo per così dire "inautentico", si spiega soltanto in base al nichilismo "autentico", ossia alla funzione del nulla che condiziona la finitezza degli enti e la loro differenza dall'essere e che nella storia della metafisica è stato in parte celato e occultato. In un quadro così sconfortante della situazione contemporanea, una situazione di "indigenza" nella quale gli dèi del passato sono scomparsi, ma ancora non si intravede l'avvento di nuovi, il rapporto alla verità rimane sostanzialmente affidato all'"ascolto" dell'essere che ha la dimora nel linguaggio, all'interpretazione della parola dei poeti, secondo quella "svolta" del pensiero di cui H. ha parlato nel Brief über den Humanismus. Si afferma così un concetto di verità diverso da quello della logica e delle scienze e di cui si può considerare come testimonianza quell'"accadere" dell'opera d'arte che è un accadere intrinsecamente storico, proprio come il linguaggio è propriamente un'apertura di senso che è sempre "per via", essendo la verità un continuo sottrarsi e disvelarsi nell'orizzonte della finitezza. Per questi ultimi sviluppi il pensiero heideggeriano è stato accostato da un lato anche a correnti recenti del pensiero anglosassone come l'ultimo Wittgenstein e, più in generale, l'analisi del linguaggio comune, e, per altro verso, ha alimentato e promosso un rinnovato interesse per l'ermeneutica; proprio perché il linguaggio è l'autentica dimora dell'essere, l'interpretazione non è più un metodo peculiare di questa o quella scienza o disciplina, ma è il processo fondamentale del pensiero e si pone perciò al centro non solo della teologia e dell'estetica, della coscienza storica e della linguistica, ma dell'intera filosofia.

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